«Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada»
Rispondendo, in un articolo apparso sul sito «Riscossa Cristiana», ad una sua lettrice che gli domanda cosa pensi di alcune questioni di attualità, tra cui la recente intervista in cui mons. Athanasius Schneider auspica una soluzione canonica per la Fraternità San Pio X, e riprendendo un suo intervento analogo sul medesimo sito del 12 maggio 2016, il 16 gennaio scorso Alessandro Gnocchi, noto giornalista e apologeta cattolico, esprime delle considerazioni dal tono fortemente critico nei confronti della Fraternità. Benché non venga da lui sollecitata una risposta da parte nostra, essendo stati chiamati in causa e con toni decisamente severi, ci sembra utile fornire il nostro punto di vista sui problemi sollevati.
Premettiamo che nutriamo una stima immensa per Alessandro Gnocchi, numerose pubblicazioni del quale sono in vendita nei nostri priorati e nelle nostre cappelle. Ma appunto la stima per questo coraggioso giornalista – e autentico cattolico in quest’epoca di crisi della fede – rende tanto più doloroso leggere oggi, dalla sua penna, righe dettate, così ci sembra, piuttosto da uno zelo amaro fuori luogo che dal profondo senso ecclesiale che lo ha sempre contraddistinto. Uno zelo, cioè, mosso senz’altro dalle migliori intenzioni e dall’amore sincero per la Chiesa di Gesù Cristo, ma che scade nel disfattismo e nel livore, un po’ come lo zelo che spinse l’apostolo Pietro a tagliare l’orecchio del servo del sommo sacerdote Malco (Gv 18,10-11) per difendere, ma intempestivamente, Nostro Signore.
Al centro delle critiche di Gnocchi è quello che nel cappello introduttivo al suo articolo viene definito «il prevedibile accordo della Fraternità San Pio X con Roma» e che invece le autorità della Fraternità sottolineano essere solo un’eventualità, e cioè quella – si noti peraltro come il termine «accordo» appartenga quasi sempre al lessico dei suoi denigratori o dei fautori di un compromesso dottrinale – di un riconoscimento canonico della Fraternità senza controparti dottrinali da parte della Santa Sede. Anzi, a dire il vero – e questo aspetto, taciuto nell’articolo, non è affatto ininfluente per esprimere un giudizio sulla questione – è proprio la Santa Sede ad aver manifestato (pur avendo appurato, dopo i colloqui dottrinali, le sostanziali divergenze) la sua intenzione di voler regolarizzare la situazione canonica della Fraternità, e non il contrario. Ciò che, in questo contesto, mons. Fellay ha risposto alle iniziative delle autorità romane, è semplicemente che, se l’inquadramento canonico profilato dalla Santa Sede dovesse davvero corrispondere – nelle parole come nei fatti – a quello che mons. Lefebvre ha sempre auspicato, e se nessuna controparte dottrinale venisse richiesta, allora la cosa si farà. In caso contrario, no. E ha aggiunto che personalmente, vista l’imprevedibilità dell’attuale Pontefice, non è assolutamente in grado di prevedere se questo avverrà realmente o no. L’unica stima che ha azzardato è che le discussioni si protrarranno ancora per diverso tempo, in quanto entrambe le parti vogliono che siano condotte senza nessuna fretta[1]. Lo scopo di questa tabella di marcia a velocità limitata è evitare ogni equivoco, mettere con chiarezza tutte le carte in tavola, permettere alle autorità vaticane di capire cosa intende realmente la Fraternità quando chiede di essere riconosciuta senza controparti dottrinali e senza modificare nulla della sua vita concreta. Questo emerge da tutte le dichiarazioni recenti, ufficiali e private, di mons. Fellay.
