Il primato del vescovo di Roma è oggi al centro del dibattito teologico, per il suo enorme impatto nel dialogo ecumenico. Certamente la dottrina e l'esercizio di questo primato trovano il loro fondamento nei libri del Nuovo Testamento, che permettono di risalire alla volontà stessa di Cristo. Ma tali testi scritturistici non sono stati intesi in maniera omogenea nella Chiesa. Lo sviluppo della coscienza ecclesiale su questo, come su altri punti dottrinali, è legato inevitabilmente alle circostanze storiche e geografiche. Ciò impone un approccio storico-critico al tema, alle fonti letterarie e ai fatti tramandati. Noi qui ci limitiamo a esaminare le risonanze o le letture che di tali testi sono state fatte nella chiesa del primo millennio: la coscienza sempre più chiara delle responsabilità primaziali da parte dei successori di Pietro, e le contestazioni o la ricezione più o meno ampia e convinta nelle altre parti della Chiesa. La chiesa romana nell'età sub-apostolica Le prime ed esplicite rivendicazioni del primato non incominciano ad affiorare se non verso la fine del I e durante il II secolo. Sono due i documenti più significativi al riguardo: la lettera di Clemente Romano ai Corinzi e la lettera di Ignazio di Antiochia ai Romani. La prima lettera si presenta non tanto come un intervento personale di Clemente quanto come un intervento della chiesa romana:"La chiesa di Dio che è pellegrina in Roma alla chiesa di Dio che è pellegrina in Corinto". I mittenti si rammaricano di essere intervenuti troppo tardi a sedare la contesa ecclesiale di Corinto, a causa di circostanze avverse(1,1); essi preferiscono esortare fraternamente alla concordia e all'unità, ma non rinunciano a richiamare all'ordine, ricordando le norme stabilite dalla tradizione circa la successione dei ministeri nella chiesa(40-44) e usando un tono perfino minaccioso(57,1-2; 59,1-2); per essere certi dei buoni risultati della loro iniziativa, affidano la lettera ad alcuni inviati, "che saranno testimoni tra voi e noi", affinché si conosca "che tutta la nostra sollecitudine è stata ed è che raggiungiate al più presto la pace"(63,3-4). La lettera, quindi, più che la coscienza di un primato personale del vescovo di Roma, attesta la consapevolezza di una precisa responsabilità della chiesa di Roma nei confronti di quella di Corinto. Tale consapevolezza sembra condivisa dai cristiani della città greca, che accolse la lettera con rispetto e venerazione. La stessa coscienza sembra riflettersi nella lettera di S.Ignazio di Antiochia ai Romani. Il suo saluto iniziale alla chiesa di Roma è assai diverso da quello rivolto alle altre chiese: essa non è soltanto "la chiesa amata e illuminata per volontà di colui che ha voluto tutte le cose che sono secondo la carità di Cristo"; è ancora la chiesa "che presiede nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna di beatitudine, degna di lode, bene ordinata, casta e che presiede alla carità, avendo la legge di Cristo e il nome del Padre". Gli studiosi si sono impegnati a decifrare soprattutto le espressioni: "presiede nel luogo della regione dei Romani", e "presiede alla carità". Chi ci vede affermata una preminenza solo morale, dovuta alla generosa attività caritativa di quella chiesa, e chi un riconoscimento della sua autorità. E' uno dei tanti testi, concernenti il nostro tema, che difficilmente si possono leggere senza farsi influenzare dalle proprie convinzioni previe. E' interessante comunque notare da un lato il rispetto manifestato da Ignazio verso la Chiesa di Roma, alla quale non osa dare ordini, perché essa li ha ricevuti dagli Apostoli Pietro e Paolo (IV,3) e essa stessa ha insegnato e comandato agli altri (III,1), dall'altro il suo assoluto silenzio circa la presenza di un vescovo a Roma, mentre l'accenno non manca nelle sue lettere dirette alle chiese dell'Asia minore. A Roma in questo tempo non era ancora avvenuto il