Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

lunedì 21 luglio 2014

Le passioni dell'anima - la Tristezza


di don Gabriele D'Avino

La specie umana ed animale, secondo il dire del poeta Virgilio, «ha paura, desidera, gioisce e soffre» (Eneide, l. VI, v. 733); è agitata insomma dalle passioni, tra le quali spicca, frequentissima, la Tristezza che provoca, appunto, sofferenza. La Tristezza si definisce come passione dell'appetito concupiscibile conseguente alla percezione di un male corporale interiore che infastidisce (P. Ramirez, De passionibus animae, t. V, n. 398); si distingue dal Dolore, che riguarda la percezione di un male esteriore, anche se ha caratteristiche simili a quest'ultimo.

La Tristezza, pur essendo una passione, riguarda gli esseri razionali poiché è conseguente (come già la gioia, suo opposto) all'apprensione di un male: vale a dire che, mentre il dolore riguarda il senso del tatto, in cui ha sede (e che è percepito da tutti gli animali) la Tristezza fa seguito ad un atto dell'intelletto o dell'immaginazione che considera un tale male precisamente sub specie mali, non necessariamente presente ma anche passato o futuro: perciò, solo un uomo può provarla.

Ad esempio, mentre un animale sarà infastidito dal dolore fisico provocato da una percossa, l'uomo potrà provare tristezza al solo pensiero di doverne subire senza riuscire a sfuggirle, come nel caso di chi è minacciato dai nemici che gli sono di fronte e che si preparano a torturarlo, tortura che già "vede" come se fosse presente. O, ancora, il ricordo di una malattia subita nel passato può accendere una tale passione anche se il male in questione non è più presente.
Per San Tommaso è chiaro che la tristezza interiore è più forte, almeno per se, del dolore fisico: in particolar modo perché la percezione della prima fa riferimento alla ragione o almeno all'immaginazione, mentre il secondo fa riferimento, come dicevamo, al senso del tatto; ora, la ragione e l'immaginazione sono superiori ai sensi esterni, di conseguenza anche i loro moti hanno la stessa gerarchia (Ia IIae, Q. 35, a. 7 c.).

Tra l'altro, lo si può notare anche a posteriori nel fatto che spesso gli uomini preferiscono subire un dolore fisico per sfuggire una tristezza morale: un pugile si sottopone volentieri al dolore dei colpi dell'avversario pur di non subire l'onta di una sconfitta, di certo più difficile da "smaltire".

Le cause della Tristezza sono naturalmente molteplici, ma possono dividersi in due grandi categorie: la presenza (anche solo immaginativa) di un male, o la perdita di un bene. È chiaro per San Tommaso che, metafisicamente, le due cose sono identiche: il male non è una "cosa", per cui l'arrivo di un male corrisponde esattamente alla perdita di un bene. Contrarre una malattia, ad esempio, non è altro che perdere la salute. È solo per semplificazione dei concetti che si tratta il male come una "cosa" che abbia una sua esistenza: in questo caso, è fonte maggiore di tristezza la presenza di un male che non la perdita di un bene (Ia IIae, Q. 36, a. 1 c.).

Gli effetti visibili della Tristezza sono sia psicologici che fisiologici: quanto ai primi, l'Angelico enumera la difficoltà nell'apprendimento, cioè nell'applicazione dell'intelletto ad un oggetto: chi è triste è spesso in parte o del tutto impossibilitato allo studio, o quantomeno sovente distratto ed incostante, almeno fintanto che l'oggetto della tristezza è presente allo spirito e occupa i pensieri e l'immaginazione. In secondo luogo, la cosiddetta aggravatio animi, cioè la "pesantezza" della volontà, che è resa più o meno incapace di effettuare delle scelte, specie se importanti; l'uomo rattristato si ritrova, secondo il dire di Padre Ramirez (De passionibus animae, t. V, n. 430), a guardare il pavimento o la parete in modo meccanico senza pensare a nulla, come un asino.

Principale effetto fisiologico, invece, è il danno alla salute corporale a causa dell'innaturale tendenza alla quiete allorché invece la natura richiede il movimento: spesso chi è triste si chiude in un immobilismo non solo di volontà ma anche fisico che lo porta all'intorpidimento delle ossa; a volte ce ne si fa una malattia, che può portare persino alla morte.


Quanto detto fin qui farebbe sorgere spontaneamente il problema della depressione, stato patologico della psiche assai frequente ai nostri tempi; non è però questo il luogo di trattarla, a causa delle molteplici implicazione più specificamente mediche. Quel che si può dire, tuttavia, è che essa non è che l'aspetto organico e neurologico della stessa passione di Tristezza; se essa spesso è risolta o curata con terapie farmacologiche, è pur vero che si manifesta con caratteristiche del tutto simili alla passione studiata da San Tommaso.

Infine, la Somma Teologica, lungi dall'essere un freddo manuale per pochi esperti, si preoccupa di fornire terapie e rimedi alla Tristezza: in primo luogo, le lacrime (Q. 38, a. 2), che, accompagnate da gemiti e sospiri, arrecano sollievo in quanto espellono al di fuori un'angoscia che altrimenti sarebbe rimasta anche fisicamente "dentro"; chiunque può fare l'esperienza del fatto che un pianto liberatorio consola almeno in parte la persona afflitta.
In secondo luogo, San Tommaso pone come rimedio alla tristezza la compassione degli amici (a. 3), sia perché se si è in molti il peso che si porta diminuisce, sia soprattutto perché chi vede gli amici compatire la propria tristezza percepisce di esserne amato: ora il pensiero dell'amore degli altri causa una gioia che contraria appunto la tristezza presente.
Infine, il Dottore Comune non disdegna di dare rimedi concreti ed efficaci benché materiali: il sonno e i bagni (a. 5): poiché infatti la Tristezza ripugna al movimento vitale del corpo, che gli è naturale, questi rimedi al contrario lo facilitano e, almeno quanto all'aspetto puramente corporale, impediscono quell'irrigidimento e quella tensione nervosa così tipica della "chiusura" caratteristica della persona triste.
Risulta evidente, alla luce di quanto detto, che la Tristezza al pari delle altre passioni non costituisce un peccato né una virtù, ma soltanto un movimento dell'anima, che acquisisce la sua moralità in base all'oggetto e al modo con il quale le si dà corso. Nostro Signore, nell'ora estrema dell'agonia, ha voluto provare tristezza («L'anima mia è triste fino alla morte», Mt, 26, 38), che in lui fu talmente dolorosa da provocare il celebre sudore di sangue. L'anima immacolata di Gesù soffriva certo al pensiero delle future sofferenze, ma più ancora per il peso dei peccati di tutti gli uomini: questo dolersi di un vero male – il peccato, il male più grande che ci sia – è evidentemente frutto di una tristezza "buona".
D'altra parte, il peccatore incallito che vede sfuggirgli un oggetto di desiderio, per un motivo o per un altro, ne è triste e spesso angosciato: il suo è un male apparente, e di conseguenza la sua sarà una tristezza "cattiva".

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