Una delle prime cose che colpisce nella ricostruzione dei fatti di Gnocchi è che i fatti stessi vengono presentati, nei toni come nei contenuti, in modo del tutto diverso da come essi risultano dalle fonti ufficiali. Tutto quanto fin qui descritto, infatti, secondo Gnocchi equivale tout court a voler «buttarsi nelle mani di Bergoglio e della chiesa anticristica che il vescovo di Roma rappresenta […]. Entrando in pompa magna nella neochiesa bergogliana, gli eredi di monsignor Marcel Lefebvre porterebbero processionalmente l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno»; si tratterebbe di un «abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica». Sull’inopportunità dei toni non ci attarderemo a lungo: facciamo solo notare che questo linguaggio ricorda molto di più quello dei sedevacantisti – i quali appunto in Jorge Mario Bergoglio null’altro vedono se non il rappresentante di una «neochiesa anticristica» – che quello, talvolta tagliente ma mai irrispettoso, di mons. Lefebvre, che pure Gnocchi onora di ogni sorta di elogi, e della Fraternità San Pio X, alla quale pure riconosce di rappresentare – no, si corregge subito, di «aver rappresentato una fase importante nella vita della Tradizione e quindi della Chiesa» (se ci sapesse segnalare un solo punto sul quale la Fraternità avrebbe modificato la sua critica all’orientamento conciliare e postconciliare così da non rappresentare più un punto di riferimento nella vita della Tradizione, gliene saremmo grati). No, i toni li lasceremo da parte perché senz’altro sono dovuti, in parte, anche all’inevitabile verve giornalistica. Molto di più ci meravigliano invece – e rattristano – i contenuti di queste affermazioni.
Dal momento che agli occhi di Gnocchi l’attuale condotta della Fraternità nei confronti del Pontefice regnante – non ce ne voglia se, da imperdonabili tradizionalisti quali siamo, agli epiteti anticristici preferiamo ancora l’espressione tradizionale – rappresenterebbe un tradimento della linea di mons. Lefebvre, non sarà inutile ricordare qui qual era, a questo riguardo, la posizione di mons. Lefebvre. E per evitare di «attribuire il nostro pensiero a una persona morta che non può più dire la sua», procedimento «truffaldino» e «intellettualmente misero» (sic) che Gnocchi rimprovera a mons. Schneider, lasceremo la parola a mons. Lefebvre stesso, che nella sua vita si è espresso più volte su questo argomento.
A più riprese e nell’arco di tutta la parabola ascendente della crisi nella Chiesa, mons. Lefebvre ha mantenuto i contatti con le autorità ufficiali della Chiesa, cercando di ottenere un riconoscimento canonico per la Fraternità. E questo anche nei punti più intensi della crisi.
Fin dall’inizio, nel 1970, ha considerato questa approvazione ufficiale della Chiesa addirittura come il segno sine qua non che la sua Fraternità era voluta da Dio. Questo riconoscimento arrivava in un momento in cui il Concilio si era già concluso da qualche anno, la crisi era già cominciata, documenti che mons. Lefebvre considerava contrari alla Tradizione erano già stati avallati nell’aula conciliare, Paolo VI aveva già pronunciato il noto discorso in cui celebrava la «simpatia immensa per il mondo» che aveva pervaso il Concilio, il nuovo messale era appena entrato in vigore. E arrivava peraltro da un vescovo (mons. Charrière) non di orientamento tradizionale, ma allineato alle novità conciliari (sebbene a tinte conservatrici). Eppure mons. Lefebvre non ha detto: «Non voglio buttarmi nelle mani di Charrière e di Montini. Entrando nella neochiesa montiniana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno», bensì: «La Fraternità è un’opera di Chiesa. Quanto a me, avrei avuto in orrore l’idea di fondare qualcosa senza l’approvazione di un vescovo. Doveva essere un’opera di Chiesa»[2].
Il 6 maggio 1975 mons. Mamie, successore di mons. Charrière, con un procedimento di dubbia validità sul piano canonico, ritirò l’approvazione del suo predecessore sopprimendo così la Fraternità San Pio X. Come reagì mons. Lefebvre? Ha detto forse: «Non voglio buttarmi nelle mani di Mamie e di Montini. Rientrando nella neochiesa montiniana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno»? No: «La risposta di mons. Lefebvre è triplice: il magnifico pellegrinaggio a Roma organizzato dall’associazione Credo alla Pentecoste di quest’anno santo e presieduto da mons. Lefebvre circondato da tutto il suo seminario, mostrando così il loro attaccamento alla Roma di sempre; poi una lettera di sottomissione al successore di Pietro, scritta ad Albano il 31 maggio, che includeva una supplica di riesame del suo processo; e infine un ricorso al tribunale della Segnatura apostolica contro la decisione di mons. Mamie, depositato il 5 giugno»[3].
