Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

domenica 2 novembre 2014

L'INFERNO C'E' IV PARTE




IL PENSIERO DI ALCUNI SANTI

La perdita di Dio, dunque, è il più grande dolore che tormenta i dannati.

- San Giovanni Crisostomo dice: "Se tu dirai mille inferni, non avrai ancora detto nulla che possa uguagliare la perdita di Dio".

- Sant'Agostino insegna: "Se i dannati godessero la vista di Dio non sentirebbero i loro tormenti e lo stesso inferno si cambierebbe in paradiso".

- San Brunone, parlando del giudizio universale, nel suo libro dei "Sermoni" scrive: "Si aggiungano pure tormenti a tormenti; tutto è nulla davanti alla privazione di Dio".

- Sant'Alfonso precisa: "Se udissimo un dannato piangere e gli chiedessimo: 'Perché piangi tanto?, ci sentiremmo rispondere: “Piango perché ho perduto Dio!”. Almeno il dannato potesse ama­re il suo Dio e rassegnarsi alla sua volontà! Ma non può farlo. È costretto a odiare il suo Creatore nello stesso tempo che lo rico­nosce degno di infinito amore".

Santa Caterina da Genova quando le apparve il demonio lo interrogò: "Tu chi sei?" - "lo sono quel perfido che si è privato dell'amore di Dio!".



ALTRE PRIVAZIONI

Dalla privazione di Dio, come dice il Lessio, derivano necessa­riamente altre privazioni estremamente penose: la perdita del pa­radiso, cioè della gioia eterna per la quale l'anima è stata creata e a cui naturalmente continua a tendere; la privazione della com­pagnia degli Angeli e dei Santi, essendoci un abisso insuperabile tra i Beati e i dannati; la privazione della gloria del corpo dopo la risurrezione universale.

Ascoltiamo che cosa disse un dannato riguardo alle sue atroci sofferenze.

Nel 1634 a Loudun, nella diocesi di Poitiers, si presentò ad un pio sacerdote un'anima dannata. Quel sacerdote chiese: "Che co­sa soffri all'inferno?" - "Noi soffriamo un fuoco che non si spegne mai, una terribile maledizione e soprattutto una rabbia impossi­bile a descriversi, perché non possiamo vedere Colui che ci ha creati e che abbiamo perduto per sempre per colpa nostra!... ".



IL TORMENTO DEL RIMORSO

Parlando dei dannati, Gesù dice: "Il loro verme non muore" (Mc 9, 48). Questo "verme che non muore", spiega San Tomma­so, è il rimorso, dal quale il dannato sarà in eterno tormentato.

Mentre il dannato sta nel luogo dei tormenti pensa: "Mi sono perduto per niente, per godere appena piccole e false gioie nella vita terrena che è svanita in un lampo... Avrei potuto salvarmi con tanta facilità e invece mi sono dannato per niente, per sem­pre e per colpa mia!".

Nel libro "Apparecchio alla morte" si legge che a Sant'Umber­to apparve un defunto che si trovava all'inferno; questi affermò: "Il terribile dolore che continuamente mi rode è il pensiero del poco per cui mi sono dannato e del poco che avrei dovuto fare per andare in paradiso!".

Nello stesso libro, Sant'Alfonso riporta anche l'episodio di Eli­sabetta, regina d'Inghilterra, che stoltamente arrivò a dire: "Dio, dammi quarant'anni di regno e io rinuncio al paradiso!". Ebbe effettivamente un regno di quarant'anni, ma dopo la morte fu vista di notte sulle sponde del Tamigi, mentre, circondata da fiamme, gridava: "Quarant'anni di regno e un'eternità di dolore!...".



LA PENA DEL SENSO

Oltre alla pena del danno che, come si è visto, consiste nel dolore atroce per la perdita di Dio, ai dannati è riservata nell'altra vita la pena del senso.