passaggio dal collegio dei presbiteri all'episcopato monarchico nella direzione della chiesa, anche se Clemente, l'autore della lettera, doveva ricoprire un ruolo eminente. La posizione di preminenza della chiesa romana nel II sec. è testimoniata anche dal gran numero di cristiani, ortodossi e eretici, che vi accorrono: il martire Giustino vi istituì una scuola di filosofia; Policarpo, vescovo di Smirne, martirizzato nel 167, vi venne a consultare il papa Aniceto sulla questione della Pasqua[1]; il giudeo-cristiano Egesippo vi dimorò a lungo allo scopo di stabilire l'ordine della successione apostolica dall'inizio fino al papa Eleuterio[2]. Soprattutto le visite di questi ultimi mostrano che la preminenza della chiesa romana non era legata tanto al fatto di essere nella capitale dell'impero, quanto a motivi religiosi. Ciò appare confermato dalle testimonianze di diversi autori del II secolo, riferite da Eusebio di Cesarea: sia Papia di Gerapoli che Clemente Alessandrino nei loro scritti avrebbero parlato della predicazione romana di Pietro, associandogli l'evangelista Marco[3]; Dionigi di Corinto verso il 170 avrebbe attestato la missione apostolica e il martirio sia di Pietro che di Paolo a Roma[4]; il presbitero romano Gaio, nei primi anni del III secolo, si diceva in grado di mostrare sul colle Vaticano e sulla via Ostiense le tombe dei due Apostoli, "che hanno fondato questa chiesa"[5]. La preminenza della chiesa di Roma nel II sec., insomma, appare legata non tanto a fattori politici, quanto al ricordo della dimora, dell'insegnamento e del martirio di Pietro e di Paolo nella città. Ireneo e Tertulliano Sugli stessi motivi insistono anche teologi importanti come Ireneo e Tertulliano, quando, per combattere gli gnostici, sono costretti ad appellarsi alla regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica, fedelmente conservata a Roma attraverso la successione apostolica. Grande rilievo assume la posizione di Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del II sec., ma originario dell'Asia minore. Egli indica nella comunione con la chiesa di Roma il criterio sicuro per conoscere l'autentica regola della fede, trasmessa dalla tradizione apostolica[6]; e per dimostrare la ininterrotta successione dei vescovi romani dagli apostoli Pietro e Paolo, ne riferisce la lista completa[7]. Egli è convinto che la Chiesa di Roma "è la chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti e stabilita a Roma dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo... Pertanto a questa chiesa propter potentiorem principalitatem deve convergere ogni altra chiesa, cioè i fedeli che sono dovunque, perché in essa è stata sempre custodita la tradizione che viene dagli Apostoli da coloro che sono dovunque"[8]. Potentior principalitas non pare che voglia dire una più potente autorità, quanto piuttosto una più alta origine. Anche così, il discorso di Ireneo non lascia dubbi: riconosce il ruolo preminente della chiesa di Roma nell'accertamento della fede e della comunione cattolica.
Anche Tertulliano alle interpretazioni razionalistiche degli eretici oppone la regola della fede, conservata nella tradizione apostolica nelle chiese fondate dagli Apostoli e in quelle che sono in comunione con le prime[9]. Nelle chiese apostoliche "le cattedre degli Apostoli presiedono ancora al loro posto e si leggono le loro lettere autentiche, che fanno risuonare l'eco della loro voce". Ricordate alcune chiese orientali, fa l'esaltazione di quella di Roma, "la cui autorità è a disposizione anche di noi" africani: "felicissima chiesa, alla quale gli Apostoli hanno donato tutta la loro dottrina con il loro sangue, dove Pietro ha subito una passione simile a quella del Signore, dove Paolo fu coronato con la morte di Giovanni"[10]. Di questa chiesa ricorda la lista della successione dei vescovi, che attesta l'ordinazione di Clemente da parte di Pietro[11]. Tertulliano è il primo autore ecclesiastico a richiamarsi a Mt 16,16-18. Contro gli eretici, che difendevano la loro gnosi col pretesto che il Signore non avrebbe rivelato tutto agli Apostoli, argomenta:"Avrebbe forse ignorato qualcosa Pietro, che fu detto la pietra della chiesa che doveva essere edificata, che ricevette le chiavi del regno dei cieli e il potere di legare e sciogliere nei cieli e sulla terra?"