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Divorziati risposati, le ambigue soluzioni dei “pietisti”


Si usano le situazioni difficili per proporre cambiamenti pastorali che in realtà cambiano o ignorano la dottrina. E sui media è gioco facile l’annuncio dell’arrivo una nuova Chiesa non più sottomessa ai vincoli del dogma e della morale, aperta alle istanze della “base” e pronta a cancellare gli “storici steccati” che separano i cattolici da protestanti e ortodossi.

di monsignor Antonio Livi

A margine delle discussioni che hanno preceduto e tuttora accompagnano il Sinodo straordinario sulla famiglia (5–19 ottobre 2014) va osservato il continuo e crescente avvicendarsi di “cattivi maestri” e di “falsi profeti” che annunciano come già in arrivo una nuova Chiesa non più sottomessa ai vincoli del dogma e della morale, aperta alle istanze della “base” e pronta a cancellare gli “storici steccati” che separano i cattolici dai protestanti e dagli ortodossi.

Molti studiosi italiani hanno messo in evidenza la deriva “anti-dogmatica”, o meglio “a-dogmatica” di questi discorsi, recepiti con entusiasmo (naturalmente!) dai media laicisti, dalla Repubblica al Sole24Ore e alla Stampa (qui scrive tra gli altri Gianni Vattimo, il filosofo del «pensiero debole», che già vent’anni fa chiedeva a gran voce un «cristianesimo senza papa e senza dogmi»). Io ne ho parlato approfonditamente nel mio trattato su Vera e falsa teologia (2012) e più recentemente pubblicando una raccolta di scritti del cardinale Giuseppe Siri che ho intitolato Dogma e liturgia (2014). Ma anche papa Benedetto XVI aveva sapientemente precisato che «pastorale e dogma s’intrecciano in modo indissolubile; è la verità di Colui che è a un tempo “Logos” e “Pastore”, come ha profondamente compreso la primitiva arte cristiana, che raffigurava il Logos come Pastore e nel Pastore scorgeva il Verbo eterno che è per l’uomo la vera indicazione della vita».

Sull’argomento è poi tornato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In un libro-intervista che è uscito un mese fa contemporaneamente in Italia, in Spagna e negli Stati Uniti (l’edizione italiana, a cura dell’Ares, si intitola La speranza della famiglia), il porporato tedesco ha messo molto bene in evidenza il carattere a-dogmatico delle proposte di cambiamento della prassi ecclesiastica a riguardo del matrimonio e della famiglia.
I cardinali Muller e Kasper

Nel denunciare l’impossibilità di accettare quelle proposte – che, secondo Walter Kasper e tanti altri, sarebbero giustificate dai mutamenti sociali in atto e dall’insofferenza di molti fedeli alla morale cattolica – il cardinale Müller ha detto con grande precisione teologica: «Un semplice “adattamento” della realtà del matrimonio alle attese del mondo non dà alcun frutto, anzi risulta controproducente: la Chiesa non può rispondere alle sfide del mondo attuale con un adattamento pragmatico. Opponendoci a un facile adattamento pragmatico, siamo chiamati a scegliere l’audacia profetica del martirio. Con essa, potremo testimoniare il Vangelo della santità del matrimonio. Un profeta tiepido, mediante un adeguamento allo spirito dell’epoca, cercherebbe la propria salvezza, non la salvezza che solamente Dio può dare».

Sono stati tanti i cardinali (oltre al già citato Gerhard Ludwig Müller, ricordo Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Walter Brandmüller, Thomas Collins e Raymond L. Burke) che hanno voluto pubblicare degli scritti per opporsi, con argomentazioni serene e soprattutto pertinenti, al tentativo di fare pressione sul Sinodo nella speranza di ottenere un pronunciamento della maggioranza dei centonovantuno padri sinodali e addirittura di papa Francesco a favore del cambiamento della prassi pastorale della Chiesa.

Ciò peraltro non è possibile che accada, perché costituirebbe un sostanziale cambiamento della Chiesa stessa, ossia l’avvento di quella nuova Chiesa a-dogmatica che da anni tanti cattivi maestri come Hans Küng e tanti falsi profeti come Enzo Bianchi vanno annunciando e preparando (preparando con l’annunciarla), senza peritarsi di attribuire allo stesso papa Francesco i loro disegni rivoluzionari. L’attuazione di tali disegni, per quanto riguarda la pastorale del matrimonio e della famiglia, comporterebbe l’abolizione dell’enciclica Humane vitae (Paolo VI) e dell’esortazione apostolica Familiaris consortio (Giovanni Paolo II), oltre naturalmente ai canoni del Concilio ecumenico di Trento sui sacramenti del Matrimonio, dell’Eucaristia e della Penitenza.

Insomma, ci sono solide ed evidenti ragioni per rassicurare quei fedeli che possono essere stati turbati da tante estemporanee e imprudenti esternazioni di alcuni teologi, sia veri (come Dionigi Tettamanzi) che presunti (come Gianfranco Ravasi), i quali si sono dichiarati convinti delle argomentazioni di Walter Kasper sulla necessità di riformare la pastorale. Io vado ripetendo a tutti di stare tranquilli, perché la fede e la speranza teologali ci assicurano dell’indefettibilità della Chiesa, garantita da Cristo stesso, e ciò vuol dire che nessuna maggioranza sinodale (e tanto meno una minoranza, per quanto vociante) finirà per imporre al papa l’autodistruzione della Chiesa, che Cristo gli ha affidato per governarla in suo nome, come suo Vicario.

