… Gli schemi preparatori sono stati redatti e divulgati a mezzo massmedia e la discussione è volentieri aperta anche al più flebile spiffero mondano. E, man mano, saranno redatti quei canoni dai quali il Vaticano II si era ritratto per timore della modernità. Ma, secondo i dettami del gattopardismo clerical-novatore, il cambiamento sarà mascherato dalla grande illusione che tutto rimarrà sempre uguale. Per questo sarà il mondo a comunicare il cambiamento in atto dentro la chiesa, che invece si asterrà dal ratificarlo formalmente.
di Alessandro Gnocchi
Grazie a Dio, c’è ancora qualche buon cristiano a tenere sott’occhio il temerario che prima o poi tenterà di cambiargli la fede sotto il naso. Armato di spingarda, dottrina e Vangelo, si acquatta dietro il muretto del prossimo sinodo sulla famiglia per scoprire se comportamenti omosessuali, convivenze, divorziati risposati e via mondanizzando diventeranno moneta corrente nei documenti di santa romana chiesa. Oppure, si mimetizza nelle desolate periferie esistenziali in attesa di sezionare qualche pagina magisteriale in cui sia messo nero su bianco che tutto è definitivamente cambiato. Ma, oltre a essersi munito di armi desuete e incomprese, si apposta nel posto sbagliato.
Ormai, i luoghi in cui ci si batte per salvare la fede e la dottrina non sono più quelli tradizionalmente deputati a tale ufficio. I cattolici novatori e mondanizzanti sanno bene che il segreto del potere si cela in quella riga del “Gattopardo” in cui Tancredi Falconeri sentenzia che “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Ma loro, beffardamente clericali, l’hanno capovolta nell’inafferrabile “se vogliamo che tutto cambi, bisogna che tutto rimanga com’è”. Laddove non può la dogmatica arriva la pastorale, cosicché la prassi si mangia la teoria senza che nessuno abbia da eccepire: tutto cambia mentre tutto sembra immutato.
Negli Anni Quaranta del secolo scorso, lo aveva teorizzato Ernesto Buonaiuti, il principe dei modernisti. “Fino ad oggi” spiegava “si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma, fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e infallibile metodo; ma è difficile. (…) Il culto esteriore durerà sempre come la gerarchia, ma la Chiesa, in quanto maestra dei sacramenti e dei suoi ordini, modificherà la gerarchia e il culto secondo i tempi: essa renderà quella più semplice e liberale, e questo più spirituale; e per quella via essa diventerà un protestantesimo; ma un protestantesimo ortodosso, graduale, e non uno violento, aggressivo, rivoluzionario, insubordinato”.
E ora, a operazione avvenuta in maniera quasi irreversibile, i buoni cristiani armati di spingarda, dottrina e Vangelo si trovano disorientati e vanno a caccia dell’avversario là dove non si farà mai trovare. Sono convinti che, come ai tempi delle care vecchie eresie, la dottrina si combatta a colpi di dottrina, i principi a colpi di principio, i dogmi a colpi di dogma perché continuano ad applicare categorie e metodi gettati silenziosamente a mare a partire dal Concilio Vaticano II.
Ma questo è ancora nulla, perché ormai anche il mitico Concilio ha fatto il suo tempo. Non c’è papa che lo abbia citato così poco come Francesco, a cui importa quasi nulla dell’ermeneutica della rottura e ancor meno di quella della riforma nella continuità. Ormai il mondo cattolico vive in pieno Vaticano III convocato e celebrato per via mediatica. La location romana è stata sostituita dall’aula globale, che avrebbe inquietato non poco un Marshall McLuhan, capace di definire il principe di questo mondo come grande ingegnere elettronico. Gli schemi preparatori sono stati redatti e divulgati a mezzo massmedia e la discussione è volentieri aperta anche al più flebile spiffero mondano. E, man mano, saranno redatti quei canoni dai quali il Vaticano II si era ritratto per timore della modernità. Ma, secondo i dettami del gattopardismo clerical-novatore, il cambiamento sarà mascherato dalla grande illusione che tutto rimarrà sempre uguale. Per questo sarà il mondo a comunicare il cambiamento in atto dentro la chiesa, che invece si asterrà dal ratificarlo formalmente.
Cinquant’anni or sono, nell’era geologica del Vaticano II, si pensava ancora che l’anathema sit dovesse concretizzare in poche, brevi e chiarissime righe il fulmine contro l’errore e l’eresia lanciato dalla cittadella in nome e per conto di Dio. Per questo i padri conciliari rimasero un passo al di qua: la tregua con il mondo esigeva l’incertezza, il dubbio, l’ambiguità opportunamente interpretabili in guisa di dialogo e di arrendevolezza, non certo la dichiarazione esplicita.
Ora che l’abbraccio con la modernità incarnato dal pontificato di papa Francesco è conclamato e acclamato dentro e fuori la Chiesa non vi sono più remore. L’anathema sit torna in auge, ma in nome e per conto del mondo e, in ossequio alla natura mediatica in cui si sostanzia dell’evento, non si trova più in calce a costituzioni e decreti bensì sulle prime pagine dei giornali. Dal “Chi sono io per giudicare?” pronunciato sulla questione omosessuale che, in 0,21 secondi, su Google porta a 360.000 risultati, alla scomunica lanciata contro i mafiosi nella spianata di Sibari, anatema da 412.000 risultati in 0,35 secondi, è facile farsi un’idea di quali canoni distillerà il mondo dalla narrazione papale.
Ma è facile prevedere che presto il tiro si sposterà intra muros e i primi a cadere, come tanti zuavi a Porta Pia, saranno i buoni cristiani armati di spingarda, dottrina e Vangelo posti a guardia della fede. Così, ogni santo giorno, per sapere se si è ancora cattolici, bisognerà leggere la prima pagina di Repubblica.
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pubblicato anche su Il Foglio
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