Si legge nella Bibbia: "Con quelle stesse cose per cui uno pec­ca, con esse è poi castigato" (Sap 11, 10).

Quanto più dunque uno avrà offeso Dio con un senso, tanto più, sarà tormentato in esso.

E’ la legge del contrappasso, di cui si servì anche Dante Ali­ghieri nella sua "Divina Commedia'; il poeta assegnò ai dannati pene diverse, in rapporto ai loro peccati.

La più terribile pena del senso è quella del fuoco, di cui ci ha parlato più volte Gesù.

Anche su questa terra la pena del fuoco è la maggiore tra le pene sensibili, ma c'è una grande differenza tra il fuoco terreno e quello dell'inferno.

Dice Sant'Agostino: "A confronto del fuoco dell'inferno il fuo­co che conosciamo noi è come se fosse dipinto". La ragione è che il fuoco terreno Dio l'ha voluto per il bene dell'uomo, quello dell'inferno, invece, l'ha creato per punire le sue colpe.

II dannato è circondato dal fuoco, anzi, è immerso in esso più che il pesce nell'acqua; sente il tormento delle fiamme e come il ricco epulone della parabola evangelica urla: "Questa fiamma mi tortura!" (Lc 16, 24).

Alcuni non possono sopportare il disagio di camminare per strada sotto un sole cocente e poi magari... non temono quel fuo­co che dovrà divorarli in eterno!

Parlando a chi vive incoscientemente nel peccato, senza porsi il problema della finale resa dei conti, San Pier Damiani scrive: "Continua, pazzo, ad accontentare la tua carne; verrà un giorno in cui i tuoi peccati diventeranno come pece nelle tue viscere che farà più tormentosa la fiamma che ti divorerà in eterno!".

È illuminante l'episodio che San Giovanni Bosco narra nella biografia di Michele Magone, uno dei suoi migliori ragazzi. "Alcuni ragazzi commentavano una predica sull'inferno. Uno di essi osò dire scioccamente: 'Se andremo all'inferno almeno ci sarà il fuoco per riscaldarsi!'. A queste parole Michele Magone corse a prendere una candela, l'accese e accostò la fiammella alle mani del ragazzo spavaldo. Questi non si era accorto della cosa e, quando sentì il forte calore alle mani che teneva dietro la schiena, scattò subito e si arrabbiò. “Come - rispose Michele - non puoi sopportare per un momento la debole fiamma di una candela e arrivi a dire che staresti volentieri tra le fiamme dell'inferno?.”

La pena del fuoco comporta anche la sete. Quale tormento la sete ardente in questo mondo!

E quanto più grande sarà lo stesso tormento all'inferno, come testimonia il ricco epulone nella parabola narrata da Gesù! Una sete inestinguibile!!!



LA TESTIMONIANZA DI UNA SANTA

Santa Teresa d'Avita, che fu una delle principali scrittrici del suo secolo, ebbe da Dio, in visione, il privilegio di scendere all'in­ferno mentre era ancora in vita. Ecco come descrive, nella sua “Autobiografia” ciò che vide e provò negli abissi infernali.

"Trovandomi un giorno in preghiera, improvvisamente fui tra­sportata in anima e corpo all'inferno. Compresi che Dio voleva farmi vedere il luogo preparatomi dai demoni e che avrei meritato per i peccati in cui sarei caduta se non avessi cambiato vita. Per quanti anni io abbia a vivere non potrò mai dimenticare l'orrore dell'inferno.

L'ingresso di questo luogo di tormenti mi è sembrato simile a una specie di forno, basso e oscuro. Il suolo non era che orribile fango, pieno di rettili velenosi e c'era un odore insopportabile.

Sentivo nell'anima mia un fuoco, del quale non vi sono parole che possano descrivere la natura e il mio corpo contempora­neamente in preda ai più atroci tormenti. I grandissimi dolori che avevo già sofferto nella mia vita sono nulla in confronto a quelli provati all'inferno. Inoltre, l'idea che le pene sarebbero state sen­za fine e senza alcun sollievo, completava il mio terrore.