[12]. Altrove giunge ad affermare che il Signore lasciò le chiavi dei cieli a Pietro e per mezzo di lui alla Chiesa[13]. Ma nel periodo montanista nega che il potere dato a Pietro fosse destinato a passare a tutta la chiesa vicina a Pietro: l'intenzione del Signore sarebbe stata quella di conferire quel potere solo alla persona di Pietro[14]. Il primato nel III secolo Anche senza parlare di primato, Ireneo e Tertulliano avevano indicato nella chiesa romana la via sicura, per accertare l'autentica tradizione apostolica e garantire la comunione tra le chiese. Forte di tale convinzione, il papa Vittore I, per imporre la tradizione romana nella celebrazione della Pasqua, verso il 190 scomunicò Policrate di Efeso ed altri vescovi dell'Asia minore. L'intervento fu giudicato eccessivo da molti vescovi, tra i quali Eusebio ricorda lo stesso Ireneo, che in una lettera avrebbe criticato il ricorso alla scomunica in una simile questione[15]. Il primo richiamo a Mt 16,17ss, per spiegare la trasmissione delle prerogative di Pietro a Clemente, è fatto in una lettera pseudoclementina, databile agli inizi del III secolo. Ma bisogna aspettare la metà del secolo, per vedere il primo papa appellarsi a quel testo di Matteo e imporre a tutti una dottrina della chiesa romana. Ciò avvenne con il papa Stefano(254-257), che obbligò tutti a riconoscere la validità del battesimo amministrato dagli eretici e scismatici. L'imposizione dottrinale e la rivendicazione del primato provocarono una violenta reazione non solo dei vescovi africani, ma anche di Firmiliano di Cesarea di Cappadocia. Cipriano di Cartagine in un trattato su L'unità della Chiesa cattolica aveva scritto che "sebbene Cristo abbia dato un uguale potere a tutti gli apostoli, non ha tuttavia stabilito che una sola cattedra, organizzando così con la sua autorità, l'origine e la ragion d'essere dell'unità...Anche gli altri apostoli erano quello che era Pietro, ma a Pietro aveva dato il primato e così è mostrato che non c'è che una sola chiesa e una sola cattedra...Chi non ritiene questa unità di Pietro, come può credere di mantenersi nella fede? Chi abbandona la cattedra di Pietro, sulla quale è fondata la Chiesa, s'illude di essere nella Chiesa?"[16]. Scoppiata la controversia con Stefano Cipriano si affrettò a togliere dal suo trattato i riferimenti a Pietro e al primato, per non offrire appigli alle rivendicazioni romane. In realtà il primato di Pietro, di cui aveva parlato, non era da lui inteso "come un potere o un onore che in Pietro sarebbe superiore a quello degli altri Apostoli, ma come una specie di diritto di primogenitura, nel senso che egli ha ricevuto per primo lo stesso potere e gli stessi onori che hanno ricevuto gli altri"[17]. Fu lo stesso Cipriano, comunque, a rivolgere un invito al papa a risolvere una crisi ecclesiale in Gallia[18], come già aveva fatto in Spagna, dove aveva annullato la decisione di un sinodo episcopale in una questione concernente due vescovi[19]. Erano interventi di giurisdizione, compiuti fuori d'Italia e giudicati legittimi. Il successore di Stefano, Dionigi, invitato dal clero di Alessandria a giudicare una dottrina trinitaria, nel sinodo del 262 condannò tanto il sabellianismo quanto la dottrina dello stesso Dionigi di Alessandria. Questi si difese dalle accuse, riconoscendo la legittimità dell'intervento. Ultimo episodio significativo circa il ruolo della chiesa di Roma nel III sec. si ebbe nella controversia di Paolo di Samosata, scomunicato da un sinodo di