Il 29 giugno 1976 Paolo VI lo sospese a divinis. Alla fine dell’omelia della prima Messa pubblica dopo la sospensione, a Lille il 29 agosto successivo, davanti a settemila persone mons. Lefebvre delineava la soluzione dei suoi dissapori con la Santa Sede non già stigmatizzandola come «l’abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica», bensì in termini da cui traluce tutt’altra ponderatezza:
«Se solo ciascun vescovo nella sua diocesi mettesse a disposizione dei fedeli cattolici legati alla Tradizione una chiesa, dicendo: “Questa chiesa è per voi”, che immensi benefici ne trarrebbero [...]! Quando si pensa che il Vescovo di Lille ha dato una chiesa ai musulmani, non vedo perché non ci potrebbe essere una chiesa per i cattolici legati alla Tradizione. E, in definitiva, la questione sarebbe risolta. Ed è quello che domanderei al Santo Padre, se accetterà di ricevermi: “Ci lasci fare, Santità, l’esperienza della Tradizione. In mezzo a tutte le esperienze che si fanno attualmente, che ci sia almeno l’esperienza di ciò che è stato fatto per venti secoli!».
E l’11 settembre successivo, ricevuto da Paolo VI, gli ripeterà la stessa supplica: «Santo Padre […], lei ha la soluzione tra le mani. Non deve fare altro che dire una sola parola ai vescovi: “Accogliete con comprensione questi gruppi di fedeli che tengono alla Tradizione, alla Messa, ai sacramenti, al catechismo di sempre; date loro dei luoghi di culto”. Questo gruppi saranno la Chiesa, vi troverete delle vocazioni, sarà la parte migliore della Chiesa. I Vescovi lo riconosceranno. Lasci il mio seminario. Mi lasci fare l’esperienza della Tradizione. Voglio senz’altro entrare in relazioni normali con la Santa Sede, attraverso una commissione che Lei potrebbe nominare, che verrebbe in seminario. Ma, evidentemente, noi conserveremo e vogliamo continuare l’esperienza della Tradizione»[4].
Gnocchi interpreta il fatto che mons. Fellay accetti di discutere con papa Francesco e saluti in termini positivi, seppure con qualche riserva, certe sue aperture verso la Fraternità, come il segno che il Superiore della Fraternità San Pio X abbia abboccato all’«esca gettata da Bergoglio» (così scriveva nell’articolo del maggio 2016). A questo genere di obiezioni mons. Lefebvre, in realtà, aveva già risposto ante litteram nel 1977: «Cosa bisogna fare nei confronti delle persone che occupano i posti di autorità? Chiuderci nella nostra resistenza come in una torre d’avorio? Oppure cercare di convincere le autorità romane? Io non ho assunto la posizione di rompere il dialogo con Roma»; e nel 1978: «Voglio mantenere questa atmosfera psicologica che permette delle relazioni facili; non mi si potrà mai accusare di aver avuto un atteggiamento insolente nei confronti del Santo Padre»[5].
Si leggano ora queste parole: «Sono in circolazione dei pamphlet contro di me. Io sarei un traditore e un Pilato perché discuto con Roma e domando al Papa: “Lasci fare la Tradizione” […]. Il solo scopo dei miei tentativi a Roma è di cercare di abbattere il muro che ci rinchiude e far sì che migliaia di anime si salvino perché avranno la grazia della vera Messa, dei veri sacramenti, del vero catechismo e della vera Bibbia. È per questo che vado a Roma e non esito a recarmici ogni volta che mi si domanda di andarci […]. Se fossimo almeno tollerati, sarebbe già un notevole vantaggio; molti sacerdoti tornerebbero alla Messa, molti fedeli verrebbero alla Tradizione». Si direbbero le parole di mons. Fellay per difendersi dalle accuse degli esponenti della cosiddetta «resistenza» di oggi: e invece sono parole di mons. Lefebvre[6] contro la «resistenza» di allora (1979).
