Come evitare che un Sacro Collegio troppo internazionalizzato diventi strumento di gruppi di pressione in fase di elezione del futuro papa? È possibile conciliare sia la dimensione romana del ministero pontificio sia la grande diversità di un cattolicesimo i cui rami vivi si trovano sempre più lontani dalla Città Eterna?
Il cardinale Walter Brandmüller, in qualità di specialista, risponde a tutte queste domande, e propone una soluzione piuttosto lontana dagli orientamenti dell'attuale pontificato.
Il cardinale Walter Brandmüller è noto per la sua schiettezza, in particolare su questioni di celibato nel clero, sinodi sull'Amazzonia o sulla famiglia: tanti i temi sui quali il prelato, vestito della porpora cardinalizia da papa Benedetto XVI nel 2010, e ora a 92 anni vecchio, non esitò a opporsi all'attuale sovrano pontefice.
Oggi è su altre basi che il presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche segna la sua differenza: quella dell'internazionalizzazione del Sacro Collegio - indubbiamente accelerata dall'attuale papa - e delle sue ripercussioni sull'elezione di un futuro successore di Pietro .
Esprimendo il suo pensiero il 26 ottobre 2021 in un testo pubblicato dal vaticanista Sandro Magister sul suo sito web Settimo Cielo , l'alto prelato vede in questo crescente fenomeno due effetti perversi, in primo luogo il fatto che i tanti cardinali elettori, a causa della loro lontananza, sono gravemente carenti di elementi per fare una scelta ponderata:
“I 120 elettori, in quanto provenienti dalla periferia, si riuniscono spesso per la prima volta nei concistori che precedono il conclave e quindi sanno poco o nulla del collegio cardinalizio e quindi dei candidati, mancando così un presupposto fondamentale per un voto responsabile in conclave”, nota il cardinale.
E per evocare un secondo effetto perverso: la dialettica che non manca di imporsi tra una Curia centralizzata, reputata burocratica e fredda, e una Chiesa delle periferie, presunta più conforme all'ideale evangelico: questa tensione «a volte vissuta in modo piuttosto emotivo, ha una certa influenza sul voto”, nota l'alto prelato.
Essendo la storia maestra di vita, il cardinale Brandmüller ricorda «che il ministero pontificio è legato alla sede episcopale di Roma discende dal fatto che il primo degli Apostoli subì il martirio e fu sepolto in questa città», fatto che assume aspetti teologici essenziali importanza:
Ne era convinto il vescovo e martire Ignazio di Antiochia già tra il I e il II secolo, e nella sua tanto discussa e controversa lettera alla Chiesa di Roma scriveva che quest'ultima presiede all'"agape", parola che dovrebbe essere correttamente tradotto come "Chiesa", come dimostra l'uso della stessa parola nelle altre lettere di Ignazio", spiega.
“In modo analogo sant'Ireneo di Lione, intorno al 200, attribuiva alla Chiesa di Roma, poiché fondata da Pietro e Paolo, una 'potentior principalitas', cioè una salda preminenza”.
“Il Collegio cardinalizio, dunque, affonda le sue radici nel clero della città di Roma e così, a partire da Niccolò II, elegge il vescovo di Roma, che è al tempo stesso anche il supremo pastore di tutta la Chiesa” riassume il cardinale. «Innanzitutto va ricordato che il papa non è 'anche' vescovo di Roma, ma è vero il contrario: il vescovo di Roma è anche papa».
L'elezione originariamente appartiene al clero e al popolo di Roma. Per questo ai cardinali del Sacro Collegio viene assegnata, fin dalla loro creazione, una chiesa romana titolare, una “finzione rituale” che significa la loro incardinazione nella Città Eterna.
Sorge comunque una domanda: con la parte preponderante nella Chiesa, nei continenti che prima erano territori di missione, come conciliare questo legame ontologico tra Roma e il Papa con l'aspetto universale del ministero pontificio che supera di gran lunga gli interessi di un Chiesa locale, anche la più prestigiosa?
Il cardinale Brandmüller ha respinto una possibile prima soluzione, avvertendo: “Per riflettere in modo particolare l'aspetto universale del ministero petrino, è stato proposto di concedere il diritto di voto in conclave ai presidenti delle conferenze episcopali nazionali. Ma va ribadito con forza che le conferenze episcopali non costituiscono in alcun modo un elemento strutturale della Chiesa, e che una tale soluzione non risponderebbe alle esigenze sollevate dal legame tra la Sede di Pietro e la città di Roma».
La seconda soluzione – che conquista la preferenza dell'alto prelato, ma non necessariamente quella di papa Francesco, capiremo perché – «sarebbe quella di disaccoppiare il diritto di voto attivo (gli elettori) e passivo (gli aventi diritto), a un collegio cardinalizio snello e veramente romano, allargando nello stesso tempo la cerchia degli eleggibili alla Chiesa universale”.
Agli occhi del cardinale, «un altro vantaggio di questo metodo sarebbe che un papa non potrebbe più influenzare così facilmente la scelta del suo successore creando cardinali in maniera mirata». Da parte del papa, è difficile non sentirsi presi di mira da questa allusione sotto forma di un colpo di zampa.
Una soluzione tanto più urgente in quanto molti cardinali creati sotto l'attuale pontificato non hanno “l'esperienza di Roma”: “Per un collegio in cui si preferisce fare cardinali i capi delle diocesi periferiche, è praticamente impossibile realizzare il adeguatamente i suddetti compiti, anche nelle condizioni consentite dalle moderne tecnologie di comunicazione”, nota il cardinale.
Inoltre, data la loro lontananza, aumenta la probabilità di essere assenti da un futuro conclave per eventi politici, climatici o sanitari, quindi «per questi ed altri simili motivi, dato il gran numero di cardinali che hanno diritto di voto e a nello stesso tempo potrebbe essere impugnato l'obbligo di partecipazione, un'elezione effettuata da un collegio 'incompleto', con grave pericolo per l'unità della Chiesa”.
“Se invece gli elettori fossero già in carica perché facenti parte di un collegio proprio romano, non ci sarebbe da temere uno scenario del genere” (come quello sopra descritto).
E poi potrebbe esserci un altro problema causato dall'attuale composizione del Sacro Collegio, quello di una possibile confisca dell'elezione da parte di gruppi di pressione: “tutto finisce per dipendere da quegli opinion leader, interni ed esterni, che riescono a far sì che il candidato prescelto noti ai meno informati e nel mobilitare il loro sostegno”.
“Questo porta alla costituzione di blocchi, dove i voti individuali sono come deleghe in bianco concesse a 'grandi elettori' intraprendenti. Questi comportamenti seguono norme e meccanismi studiati in sociologia”.
“Quando invece l'elezione del papa, successore dell'apostolo Pietro, supremo pastore della Chiesa di Dio, è un evento religioso che dovrebbe essere regolato da regole proprie”.
Come non pensare qui all'influenza del cosiddetto “S. Gallo”, che non è più un mistero per nessuno a Roma, sapendo di aver avuto un ruolo di primo piano nell'elezione del pontefice argentino?
E come se ciò non fosse sufficientemente chiaro, il cardinale Brandmüller evoca anche i possibili rischi di simonia che potrebbero verificarsi quando “fiumi più o meno abbondanti di denaro fluiranno dall'Europa ricca verso le aree più povere del mondo, così che i loro cardinali elettori in conclave si sentano obbligato al donatore”.
L'attuale successore di Pietro sarà sensibile alla magistrale analisi del presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche?
(Fonti: Settimo Cielo / DICI n° 414 - FSSPX.Actualités)
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