Antiochia(268). Il sinodo comunicò la sentenza a tutti i vescovi, mettendo al primo posto Dionigi di Roma, dal quale si sollecitavano lettere di comunione per il sostituto[20]. Poiché Paolo non voleva cedere una chiesa, l'imperatore Aureliano, pagano, sentenziò che "l'edificio doveva appartenere a coloro che erano in comunicazione epistolare con i vescovi di Italia e il vescovo della città di Roma" [21]. In conclusione, alla fine del III sec. la chiesa di Roma è riconosciuta da tutti come un centro di primaria importanza per la comunione ecclesiale; in alcuni casi, in Italia e in alcune regioni dell'Occidente, le si riconosce anche un'autorità di giurisdizione. Lo sviluppo del primato in Occidente Dal IV sec. assistiamo a un grande sviluppo della dottrina del primato in Occidente, in una misura sconosciuta in Africa e ancor più in Oriente. Alla diversa evoluzione contribuirono le circostanze storiche e politiche. A Roma, nell'assenza ormai dell'imperatore, si tende a identificare il vescovo della città con Pietro, di cui è successore e vicario: Pietro vive, parla, presiede e giudica per mezzo suo; il papa si sente l'erede di tutti i poteri concessi a Pietro; a lui spetta la sollecitudine di tutte le chiese, perché è il pastore di tutto il gregge del Signore. Sostenuti da questa consapevolezza, i vescovi di Roma accolgono da ogni parte appelli e consultazioni su questioni di fede e di disciplina ecclesiastica e incominciano a esercitare una giurisdizione diretta e immediata fuori di Roma: dapprima nella provincia suburbicaria e metropolitana, poi in tutta l'Italia e infine, a poco a poco, in tutto l'Occidente. Ricordiamo qualche tappa di tali sviluppi. Una chiara affermazione del primato è fatta da papa Giulio nel 341. Egli protesta contro la deposizione del patriarca alessandrino Atanasio, fatta senza interpellare la chiesa di Roma e contro la tradizione di sottomettere tali cause al giudizio del successore di Pietro[22]. Un'altra chiara affermazione del primato si ebbe nel concilio di Sardica(343), che però contava molti vescovi occidentali e pochi orientali. I vescovi ritenevano "ottima cosa e assolutamente conveniente che i sacerdoti del Signore riferissero al capo, cioè alla Sede dell'apostolo Pietro, dalle singole province"[23]. La politica filoariana dell'imperatore Costanzo produsse un momentaneo appannamento del ruolo del vescovo di Roma. Nel 380 però Teodosio, nel proclamare il cristianesimo religione dello stato, invitava tutti i popoli dell'impero a professare "la religione trasmessa dall'apostolo Pietro ai romani e che è continuata fino ai nostri giorni nella regione che segue il pontefice Damaso e il vescovo Pietro d'Alessandria"[24]. Superato lo scisma di Ursino con l'aiuto imperiale, il papa Damaso diede un grande impulso all'organizzazione e all'attività della sua chiesa, accrescendone prestigio e autorità. A Roma si rivolgono vescovi dalla Spagna e dalla Gallia, per ottenere risposte a questioni di fede o di prassi ecclesiale. Nelle risposte di Siricio, dette decretali, si coglie la piena consapevolezza dei doveri pastorali del papa di Roma verso la chiesa universale: "Portiamo il peso di tutti quelli che sono gravati; piuttosto li porta in noi il beato apostolo Pietro, che, come confidiamo, ci protegge e ci difende, quali eredi della sua amministrazione"[25]. I papi del V secolo sono tutti impegnati a far riconoscere e a estendere l'autorità di Roma. Nell'Illirico assegnano al vescovo di Tessalonica l'incarico di loro rappresentante: egli deve informare Roma di tutto e intervenire a suo nome. I papi sono pronti a ricevere da ogni parte appelli e ricorsi, comportandosi da supremo tribunale. L'autorità dei singoli vescovi, quali successori degli Apostoli, e dei loro sinodi non viene messa in discussione. Ma essi, pur avendo tutti la stessa dignità(honor), non hanno gli stessi diritti (potestas). Per Leone magno il vescovo di