Il 18 novembre 1978, appena un mese dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, mons. Lefebvre si recò in udienza da lui a perorare la stessa causa. Nel corso degli anni successivi del suo pontificato ha continuato ad operare nella stessa direzione. Non ha detto: «Non voglio buttarmi nelle mani di Wojtyla. Entrando nella neochiesa wojtyliana, porterei l’integrità della fede nel luogo in cui non interessa a nessuno», bensì: «Oggi noi dobbiamo pregare in modo del tutto speciale per il nostro riconoscimento ufficiale, perché potete immaginare come saremmo numerosi qui, se non fossimo più perseguitati da certi membri della santa Chiesa: non cinquemila, seimila, ma ventimila, cinquantamila persone approfitterebbero delle grazie che Dio ci concede, mentre ora esse sono assetate, perdono la fede, sono smarrite, abbandonate. Così noi dobbiamo pensare a tutte quelle anime e quindi desiderare che cessino le persecuzioni ingiuste di cui siamo oggetto»[7].
Finanche nel 1987, cioè un anno dopo lo scandalo di Assisi, arrivò a proporre alla Santa Sede un progetto di riconoscimento canonico sul modello dell’Ordinariato militare istituito dal Papa poco tempo prima. A Ecône fece suonare il Te Deum in occasione della visita del cardinal Gagnon, e in una lettera al Papa del 20 febbraio 1988, lungi dal definire l’idea di un riconoscimento canonico della Fraternità come quella di un «abbraccio contronatura tra chi ha fatto della difesa della fede cattolica la propria ragione di vita e chi invece vede la sua missione nella distruzione della fede cattolica», riassumeva invece ancora una volta la sua posizione in questi termini: «Saremmo felicissimi di riallacciare relazioni normali con la Santa Sede, ma senza cambiare una virgola di quello che siamo; perché è così che siamo sicuri di rimanere figli di Dio e della Chiesa romana»[8]. Il 5 maggio 1988 appose la sua firma al celebre protocollo d’accordo propostogli dal cardinale Ratzinger, che poi tuttavia, essendo state disattese alcune delle condizioni che mons. Lefebvre considerava imprescindibili (segnatamente quella di avere un vescovo interno alla Fraternità), fu annullato.
Ma, ancora nel giugno 1989, dunque un anno dopo le consacrazioni episcopali e il tentativo fallito di riconoscimento canonico, rivolgendosi a dei diaconi nel ritiro di preparazione all’ordinazione sacerdotale, si esprimeva in questi termini: «Penso che in ogni caso noi abbiamo bisogno di un legame con Roma. È a Roma che si trova la successione di Pietro, la successione degli apostoli, dell’apostolo Pietro, del primato di Pietro e della Chiesa; se si taglia questo legame, si è davvero come una barca abbandonata ai quattro venti, senza più sapere a quale luogo e a quale persona siamo legati. Io penso che è possibile vedere nella persona che succede a tutti i Papi precedenti il successore di san Pietro, dal momento che occupa la Sede ed è stato ricevuto come Vescovo di Roma a San Giovanni in Laterano (ed è il Vescovo di Roma che è successore di Pietro), ed è riconosciuto come successore di Pietro da tutti i vescovi del mondo. Bene, cosa volete, si può pensare che è veramente il successore di Pietro! E in questo senso noi ci leghiamo a lui e, attraverso di lui, a tutti i suoi predecessori, ontologicamente, se così posso dire. Dopo di che, le sue azioni, ciò che fa, ciò che pensa, le idee che diffonde, questo è un’altra cosa, certamente. È una grande sofferenza per la Chiesa cattolica, per noi, che ci vediamo costretti a constatare una cosa simile. Ma penso che sia la soluzione che corrisponde alla realtà»[9].
Un’antologia di testi di mons. Lefebvre, pubblicata nel 2010 e curata proprio da Alessandro Gnocchi e dal compianto Mario Palmaro, contiene, in conclusione, un insieme di citazioni in cui Monsignore risponde alla domanda: «Come considerare il ritorno ad una situazione normale?». Le sue risposte manifestano una volta di più il suo profondo attaccamento alla Chiesa e conservano tutta la loro attualità:
«Quando si tratta del futuro, sappiamo che appartiene a Dio e che è, dunque, difficile fare delle previsioni […]. Tuttavia è nostro dovere fare di tutto per conservare il rispetto della gerarchia e saper distinguere fra l’istituzione divina, alla quale dobbiamo rimanere attaccati, e gli errori che dei cattivi suoi membri possono professare. Dobbiamo fare tutto il possibile per illuminarli e convertirli con le nostre preghiere e con un esempio di dolcezza e fermezza […].