Ma queste torture del corpo non sono paragonabili a quelle dell'anima. Provavo un'angoscia, una stretta al cuore così sensi­bile e, nello stesso tempo, così disperata e così amaramente triste, che tenterei invano di descriverla. Dicendo che in ogni momento si soffrono le angosce della morte, direi poco.

Non potrò mai trovare espressione adatta per dare un'idea di questo fuoco interiore e di questa disperazione, che costituiscono appunto la parte peggiore dell'inferno.

Ogni speranza di consolazione è spenta in quell'orribile luogo; vi si respira un'aria pestilenziale: ci si sente soffocare. Nessun rag­gio di luce: non vi sono che tenebre e tuttavia, oh mistero, senza alcuna luce che rischiari, si vede quanto vi può essere di più ripu­gnante e penoso alla vista.

Posso assicurare che tutto quanto si può dire dell'inferno, quanto si legge nei libri di strazi e di supplizi diversi che i demoni fanno subire ai dannati, è un nulla in confronto alla realtà; c'è la stessa differenza che passa tra il ritratto di una persona e la perso­na stessa.

Bruciare in questo mondo è pochissima cosa in confronto a quel fuoco che provai all'inferno.

Sono ormai trascorsi circa sei anni da quella spaventosa visita all'inferno ed io, descrivendola, mi sento ancora presa da tale ter­rore che il sangue mi si gela nelle vene. In mezzo alle mie prove e ai dolori richiamo spesso tale ricordo ed allora quanto si può sof­frire in questo mondo mi sembra cosa da ridere.

Siate dunque eternamente benedetto, o mio Dio, perché mi avete fatto provare nel modo più reale l'inferno, ispirandomi così il più vivo timore per tutto ciò che può ad esso condurre."



IL GRADO DELLA PENA

A chiusura del capitolo sulle pene dei dannati è bene accenna­re alla diversità del grado di pena.

Dio è infinitamente giusto; e come in paradiso assegna gradi maggiori di gloria a coloro che più lo hanno amato durante la vi­ta, così all'inferno dà pene maggiori a chi l'ha offeso di più.

Chi è nel fuoco eterno per un solo peccato mortale soffre orri­bilmente per quest'unica colpa; chi è dannato per cento, o mil­le... peccati mortali soffre cento, o mille volte... di più.

Più legna si mette nel forno, più aumenta la fiamma e il calore. Perciò chi, tuffato nel vizio, calpesta la legge di Dio moltiplicando ogni giorno le sue colpe, se non si rimette in grazia di Dio e muo­re nel peccato, avrà un inferno più tormentoso di altri.

Per chi soffre è un sollievo pensare: "Un giorno finiranno que­ste mie sofferenze".

II dannato, invece, non trova alcun sollievo, anzi, il pensiero che i suoi tormenti non avranno fine è come un macigno che rende più atroce ogni altro dolore.

Chi va all'inferno (e chi ci va, ci va per sua libera scelta) vi re­sta... in eterno!!!

Per questo Dante Alighieri, nel suo "Inferno", scrive: "Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate!".

Non è un'opinione, ma è verità di fede, rivelata direttamente da Dio, che il castigo dei dannati non avrà mai fine. Ricordo sol­tanto quanto ho già citato delle parole di Gesù: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno" (Mt 25, 41).

Scrive Sant'Alfonso:

"Quale pazzia sarebbe quella di chi, per godersi una giornata di spasso, accettasse la condanna di star chiuso in una fossa per venti o trent'anni! Se l'inferno durasse cento anni, o anche solo due o tre anni, pure sarebbe una grande pazzia per un attimo di piacere condannarsi a due o tre anni di fuoco. Ma qui non si trat­ta di cento o di mille anni, si tratta dell'eternità, e cioè di patire per sempre gli stessi atroci tormenti che non avranno mai fine."