Roma è"il principe di tutta la chiesa"[26], perché è il successore e l'erede di Pietro; "solo Pietro è messo alla testa di tutti gli apostoli e di tutti i padri della chiesa... a Pietro spetta la guida di tutti coloro che sono sotto la guida suprema di Cristo"[27]. Di fatto il magistero dei papi e i loro interventi disciplinari si restringono quasi unicamente alle regioni occidentali e dell'Illirico e sono limitati alle cause più importanti riguardanti le contese di elezioni o deposizioni episcopali. Per di più tali interventi di arbitrato sono spesso giustificati con la consuetudine e i canoni conciliari, di cui si professano custodi. Il primato in Africa Ciò non toglie che in alcuni casi i loro interventi vengano contestati. Ciò avvenne, quando il papa Zosimo tentò di riabilitare Pelagio e Celestio, già condannati dai vescovi africani, e quando lo stesso papa accolse il ricorso del prete Apiario contro il suo vescovo. Gli africani contestarono ai legati pontifici l'autenticità dei canoni conciliari addotti per giustificare l'intervento romano. Non erano i canoni del concilio di Nicea, ma di quello di Sardica! Ancora più dura fu la reazione africana all'intervento del papa Celestino, che accolse un nuovo ricorso di Apiario. In una lettera firmata dal primate di Cartagine e da altri 14 vescovi, si chiedeva al papa la stretta osservamza dei canoni di Nicea, di non inviare più legati né executores e tantomeno il legato Faustinus[28]. L'ecclesiologia degli africani nella questione del primato del vescovo di Roma si mantenne sempre più vicina alla linea di Cipriano che a quella di Roma. Verso la metà del IV sec. si erano allineati alla dottrina romana di non ripetere il battesimo amministrato fuori della Chiesa. Ma restarono gelosi della loro autonomia. S.Agostino considerava un dovere essere in comunione con tutte le chiese e soprattutto con quella di Roma, perché in essa semper apostolicae cathedrae viguit principatus[29]; anch'egli, per mostrare la successione apostolica nella chiesa, indicava la successione episcopale nella chiesa di Roma da Pietro a Anastasio, "che ora occupa la stessa cattedra". Ma per lui le parole dette dal Signore: "Sopra questa pietra edificherò la mia chiesa" furono dette a Pietro,"quale rappresentante di tutta la Chiesa"[30] e la pietra sulla quale è edificata la chiesa è lo stesso Cristo[31]. In Oriente Non diversa era la posizione degli Orientali. Atanasio, Basilio e tanti altri vescovi continuarono sempre a cercare la comunione con Roma e da essa attendevano aiuto e sostegno nei momenti difficili. Ma ogni volta che si trattava di potestà di giurisdizione, a Roma si riconosceva un primato sull'Occidente, non sull'Oriente. Il canone 6 del conc. di Nicea(325) si limitava a confermare la consuetudo che la chiesa di Alessandria e di Antiochia avessero nelle rispettive regioni d'influenza l'autorità, che aveva Roma in Occidente. Il Conc. di Costantinopoli(381) incominciò a innovare, stabilendo che al vescovo di questa città, quale Nuova Roma, spettasse un primato di onore subito dopo Roma. Nel conc. di Efeso(431), quando il legato papale dichiarò il primato del vescovo di Roma, quale successore di Pietro, i vescovi orientali non sollevarono obiezioni. Mentre nel conc. di Efeso del 449 i legati romani non furono ascoltati e il tomo di Leone a Flaviano non poté esser letto. Al contrario nel Conc. di Calcedonia(451), il tomo del papa fu letto e acclamato dai vescovi: "Pietro ha parlato per bocca di Leone". Ma poi, in assenza dei legati del papa, il concilio, presieduto da funzionari imperiali, confermò il primato di onore per la chiesa di Costantinopoli, dopo quella di Roma, sottomettendole i metropoliti delle diocesi di Asia, del Ponto e della Tracia. Le ragioni politiche ormai prevalevano sempre più su quelle religiose ed ecclesiali. A nulla valsero le proteste dei legati. Il concilio scrisse con molto riguardo a