Ma prima, oltre a queste considerazioni propriamente teologiche, ho voluto citare una frase del cardinale Gerhard Ludwig Müller perché serve a integrare il discorso con l’opportuno richiamo alla categoria logico-retorica del “pragmatismo”. Il pragmatismo è infatti la versione “performativa” (ossia, operativa) del relativismo, sotto la cui dittatura viviamo ufficialmente dai tempi di papa Benedetto XVI, che la denunciò vigorosamente. L’«adattamento pragmatico» di cui parla Müller consiste nell’adattare la Chiesa alle (presunte) nuove istanze dei fedeli, e anche degli infedeli, ai quali si vuol apparire dialoganti sempre e a ogni costo. Ciò implica la decisione di mettere in soffitta il dogma, appellandosi alle sole (presunte) esigenze di azione pastorale nella liturgia, nella catechesi, nell’amministrazione dei sacramenti. Si dice infatti e si ripete che «la dottrina non viene toccata ma si affrontano le sfide della società di oggi». In altri termini, la dottrina da una parte e la pastorale dall’altra. Qualcosa come “i commenti separati dalle notizie”, come dicevano i settimanali politici di un tempo.

Ma che cosa vuol dire in concreto, che «la dottrina resta immutata mentre la pastorale deve cambiare per adeguarsi ai tempi»? Prima ancora di discutere se questa affermazione è ortodossa, bisogna chiedersi se ha senso. La risposta che io, come studioso di logica e di filosofia del linguaggio, ritengo che si debba dare è che frasi di questo genere non hanno di per sé alcun senso.

In effetti, la pastorale è un insieme di decisioni, di iniziative, di scelte, insomma di azioni, i cui soggetti sono persone consapevoli e (si spera) responsabili. Ora, qualunque azione umana, sia di un singolo come privato sia di un singolo come rappresentante di un’istituzione, è regolata intrinsecamente – a rigor di logica, e dalla logica non si scappa – da un’intenzione, da un criterio, quindi in definitiva da dei principi, dunque da una dottrina. Di conseguenza, quando certi teologi e anche certi ecclesiastici con autorità episcopale dicono che cercano soluzioni “pastorali” diverse da quelle che la Chiesa ha adottato finora, e aggiungono che però non intendono cambiare la dottrina, dicono una cosa assolutamente illogica, una cosa che essi vorrebbero fosse presa per buona (ossia, come un’ipotesi plausibile) da parte del pubblico al quale si rivolgono, ma che loro per primi sanno che non ha alcun senso. In realtà quelle frasi sono mera retorica, una cortina fumogena che serva a nascondere i veri obiettivi, i fini reali dei cambiamenti che si vogliono attuare.

Non posso certamente sapere che cosa costoro hanno in mente e nella coscienza, ma – stando alla logica dei fatti (e i discorsi sono anch’essi dei fatti) – le possibilità sono solo due: o quelle frasi nascondono l’intenzione di cambiare davvero la dottrina, ma senza dirlo esplicitamente (il che sarebbe proprio da ipocriti, e quindi certamente non è il caso delle persone cui mi riferisco); oppure nascondono un’intenzione che in astratto può apparire meno eterodossa ma in pratica costituisce una minaccia grave per la fede cattolica: l’intenzione di lasciare la dottrina della Chiesa così com’è, senza introdurre cambiamenti formali ma senza nemmeno applicarla alla vita della Chiesa, il che significa cominciare (o continuare) ad agire nella prassi pastorale secondo altri principi e altri criteri: altri principi e altri criteri, che allora sarebbero non-dottrinali, estranei cioè al dogma, quindi indipendenti da quello che Dio ha rivelato come verità salvifiche e che ogni fedele è tenuto a credere nel proprio cuore, a professare esteriormente e a vivere personalmente. Quindi non si tratterebbe di criteri teologici ma di criteri umani, sostanzialmente politici, come si deduce dal linguaggio usato nei loro messaggi e dai mezzi adoperati per diffonderlo nell’opinione pubblica.

Si tratta di un fenomeno (negativo) di comunicazione sociale che sto studiando da anni nel linguaggio di coloro che parlano di filosofia. Anche tra i filosofi la retorica (l’ambiguità del linguaggio, la sollecitazione dei sentimenti più superficiali e degli ideali utopici, la restrizione mentale) sostituisce troppo spesso l’argomentazione razionale, l’onesta manifestazione dei principi dai quali si parte e dei fini che ci si prefigge. E sempre, quando si agisce con fini politici, l’arma della propaganda si basa sulla suggestione delle parole che ipostatizzano concetti astratti (la Storia, il Futuro, il Cambiamento, il Progresso, l’Apertura), nella speranza che il pubblico non si accorga che manca qualsiasi forma di coerenza logica tra questi termini e il “senso comune”, ossia l’esperienza esistenziale, concreta, di tutti gli uomini.

Analogamente, molti all’interno della Chiesa si servono della retorica per attuare i loro fini politici, e così facendo uniscono le loro forze alle forze politiche che dall’esterno combattono la vera Chiesa di Cristo. So benissimo che la retorica può essere anche finalizzata a veicolare idee buone (lo insegnava Aristotele molti secoli or sono), così come può essere buona anche la politica. Ma quando la retorica è l’arma che si adopera per trionfare in una discussione teologica come quella che riguarda i problemi della pastorale che il Sinodo sta affrontando, allora la politica (i fini) non può essere buona, perché la missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di “fare politica” ma di evangelizzare, santificare, governare in nome di Cristo stesso e con la sua grazia. Nemmeno sarà buona la retorica (i mezzi) perché gli insegnamenti della Chiesa non sono efficaci, non evangelizzano veramente, se non sono semplici, chiari e basati più sulla conoscenza (teologale) della volontà salvifica di Dio che sulla conoscenza (sociologica) della volontà di quei fedeli e di quei Pastori che esprimono le loro personali opinioni umane, di minoranza o di maggioranza che siano.

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