«Avremo rispetto e anche affetto per tutti i sacerdoti, sforzandoci di ridare loro la vera nozione del sacerdozio e del Sacrificio della Messa, di accoglierli per dei ritiri, di predicare nelle parrocchie. E così, in virtù della verità e della Tradizione, scompariranno i pregiudizi contro di noi, almeno da parte degli animi ben disposti, e il nostro futuro inserimento ufficiale sarà grandemente facilitato. Evitiamo gli anatemi, le ingiurie, le volgarità, evitiamo le polemiche sterili; preghiamo, santifichiamoci, santifichiamo le anime che verranno a noi sempre più numerose, nella misura in cui troveranno da noi ciò di cui hanno sete, la grazia di un vero sacerdote, di un pastore di anime, pieno di zelo, forte nella fede, paziente, misericordioso e assetato della salvezza delle anime e della gloria di Gesù Cristo. Noi non lavoriamo contro nessuno, né persone né istituzioni. Lavoriamo per costruire, non per distruggere: per continuare quello che la Chiesa ha sempre fatto e per nessun’altra ragione […].
«Per questo mi è sempre sembrato, appoggiandomi alla sana e fedele Tradizione della Chiesa, che fosse mio dovere andare a Roma, protestare e fare tutto il possibile perché un giorno essa possa ritornare alla Tradizione. Alcuni membri della Fraternità, purtroppo, hanno creduto che non bisognasse più andare a Roma, che non si dovessero avere più contatti con coloro che si spingono nell’errore, e bisognasse dunque abbandonare tutti quelli che hanno adottato il Concilio Vaticano II e le sue riforme. Per questo, siccome la Fraternità continuava ad avere dei contatti con Roma e con il Papa, hanno preferito lasciare la Fraternità. Questo però non è mai stato ciò che la Fraternità ha fatto, né l’esempio che io ho creduto dover dare; al contrario! Non ho mai cessato di andare a Roma e continuo ad andarci […].
«Come poter sperare, allora, di fare ritornare la Chiesa alla sua santa Tradizione? È il Papa, infatti, che deve operare questo ritorno. È lui che ne ha la responsabilità e se oggi si lascia trascinare negli errori del Vaticano II, non è certo un motivo per abbandonarlo. Al contrario, dobbiamo dirigere tutti i nostri sforzi per farlo riflettere sulla gravità della situazione; farlo ritornare alla Tradizione e chiedergli di fare ritornare la Chiesa sulla via che essa ha percorso durante venti secoli.
«Alcuni mi diranno senz’altro, come coloro che lasciano la Fraternità per questo motivo, che è inutile, che è tempo perso. Questo perché non hanno fiducia in Dio. Egli può tutto. Umanamente parlando, è vero, la situazione è scoraggiante, ma Dio può tutto e la preghiera può ottenere tutto. Per questo dobbiamo pregare ancora di più per il Papa; perché Dio lo illumini e gli apra gli occhi in modo da vedere i disastri che si moltiplicano nella Chiesa. Così i seminari si riempiranno, sul modello di quelli tradizionali, per formare sacerdoti che celebrino la vera Messa, cantino la gloria di Dio, come Gesù Cristo ha fatto sulla croce, e perpetuino il sacrificio della croce. Per questo continuo ad andare a Roma, cari amici: ed è questo lo scopo della Fraternità San Pio X»[10].
A queste citazioni val poco rispondere con tutte le altre in cui mons. Lefebvre accusa con veemenza (ma sempre con rispetto verso l’autorità) gli errori del Concilio e dei Papi postconciliari. Queste altre citazioni non farebbero altro che confermare, appunto perché si iscrivono nello stesso arco temporale, che mons. Lefebvre non vedeva alcuna contraddizione tra il fatto di criticare le deviazioni della crisi nella Chiesa e, al tempo stesso, andare a Roma per discutere di un’eventuale regolarizzazione canonica della Fraternità. Di lui, però, si tesse l’elogio; se la stessa linea, invece, viene portata avanti dai suoi successori, questo diventa motivo di scandalo?