Leone, chiedendo l'approvazione del canone, che il papa diede a malincuore e solo dopo qualche tempo, per le pressioni dell'imperatore Marciano. Il cesaropapismo bizantino L'affermazione dell'eresia monofisita, il crescente interventismo degli imperatori bizantini nelle questioni di fede e la caduta dell'impero romano di Occidente contribuirono a rendere sempre più profondo il fossato tra la chiesa di Roma e quelle orientali. La tendenza incominciò a manifestarsi con Timoteo di Eluro, di Alessandria, che in un concilio giunse a dare l'anatema a Leone di Roma e ai patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia; proseguì con l'imperatore Basilisco, che in una Enciclica condannava il concilio di Calcedonia e canonizzava il monofisismo e si affermò con Zenone l'Isaurico, che consigliato da Acacio di Costantinopoli, promulgò un editto di unione, detto Enotico, in cui veniva respinto il conc. di Calcedonia e non si parlava più di due nature in Cristo. Di fronte all'abbandono quasi generale di Calcedonia il papa Felice credette di salvare l'ortodossia, scomunicando nel 484 il patriarca di Costantinopoli con quelli che erano con lui. Le relazioni con Bisanzio restarono tese durante tutto il papato di Gelasio(492-496) e di Simmaco(498-514) a motivo della politica monofisita dell'imperatore Anastasio I. Gelasio dovette ricordare all'imperatore la distinzione, già avanzata da Leone, dell'auctoritas dei vescovi dalla potestas civile[32]. La frattura con Roma cessò con l'avvento al trono bizantino di Giustino(518), che riconobbe le dottrine di Calcedonia. Anche Giustiniano accettò una professione di fede di papa Ormisda, che riconosceva la dottrina di Calcedonia e l'autorità di Roma. Quando il papa Giovanni si recò in Oriente per ordine di Teodorico, fu accolto con i massimi onori, ottenendo il posto di onore prima del patriarca. Anche il papa Agapito(536) fu accolto a Costantinopoli con grandi onori; chiese e ottenne la sostituzione del patriarca monofisita Antimo e la convocazione di un concilio. Le acque tornarono ad agitarsi, allorché Giustiniano, per riconciliarsi i monofisiti, pretese la condanna dei Tre Capitoli. Il papa Vigilio, portato a Costantinopoli, subì pressioni e violenze. Finì per cedere all'editto e alla fine riconobbe anche il II conc. di Costantinopoli(553), celebrato in sua assenza. La capitolazione suscitò forti opposizioni in Africa, Illirico e Italia fino a provocare alcuni scismi. Verso la fine del secolo iniziò l'opposizione dei papi alle pretese di Bisanzio di riservare al proprio vescovo il titolo di patriarca universale. In seguito, mentre Gregorio magno dava un forte impulso alla cristianizzazione dei barbari stanziatisi in Occidente e affermava tra loro la sua autorità, i successori si impigliavano nelle infinite discussioni teologiche di Oriente. Onorio I assunse una posizione ambigua sulla questione del monoenergismo, che fu poi condannato dal III conc. di Costantinopoli (680). Martino I condannò il monotelismo e fu esiliato in Crimea, dove morì(655). Contro ogni tradizione l'imperatore bizantino dichiarò autocefala la chiesa di Ravenna(666). Contemporaneamente si cercava di imporre l'idea della pentarchia, per cui la Chiesa di Costantinopoli era da considerarsi apostolica al pari delle altre quattro. A questo scopo ci si richiamava agli apostoli Giovanni e Andrea. Un riconoscimento dell'autorità del papa si ebbe nel conc. ecumenico di Costantinopoli (680). Il papa Agatone condannò il monotelismo e l'errore personale di Onorio e la sua lettera fu accolta come "scritta dal vertice più elevato, che è quello degli apostoli...Attraverso Agatone ha parlato Pietro". Ma la pace durò poco. Nel 731, poichè il papa si rifiutava di approvare gli editti iconoclasti, l'imperatore Leone III sottrasse alla giurisdizione romana le province dell'Italia meridionale, Illirico, Macedonia e Grecia e le sottomise a Costantinopoli. Qui