I miscredenti dicono: "Se esistesse un inferno eterno, Dio sa­rebbe ingiusto. Perché castigare un peccato che dura un momento con una pena che dura in eterno?".

Si può rispondere: "E come può un peccatore, per il piacere di un momento, offendere un Dio di infinita maestà? E come può, con i suoi peccati, calpestare la passione e la morte di Gesù?".

"Anche nel giudizio umano - dice San Tommaso - la pena non si misura secondo la durata della colpa, ma secondo la qualità del delitto". L'omicidio, anche se si commette in un momento, non viene punito con una pena momentanea.

Dice San Bernardino da Siena: "Con ogni peccato mortale si fa a Dio un'ingiustizia infinita, essendo Egli infinito; e a un'ingiuria infinita spetta una pena infinita!".



SEMPRE!... SEMPRE!!... SEMPRE!!!

Si narra negli "Esercizi Spirituali" del Padre Segneri che a Ro­ma, essendo stato chiesto al demonio che stava nel corpo di un ossesso, per quanto tempo dovesse stare all'inferno, rispose con rabbia: "Sempre!... Sempre!!... Sempre!!!".

Fu così grande lo spavento che molti giovani del seminario romano, presenti all'esorcismo, fecero una confessione generale e si incamminarono con più impegno nella via della perfezione.

Anche per il tono in cui furono gridate, quelle tre parole del demonio: "Sempre!... Sempre!!... Sempre!!!' fecero più effetto di una lunga predica.



IL CORPO RISORTO

L'anima dannata soffrirà all'inferno da sola, cioè senza il suo corpo, fino al giorno del giudizio universale; poi, per l'eternità, anche il corpo, essendo stato strumento di male durante la vita, prenderà parte ai tormenti eterni.

La risurrezione dei corpi avverrà certamente.

È Gesù che ci assicura questa verità di fede: "Verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usci­ranno: quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna" (Gv 5, 28-29).

Insegna l'Apostolo Paolo: "Tutti saremo trasformati in un istan­te, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà in­fatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo tra­sformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità" (1 Cor 15, 51-53).

Dopo la risurrezione, dunque, tutti i corpi saranno immortali e incorruttibili. Non tutti però saremo trasformati allo stesso modo. La trasformazione del corpo dipenderà dallo stato e dalle condi­zioni in cui si troverà l'anima nell'eternità: saranno gloriosi i corpi dei salvati e orrendi i corpi dei dannati.

Perciò se l'anima si troverà in paradiso, nello stato di gloria e di beatitudine, rifletterà nel suo corpo risorto le quattro caratteri­stiche proprie dei corpi degli eletti: la spiritualità, l'agilità, lo splendore e l'incorruttibilità.

Se invece l'anima si troverà all'inferno, nello stato di danna­zione, imprimerà nel suo corpo caratteristiche del tutto opposte. L'unica proprietà che il corpo dei dannati avrà in comune col corpo dei beati è l'incorruttibilità: anche i corpi dei dannati non saranno più soggetti alla morte.

Riflettano molto e molto bene coloro che vivono nell'idolatria del loro corpo e lo appagano in tutte le sue voglie peccaminose! I piaceri peccaminosi del corpo saranno ripagati con un cumulo di tormenti per tutta l'eternità.



È SCESA DA VIVA... ALL’INFERNO!

Ci sono nel mondo alcune persone privilegiate che sono scelte da Dio per una missione particolare.

A costoro Gesù si presenta in modo sensibile e le fa vivere nello stato di vittime, rendendole compartecipi anche dei dolori della sua Passione.

Perché possano soffrire di più e così salvare più peccatori, Dio permette che alcune di queste persone siano trasportate, anche se viventi, nell'ordine soprannaturale e che patiscano per qual­che tempo all'inferno, con l'anima e col corpo.

Come avvenga questo fenomeno non possiamo spiegarlo. Si sa solo che, quando tornano dall'inferno, queste anime vittime sono afflittissime.