Né più fondata è l’obiezione, formulata da Gnocchi già nel maggio del 2016, che «ora la questione è ben diversa», in quanto «dal “Buonasera” del 13 marzo 2013, i fatti dicono che qualcosa è cambiato e non si può non vedere la duplicità della figura di Bergoglio: da un lato, recalcitrante capo quasi invisibile di una Chiesa cattolica ridotta sulla soglia dell’ultimo respiro e, dall’altro, il trionfale e visibilissimo condottiero dell’anticristica neochiesa della Casa Comune». Da questa constatazione emergerebbe che sbaglia radicalmente chi ritiene che, tra Francesco e gli altri Papi postconciliari, «la gravità della situazione sia solo mutata di grado».
Ora noi diciamo che, in realtà, la situazione è senz’altro peggiorata, e anche molto, ma gli errori di fondo che determinano questo stato di cose sono sempre gli stessi: quelli che mons. Lefebvre rimproverava al Concilio. In Gaudium et spes c’è già, in nuce, il pontificato di Francesco. Anzi, per certi versi Francesco si può considerare il più conciliare dei Papi che abbiamo avuto fino ad ora. Là dove i suoi predecessori hanno applicato il Concilio quasi sempre con qualche misura restrittiva e con dei correttivi in senso tradizionale (specialmente Benedetto XVI), Francesco invece lo applica, perlomeno nei suoi punti più innovativi, in modo integrale e devastante. E questo, in un certo senso, lo riconosce anche Gnocchi, almeno implicitamente, quando, minimizzando la speranza rappresentata dai cardinali che si sono levati per protestare contro Amoris lætitia, afferma che da loro gli «piacerebbe sapere se, una volta rimessa in forma Amoris laetitia, la Chiesa tornerebbe a essere pura e immacolata, così come vorrei sapere cosa hanno fatto per fermare e combattere insieme al loro gregge lo sfacelo dottrinale e liturgico di cui Amoris laetitia è solo un’appendice e, già che ci siamo, se tutto si può riaccomodare applicando correttamente il Vaticano II e la riforma liturgica». Non condividiamo, certo, il giudizio disfattista sull’azione di questi coraggiosi prìncipi della Chiesa che stanno levando la loro voce contro lo sfacelo della dottrina sull’indissolubilità del matrimonio. Ci sembra, al contrario, che ciò che stanno facendo abbia una straordinaria portata storica: è la prima volta nel postconcilio, dopo l’«intervento Ottaviani» del 1969, che dei cardinali si levano pubblicamente per protestare contro un errore favorito dal Papa. E in questo senso è un evento storico, che merita il nostro plauso e il nostro incoraggiamento[11].
Ma su una cosa siamo d’accordo con Gnocchi: la loro analisi teologica ha anche un limite, che consiste appunto nel non vedere se non questo errore, mentre gli errori, più profondi, che ne sono alla radice e che rimontano al Concilio Vaticano II (e dei quali Amoris lætitia, come osserva giustamente Gnocchi, costituisce solo «un’appendice»), non vengono menzionati. Dire questo, però, significa presupporre che Francesco si inserisca appunto nella linea dell’ultimo Concilio e che la sua rivoluzione, in realtà, non sia la «sua», ma proprio quella del Concilio Vaticano II, portata però alle sue estreme conseguenze. Se, invece, Gnocchi considera la rivoluzione di papa Francesco come un evento del tutto nuovo, che non muta la situazione solo di grado, bensì in modo sostanziale, non è contraddittorio poi deplorare il fatto che questi cardinali denuncino solo gli errori di papa Francesco e non quelli dei suoi predecessori?
Tra le voci che si sono levate contro questa rivoluzione nella Chiesa, inoltre, c’è anche quella di un vescovo, il Vescovo ausiliare di Astana (Kazakistan), mons. Athanasius Schneider, che da mesi non perde occasione per manifestare il suo dissenso – in pubblico come in privato – contro la rivoluzione in atto nella Chiesa, e anzi da diversi anni porta avanti anche un certo discorso critico sul Concilio Vaticano II, cosa che dovrebbe destare tutto il nostro interesse e incoraggiamento. Anche a questo coraggioso successore degli apostoli, però, purtroppo Gnocchi non risparmia attacchi ingenerosi. L’argomentazione di questo «emissario di Roma» è a suo avviso «intellettualmente misera», «potenzialmente distruttiva», nonché «censurabile e truffaldina», e questo solo perché, nell’esprimere il suo auspicio che il riconoscimento canonico della Fraternità vada in porto, mons. Schneider dichiara che secondo lui mons. Lefebvre avrebbe approvato il progetto di regolarizzazione canonica, e perché invita, d’altra parte, a non mancare di senso soprannaturale. Ciò che, a nostro avviso, Gnocchi non ha colto in queste parole, è che mancherebbe di senso soprannaturale non chi non condividesse la posizione di mons. Schneider (non sembra che quest’uomo così umile si sia mai arrogato una presunta infallibilità nelle proprie opinioni), bensì chi assumesse, a questo riguardo, una posizione di tendenza scismatica e settaria. Quale sarebbe questa posizione priva di senso soprannaturale? Per capirlo dobbiamo distinguere tra due giudizi distinti da portare in questa materia.
