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Sant’Antonio Abate gigante di santità



Carissimi amici e lettori,

Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare come d'altronde sta accadendo oggi. Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio. Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche. Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. 

Morì nel 373.
Già popolarissimo nel corso della sua esistenza terrena, la fama di sant'Antonio fu resa imperitura dalla Vita scritta da sant’Atanasio, che lo conosceva bene e poteva perciò affermare: «Uomini come lui, pur operando nascosti, pur desiderando di non essere visti, sono mostrati dal Signore a tutti come una lampada»
Sono un sicuro aiuto per il combattimento spirituale gli insegnamenti di sant’Antonio abate (251-356), quel gigante di santità che pur facendo di tutto per vivere nel nascondimento divenne il caposcuola del monachesimo cristiano, il primo Padre del deserto attorno al quale si riunirono gruppi di monaci per consacrarsi a Dio sotto la sua guida. È venerato come il primo degli abati proprio perché, per gli anacoreti che seguirono il suo esempio, Antonio era l’abbà, il loro padre spirituale. Già popolarissimo nel corso della sua esistenza terrena, la fama del santo fu resa imperitura dalla Vita di Antonio scritta da sant’Atanasio (c. 295-373), il grande vescovo di Alessandria d’Egitto che lo conosceva bene e poteva perciò affermare: «Uomini come lui, pur operando nascosti, pur desiderando di non essere visti, sono mostrati dal Signore a tutti come una lampada».

Antonio nacque in Egitto da una famiglia benestante che gli diede un’educazione cristiana. Verso i 18-20 anni, nemmeno sei mesi dopo la morte dei genitori, mentre meditava sugli apostoli che avevano lasciato tutto per seguire il Signore entrò in chiesa nel momento in cui si leggeva il noto passo: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli. Poi vieni e seguimi» (Mt 19, 21). Vendette i suoi beni, ne distribuì il ricavato ai bisognosi, trattenendo solo una modesta parte per la sorella più piccola fino a quando, nuovamente in chiesa, ascoltò quest’altro richiamo divino: «Non affannatevi per il domani». Diede allora ai poveri anche il poco che gli era rimasto, affidò la sorella a delle vergini, iniziò a vivere da asceta poco fuori dal suo villaggio e non appena sapeva di altri saggi dediti alla vita solitaria li andava a trovare, attingendo da ognuno qualche virtù, come la mitezza, la perseveranza nel digiuno e nella preghiera.

Iniziarono a manifestarsi, con una forza superiore all’ordinario, le più varie tentazioni (legate ai beni terreni, agli affetti, ai piaceri del corpo) attraverso cui il diavolo cercò di indurre Antonio ad abbandonare quella vita consacrata a Dio. Si confidò con altri anacoreti che gli consigliarono di resistere e distaccarsi ancora di più dal mondo. Scelse allora come rifugio un sepolcro scavato nella roccia dove un amico era solito portargli del pane, ma gli assalti di Satana - timoroso che si diffondesse l’esempio di quel santo nascente - continuarono a infuriare giorno e notte. Al culmine della lotta, arrivata al dolore fisico, Antonio ebbe il conforto di una visione divina che interrogò così: «Dov’eri? Perché non sei apparsa fin dall’inizio per liberarmi dalle sofferenze?». La voce celeste gli rispose: «Io ero qui, Antonio, ma aspettavo per vedere la tua lotta. Poiché l’hai affrontata e non sei stato vinto, io sarò sempre il tuo aiuto e ti renderò famoso in ogni luogo».

Per spiegare come discernere gli spiriti ricordava che le visioni celesti, al contrario di quelle demoniache che combatteva in primis con il segno della croce, dissolvono i turbamenti «come fece il grande arcangelo Gabriele con Maria e Zaccaria». Da una visione apprese il principio dell’ora et labora e così alla preghiera costante andò affiancando il lavoro che poteva consistere nell’intrecciare ceste o nel coltivare un piccolo pezzo di terra, come fece sul monte nel deserto della Tebaide dove si ritirò nell’ultima fase della sua lunga vita. Nel frattempo aveva passato quasi vent’anni in un fortino abbandonato (qui riceveva per due volte l’anno scorte di pane), prima che delle persone desiderose di imitarne la vita ascetica lo conducessero fuori abbattendone la porta. Dottissimo nelle Sacre Scritture, insegnava che esse sono la prima bussola per il cristiano, che vi deve accompagnare la tradizione dei Padri assieme all’esortazione vicendevole a rimanere saldi nella fede in Cristo.

Conobbe, ammirò e seppellì il più anziano Paolo di Tebe (il fatto è narrato da san Girolamo), venerato dalla Chiesa come primo eremita, ebbe come discepoli san Macario il Grande (300-390) e san Pacomio (292-348) e consigliò sant’Ilarione di Gaza (291-371), che in modo diverso contribuirono a indirizzare il monachesimo verso la vita in comune nei monasteri, cioè verso il cenobitismo.Gli capitava di lasciare temporaneamente la solitudine per questioni decisive: andò ad Alessandria per confortare i cristiani perseguitati da Massimino Daia, con i giudici imperiali che rimasero colpiti dalla sua tempra; in un’altra occasione, su invito di Atanasio che combatteva l’eresia ariana, esortò i cristiani a rimanere fedeli al Credo di Nicea. Più volte dei filosofi pagani andarono a trovarlo con l’intento di schernirlo per la sua fede in un Dio crocifisso, ma ritornavano indietro meravigliati per la sapienza di Antonio che pur senza studi letterari ne smontava le argomentazioni e li ammaestrava sulle ragioni della fede cristiana. Anche Costantino e i suoi figli, attratti dalla sua fama di maestro e taumaturgo, gli scrissero per consiglio; ed egli, umilissimo, rispose solo perché sollecitato dai monaci, ricordando loro che Cristo è il vero e unico Re e spronandoli a pensare alla salvezza, comportandosi secondo giustizia.











Da padre proteso ai beni celesti, consapevole dell’amore di Cristo crocifisso e al contempo dell’invidia di Satana e del suo disprezzo per gli uomini, ammoniva tanto i peccatori esortandoli alla conversione quanto i giusti che non devono fare l’errore di abbandonare la retta via: «Ognuno sarà chiamato in giudizio per questo: se avrà custodito la fede (2 Tm 4, 7) e se avrà rispettato i comandamenti».

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