nel 754 si celebrò un concilio, senza invitare né il papa né gli altri patriarchi. Ma a questo strappo si riparò nel conc. ecumenico di Nicea(787), dove fu negata la validità di quello del 754, perché esso "non aveva avuto come cooperatore il papa della chiesa romana di quel tempo...neppure per il tramite di persone che lo rappresentano o per mezzo di una lettera enciclica, come è canonicamente richiesto dai concili"[33]. Il papato, i Franchi e i Germanici Nel frattempo però la storia aveva imboccato altre vie. La crisi iconoclasta portò a maturazione un processo in atto da tempo. Il papato da decenni aveva cercato l'appoggio della monarchia franca. Pipino il Breve, incoronato re da un legato del papa(751), mosse guerra ai Longobardi e conquistò Ravenna, cedendola al papa. Nel 756 creò il patrimonio di S.Pietro e più tardi il ducato di Roma. Con Carlomagno ci si avvicinò alla linea cesaropapista degli imperatori bizantini, con le ingerenze nelle vita della chiesa e nelle questioni di fede. Fu lui, contro la volontà del papa, a far inserire il Filioque nel credo(809). D'altra parte, però, fu Carlomagno a ridare unità all'Europa, rafforzando l'autorità e il primato della chiesa di Roma. Contro l'imperatore Leone III egli difese il principio che "la sede apostolica dev'essere giudice, non giudicata". Il successore di S.Pietro non è solo considerato il vescovo della prima e suprema sede, ma anche il papa della chiesa universale. Le Decretali pseudo-isidoriane rafforzano il potere papale nei confronti dei metropoliti tanto che ben presto sarà il papa a concedere ad essi il pallio e quindi la giurisdizione. Con Nicola I ci si avvia alla monarchia papale. Dal momento che Pietro "meritò pienamente i diritti di tutto il potere", il papa si sente in dovere di intervenire in ogni parte della chiesa, anche nel campo temporale. Intanto la rivalità con la sede di Costantinopoli si acuiva. Il papa aveva chiesto un nuovo processo di Ignazio, che era stato sostituito da Fozio. E l'imperatore e il sinodo(861) avevano accolto l'invito, per onorare S.Pietro e il suo successore, riconoscendo così l'autorità romana. Lo stesso Fozio aveva risposto alla lettera di Nicola, che contestava la sua promozione, con fermezza, ma anche con rispetto. Ma il papa decise di annullare le decisioni del sinodo e deporre Fozio, il quale reagì deponendo a sua volta il papa(867). Due anni dopo, però, i vescovi orientali deposero Fozio, accettarono un Libellus satisfactionis e deliberarono che nessuno osasse accusare o deporre i patriarchi, soprattutto quello della "sede di Pietro, il primo degli apostoli". Quando poi fu riabilitato dal papa(880), Fozio stesso si espresse con rispetto verso il successore di Pietro, "il corifeo degli apostoli, che il Signore ha posto alla testa di tutte le chiese dicendogli: Pasci le mie pecore". Una nuova, passeggera, incrinatura tra le due sedi si ebbe nella prima metà del X sec., per una dispensa matrimoniale data da Roma all'imperatore. L'ultimo secolo del millennio fu il più oscuro per il papato. Le lotte tra le famiglie romane, per accaparrarselo, provocarono una serie di scismi e di antipapi. Gli imperatori germanici, volendo restaurare il sacro romano impero, proclamavano Roma "capitale del mondo e la chiesa romana madre di tutte le chiese", ma pretendevano mano libera nelle investiture degli uffici ecclesiastici, favorendo la simonia e ogni genere di abusi. In tanto marasma il millennio si chiudeva con un tentativo di un legato orientale di mettere un proprio uomo sulla Sede di Pietro.
NELLO CIPRIANI Istituto Patristico Augustinianum Roma Nota bibliografica Le pubblicazioni più interessanti per un tema, che abbraccia un periodo così esteso, sono quelle che limitano la ricerca ad aspetti particolari e nel tempo, oppure sono opera di collaborazione: ha suscitato qualche discussione
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