Il primo giudizio è di ordine speculativo e consiste nell’affermare il principio che deve guidare la nostra condotta in questo ambito, come hanno fatto i tre Vescovi della Fraternità San Pio X nella loro Dichiarazione congiunta del 27 giugno 2013: «Questo amore per la Chiesa spiega la regola che mons. Lefebvre ha sempre osservato: seguire la Provvidenza in tutte le circostanze, senza mai permettersi di anticiparla. Noi intendiamo fare la stessa cosa, sia nel caso in cui Roma ritorni presto alla Tradizione e alla fede di sempre – il che ristabilirà l’ordine nella Chiesa – sia nel caso in cui ci riconosca esplicitamente il diritto di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, con il diritto e il dovere di opporci pubblicamente agli errori e ai fautori di questi errori, chiunque essi siano – il che permetterà un inizio del ristabilimento dell’ordine» (n. 11). Si tratta di una posizione teorica, che non prende in considerazione le circostanze accidentali di questo o quel frangente storico, ma si pone ad un livello superiore, sul piano dei princìpi.
Il secondo giudizio è di ordine pratico e consiste nella risposta alla domanda: ciò che viene proposto dalla Santa Sede in questo preciso frangente storico, sotto il pontificato di tale o talaltro Papa, corrisponde a ciò che mons. Lefebvre ha sempre richiesto, a questo diritto esplicitamente riconosciuto «di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, con il diritto e il dovere di opporci pubblicamente agli errori e ai fautori di questi errori, chiunque essi siano»? Si tratta, in questo caso, non di una posizione teorica, ma un giudizio concreto, relativo alle circostanze contingenti, ma che dà per acquisito il giudizio speculativo di cui sopra e si preoccupa solo di determinare se detto giudizio trova, hic et nunc, realmente applicazione.
Chi ha e chi invece manca di senso soprannaturale? A nostro avviso mons. Schneider non voleva dire nient’altro che chi non condividesse il primo dei due giudizi (quello speculativo), cioè chi dicesse: «Anche se il Papa le concede esplicitamente il diritto di professare integralmente la fede e di rigettare gli errori ad essa contrari, senza modificare in nulla le sue posizioni teoriche e la sua prassi, la Fraternità deve rifiutare questo riconoscimento ufficiale, perché è meglio per lei in ogni caso stare alla larga dalla neochiesa bergogliana», mancherebbe di senso soprannaturale. E ha perfettamente ragione. Da parte nostra, possiamo solo aggiungere che chi ragionasse in questi termini esprimerebbe una posizione non solo priva di senso soprannaturale, ma appunto per questo incompatibile con quella della Fraternità San Pio X, una posizione di tendenza scismatica e settaria che mons. Lefebvre ha sempre fatto di tutto per tenere lontana dal suo entourage.