Le anime privilegiate di cui si parla, improvvisamente scom­paiono dalla propria camera, anche alla presenza di testimoni, e dopo un certo periodo, talvolta di diverse ore, riappaiono. Sem­brano cose impossibili, ma ci sono documentazioni storiche.

Si è già detto di Santa Teresa d'Avita.

Ora citiamo il caso di un'altra Serva di Dio: Josepha Menen­dez, vissuta in questo secolo.

Ascoltiamo dalla stessa Menendez la narrazione di qualche sua visita all'inferno.

"In un istante mi trovai nell'inferno, ma senza esservi trasci­nata come le altre volte, e proprio come vi devono cadere i dan­nati. L'anima vi si precipita da se stessa, vi si getta come se desi­derasse sparire dalla vista di Dio, per poterlo odiare e maledire.

L'anima mia si lasciò cadere in un abisso di cui non si poteva vedere il fondo, perché immenso... Ho visto l'inferno come sem­pre: antri e fuoco. Benché non si vedano forme corporali, i tor­menti straziano le anime dannate (che tra loro si conoscono) come se i loro corpi fossero presenti.

Fui spinta in una nicchia di fuoco e schiacciata come tra pia­stre roventi e come se dei ferri e delle punte aguzze arroventate si infiggessero nel mio corpo.

Ho sentito come se, pur senza riuscirci, si volesse strapparmi la lingua, cosa che mi riduceva agli estremi, con un atroce dolore. Gli occhi mi sembrava che uscissero dall'orbita, credo a causa del fuoco che li bruciava orrendamente.

Non si può né muovere un dito per cercare sollievo, né cam­biare posizione; il corpo è come compresso. Gli orecchi sono come storditi dalle grida orrende e confuse che non cessano un solo istante.

Un odore nauseabondo e una ripugnante asfissia invade tutti, come se bruciasse carne in putrefazione con pece e zolfo.

Tutto questo l'ho provato come nelle altre occasioni e, sebbe­ne questi tormenti siano terribili, sarebbero un nulla se l'anima non soffrisse; ma essa soffre in modo indicibile per la privazione di Dio.

Vedevo e sentivo alcune di queste anime dannate ruggire per l'eterno supplizio che sanno di dover sopportare, specialmente alle mani. Penso che durante la vita abbiano rubato, poiché grida­vano: 'Maledette mani, dov'è ora quello che avete preso?'...

Altre anime, urlando, accusavano la propria lingua, o gli oc­chi... ognuna ciò che è stato la causa del suo peccato: 'Ora paghi atrocemente le delizie che ti concedevi, o mio corpo!... E sei tu, o corpo, che l'hai voluto!... Per un istante di piacere, un'eternità di dolore!:..

Mi sembra che all'inferno le anime si accusino specialmente di peccati di impurità.

Mentre ero in quell'abisso, ho visto precipitare delle persone impure e non si possono dire né comprendere gli orrendi ruggiti che uscivano dalle loro bocche: 'Maledizione eterna!... Mi sono ingannata!... Mi sono perduta!... Sarò qui per sempre!... per sempre!!... per sempre!!!... e non ci sarà più rimedio... Maledet­ta me!:..

Una ragazzina urlava disperatamente, imprecando contro le cattive soddisfazioni che ha concesso in vita al suo corpo e male­dicendo i genitori che le avevano dato troppa libertà nel seguire la moda e i divertimenti mondani. Era dannata da tre mesi.

Tutto ciò che ho scritto - conclude la Menendez - è soltanto una pallida ombra al confronto con ciò che si soffre veramente all'inferno."

L'autore di questo scritto, direttore spirituale di parecchie ani­me privilegiate, ne conosce tre, tuttora viventi, che hanno fatto e fanno ancora visite di questo genere all'inferno. C'è da rabbrividi­re per quello che mi riferiscono.


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