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Non si parla più di portare la Croce – di Giovanni Lugaresi


La biografia di padre Felice Maria Cappello (1879-1962), “Il confessore di Roma”. Una lettura per conoscere la vita, interamente donata alla Chiesa, di un vero uomo di Dio

di Giovanni Lugaresi



Non si parla più di portare la Croce. Ciascuno di noi, nel cammino dell’esistenza, è chiamato più o meno frequentemente a doversi caricare di quel legno, e come Gesù, portarlo per un certo percorso.

Una volta che lo dicevano i preti, i vescovi, i catechisti, e del resto non l’aveva detto prima di tutti Lui? Prendere la croce e seguirlo.

Ma oggi? Oggi chi parla più di croce, di sacrificio, di dovere? Oggi, che è tutto permesso, e non soltanto dal mondo, ma financo da qualificatissimi uomini di Chiesa, parlare di croce può suscitare scandalo.

E allora, dai!, edulcoriamo, lasciamo stare le proibizioni, non parliamo più di santità, non di sacrificio… La Chiesa di oggi comprende che i tempi sono cambiati, ergo occorre adeguarsi, no?

No: la risposta a lume di fede è no! Non bisogna adeguarsi, non bisogna dar retta alle seduzioni del mondo, non bisogna rincorrere le mode, non bisogna bruciare incenso ai nuovi idola; bisogna rifuggire gli egoismi.

Ma poi che cosa significa che bisogna tenere conto delle mutate situazioni, dei cambiamenti della società in cui viviamo? Il cambiamento non è detto che sia sempre un fatto positivo, perché si può cambiare anche in peggio.

E i pastori questo dovrebbero ben saperlo. Il nuovo per il nuovo che senso ha? Andiamo a vedere che cosa è questo nuovo, che cosa si cela dietro di esso.

Ancora: i pastori che fanno? Pregano? Penitenze? Dedizione al popolo cristiano? Esercizio della carità verso tutti, senza per questo prescindere dalla retta dottrina? Lo fanno?

Ci è capitato di riprendere in mano un vecchio libro di padre Domenico Mondrone, gesuita del collegio degli scrittori della Civiltà Cattolica (quando su quella rivista si leggevano firme come quelle dei padri Grasso, Lener, Caprile, Messineo), critico letterario e religioso permeato di una spiritualità non comune. Si tratta della biografia di padre Felice Maria Cappello (1879-1962), “Il confessore di Roma”.

E da questa rilettura ci siamo confermati in un’idea: quella di un sacerdozio che per essere pienamente tale, deve avere come obiettivo la santità e la dedizione completa ai fratelli. Padre Cappello, canonista insigne di grande fama, non di meno alternava allo studio e all’insegnamento (Pontificia Università Gregoriana) la pratica della confessione. Lunghe ore nella chiesa di Sant’Ignazio, lunghe ore nel suo studio, o dove veniva chiamato per l’esercizio del sacramento della penitenza, appunto. Era pieno di comprensione, di carità, e chi si confessava da lui, sentiva veramente che quello ero un uomo di Dio.

Il padre Mondrone cita casi di persone di alta cultura, oneste, buone, ma atee, che a contatto con Cappello decisero di confessarsi, di pentirsi e l’avvenuta riconciliazione con Dio fu foriera di una immensa gioia.

Una ampia pubblicistica, a suo tempo, avvertiva delle ripetute visite di comunisti, laici e del gesuita padre Virginio Rotondi al capezzale di Curzio Malaparte ormai sul viale del tramonto, per assicurarsene l’adesione. Ma padre Mondrone, molto opportunamente ricordava che l’autore di “Kaputt” e della “Pelle”, ricevuta la visita di padre Cappello (visita che i media del tempo non registrarono), chiese di ricevere il battesimo, che gli venne impartito dallo stesso religioso!…

Il libro del critico letterario della Civiltà Cattolica uscì alla fine del 1962, poco tempo dopo la morte del confratello, ed è motivo di profonda soddisfazione per noi vecchi cattolici leggere che padre Cappello arrivò al trapasso per sfinimento. Sì, era cagionevole di salute, lo era stato fin da giovanissimo, ma la fatica immane di dedicarsi totalmente, senza risparmio alcuno, alla sua missione, lo aveva alla fine stroncato; era morto per sfinimento!

Basta del resto vedere come si articolava la sua giornata: preghiera, celebrazione del divin sacrificio, recita del breviario, meditazione, studio, insegnamento, e poi confessionale, confessionale, e ancora confessionale – come certi preti di oggi, eh?!

Negli anni in cui trascorreva un periodo di vacanza nel natìo Bellunese ospite del fratello parroco Luigi, il suo ritmo quotidiano aveva ben pochi cambiamenti, perché anche lì, poco dormire, poco mangiare, molto confessare e molto studiare…

Qualche anno fa, trovandoci a Roma, entrammo nella chiesa di Sant’Ignazio e restammo colpiti da una targa apposta su un confessionale: ricordava che lì per quarant’anni, padre Felice Maria Cappello aveva incontrato i penitenti, che erano poi gente del popolo, come benestanti, borghesi, aristocratici (e pure prelati, certo). Viva commozione provammo e un pensiero-interrogativo venne spontaneo: ma quanti preti, quanti religiosi (anche della Compagnia di Gesù!) dedicano tanto tempo, tutto il loro tempo, alla missione sacerdotale?

La considerazione-domanda ce la siamo posta dopo avere riletto quella biografia. E non ci siamo risposti che cosa occorra confessarsi – tanto, la misericordia non copre forse tutto? Per padre Cappello, comprensivo, buono, che per se stesso non tollerava neppure i peccati veniali, occorreva pentirsi per ricevere l’assoluzione e quindi comunicarsi.

Ma, allora, per lui, per tutti i sacerdoti, per il mondo cattolico ricevere il Corpo di Cristo era una cosa grande, grandissima: non un ricordo, un gesto sentimentale, bensì un elemento fondamentale nella edella vita cristiana, perché in quell’ostia consacrata Dio è realmente presente in corpo, sangue anima e divinità!

PS. Sarebbe il caso che Civiltà Cattolica ristampasse quella biografia.

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