Il secondo giudizio, invece, quello pratico, non ha carattere apodittico. Si iscrive nell’ordine prudenziale ed ammette per ciò stesso una pluralità di posizioni. In altri termini, alla domanda: «Ciò che l’attuale Papa propone alla Fraternità San Pio X corrisponde realmente a ciò che mons. Lefebvre richiedeva per il suo riconoscimento canonico?», potrebbero rispondere – e di fatto rispondono – in modo diverso anche persone che condividono lo stesso giudizio speculativo. È appunto in questa, entro certi limiti, legittima pluralità che si iscrivono, a nostro avviso, le dichiarazioni di mons. Schneider. Tutto ciò che lui, con molto garbo, dice, è che secondo lui ciò che la Congregazione per la dottrina della fede sta proponendo in questo momento a mons. Fellay corrisponde esattamente agli auspici di mons. Lefebvre. Si può, se si preferisce, non essere d’accordo con lui (la pluralità vale in entrambi i sensi), però lo si dovrebbe argomentare con elementi concreti, ad esempio citando quali punti di questa proposta (ma tutti quelli che ne parlano, tra l’altro, la conoscono anche solo un po’?) non corrisponderebbero alle condizioni poste da mons. Lefebvre, e non certo insultando questo coraggioso Vescovo che, giocandosi con tutta evidenza ogni possibilità di carriera, ha dichiarato a più riprese (tanto in privato alle autorità romane quanto pubblicamente ai media) che la Fraternità è un’opera del tutto cattolica, che la sua soppressione fu ingiusta, che le sue posizioni sono perfettamente cattoliche, che mons. Fellay è un vescovo cattolico esemplare e che, appunto per queste ragioni, alla Fraternità uno statuto canonico ufficiale spetta di diritto[12]? Ecco cosa significa, secondo noi, avere senso soprannaturale.
Caro Alessandro, le tante pubblicazioni della sua carriera di giornalista e apologeta mostrano che lei ce l’ha, eccome, il senso soprannaturale. Perciò le perdoniamo volentieri questi ultimi articoli intempestivi, nei quali, come dicevamo all’inizio, ci ricorda l’apostolo Pietro che, nel suo zelo per la difesa di Nostro Signore Gesù Cristo, si spinse troppo oltre e dovette essere corretto. Ma il paragone le fa onore: sa bene come l’apostolo abbia poi saputo correggere questa intemperanza e continuato la buona battaglia. D’altronde, i tempi amari in cui viviamo, nella società come nella Chiesa, rendono senz’altro umanamente comprensibile un certo inasprimento dei toni ed invitano quindi ad un esercizio copioso della misericordia (quella vera, s’intende: non quella di Amoris lætitia). Ma non escludono neppure la correzione fraterna. Certo, siamo ben consapevoli di non portare sulle spalle un «fardello non nostro: la salvezza della sua fede e delle sua anima». Di queste sarà, in ultima analisi, ciascuno di noi personalmente responsabile di fronte a Cristo giudice. Ma che, in quanto sacerdoti, quanto meno ci sforziamo di dare qualche consiglio sulla condotta da tenere nella crisi che imperversa nella Chiesa, questo senz’altro non le apparirà temerario. E quello che daremmo a lei – se ha piacere di sentirlo – è semplicemente lo stesso che Nostro Signore diede appunto al suo impetuoso discepolo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Gv 18,11).
don Angelo Citati FSSPX
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[1] Cfr. il Comunicato della Casa generalizia della FSSPX a seguito dell’udienza concessa da papa Francesco a mons. Fellay il 1° aprile 2016: «Alla fine dell’incontro è stato deciso che gli scambi in corso proseguiranno. Non si è parlato direttamente dello statuto canonico della Fraternità; papa Francesco e mons. Fellay considerano che bisogna proseguire in questi scambi senza precipitazione». torna su
[2] Fideliter, n. 59, p. 66, citato in mons. B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, Etampes 2002, p. 459. torna su
[7] Omelia a Ecône, 27 giugno 1980, citato in mons. M. Lefebvre, Santità e sacerdozio, Marietti, Genova-Milano 2010, p. 400. torna su
[9] Citato da don M. Simoulin FSSPX, in Le Seignadou, ottobre 2016. torna su
[10] Mons. M. Lefebvre, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Sugarco Edizioni, Milano 2010, pp. 230-232. torna su
[11] Nel 1986, in occasione dello scandalo di Assisi, mons. Lefebvre scrisse a otto cardinali – che avevano certo una visione ancora tradizionale, ma avevano anche accettato le riforme del Concilio – pregandoli di levare la loro voce contro quello che definì uno «scandalo incalcolabile». Non sarebbe oggi, quindi, il primo a rallegrarsi che, stavolta di loro iniziativa, dei cardinali, che pure accettano le riforme conciliari, si levano per protestare contro un nuovo, incalcolabile scandalo? torna su
[12] Cfr. tra le altre la sua intervista del 3 febbraio 2016 al sito Rorate Cœli. torna su
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