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Fedeltà alla Messa di sempre di Mons. Tissier de Mallerais


«Se noi accoglieremo il Novus ordo missæ, non avremo più vocazioni: l’albero si disseccherà come se si fosse piantata l’ascia sulla radice». «La vera Messa, è questo il cuore del seminario, del prete, della Chiesa, del Vangelo, di Nostro Signore». Mons. Marcel Lefebvre 
Rifiuto del Novus Ordo
 Monsignor Lefebvre non aveva fondato la sua opera contro la nuova messa, ma per il sacerdozio; è il sacerdozio che gli chiede di rifiutare il Novus ordo missæ. Il 9 giugno 1971 il prelato è di ritorno da Parigi, dove ha tenuto una conferenza organizzata dai suoi amici del ROC (Raduno dell’Occidente Cristiano), i cui responsabili sono il generale Lecomte1 e l’ammiraglio de Penfenteyo. A Écône riunisce insegnanti e seminaristi, e comincia col distribuire (cosa che farà molto raramente) un foglio dattiloscritto che riassume la sua conferenza, un testo redatto già il 25 novembre 1970. Fino a quel momento, egli aveva mantenuto l’“antica Messa” perché era ancora permessa, ma questa volta rifiutava il Novus ordo. «Momento capitale, storico per la Chiesa – dice don Aulagnier – Monsignore compiva una scelta, ci comunicava una certezza: questa scelta era quella buona, era irrevocabile, era dottrinale», fondata non su una preferenza personale, ma sui dogmi della Messa definiti al concilio di Trento: «Tre verità di fede cattolica definita – de fide divina catholica, insisteva – sono essenziali alla realtà del sacrificio della Messa: il prete, distinto dai fedeli per il suo carattere sacerdotale che lo costituisce solo ministro dell’Eucaristia alla consacrazione; la natura sacrificale della Messa e il suo ruolo propiziatorio – la comunione non essendo che una conseguenza nella manducazione della vittima; e infine la presenza reale e sostanziale di questa vittima, la stessa del Calvario, grazie alla transustanziazione». Ora, la riforma religiosa «direttamente o indirettamente, lede queste queste tre verità essenziali», diluendole in un’azione comunitaria. La croce si smorza dal cielo della Messa, e con essa lo spirito di sacrificio; le vocazioni si esauriscono. S’impone una conclusione pratica definitiva: «Se noi accoglieremo il Novus ordo missæ, non avremo più vocazioni: l’albero si disseccherà come se si fosse piantata l’ascia sulla radice»2 . L’Arcivescovo sostiene perfettamente sul diritto canonico questo rifiuto dottrinale e pastorale della nuova messa: «La concezione di questa riforma, la maniera in cui è stata pubblicata con edizioni successive indebitamente modificate, il modo in cui è stata resa obbligatoria, talora tirannicamente come nel caso dell’Italia, la modifica della definizione della Messa nell’art. 7 senza alcuna conseguenza per il rito stesso3 , sono altrettanti fatti senza precedenti nella tradizione della Chiesa romana che ha agito sempre cum consilio et sapientia: essi ci consentono di mettere in dubbio la validità di questa legislazione e, dunque, di conformarci al canone 23: “Nel dubbio, non si ammette la revocazione di una legge, ma la legge recente deve essere ricondotta alla precedente e si deve, per quel che si può, conciliarle”»4 . In stretta connessione con i pensatori che si esprimono nelle riviste amiche “Itinéraires” e “Le Courrier de Rome”, pensatori dei quali egli trova certi studi «straordinari, convincenti, da porre fra le mani di tutti i Vescovi e di tutti i preti»5 , Monsignor Lefebvre sottolinea la differenza esistente tra l’opera di Paolo VI e quella di san Pio V. Esse sono diametralmente opposte: il santo Papa mantiene il messale romano tale quale l’ha codificato san Gregorio Magno, Papa dal 590 al 604, che certamente non ha creato egli stesso questa messa, ma deve averla ricevuta dalla tradizione; san Pio V conferma dunque una tradizione antica di dieci secoli almeno. Paolo VI, al contrario, crea artificiosamente un rito nuovo6 . D’altra parte, l’atto di san Pio V ha valore di canonizzazione: constatando l’antichità, la pratica continua, l’efficacia, la garanzia dottrinale, la santità e i frutti di questo rito, il santo Papa l’ha canonizzato come quando si afferma a proposito di una persona che le sue virtù sono eroiche. Il suo atto è dunque definitivo e infallibile:questa messa sarà sempre utile ed edificherà la Chiesa, e mai nessuno potrà interdirla. Giacché interdire e distruggere ciò che un Papa ha canonizzato è assolutamente impossibile! Un successore di san Pio V potrà sì creare un nuovo rito che potrà incoraggiare nella pratica, ma non potrà escludere il rito tradizionale7 . In altre parole, l’atto del santo Papa non è una misura puramente disciplinare, sempre revocabile, è un atto di natura dottrinale che vincola tutti i suoi successori. Ortodossia e validità della nuova Messa? Monsignor Lefebvre non esita a discutere pubblicamente della questione dell’ortodossia e della validità della messa di Paolo VI. Egli è del parere che «non si può affermare in linea di massima che la nuova messa sia priva di validità ed eretica»; tuttavia «essa conduce lentamente all’eresia». Afferma di non condividere a tal proposito «il punto di vita radicale di padre Guérard des Lauriers e di don Coache», ma ammette che «il numero delle messe prive di validità aumenta» per il fatto che i giovani preti, formati secondo la nuova concezione della messa considerata come “memoriale”, hanno una intenzione sempre più spesso determinata da questo concetto, che è completamente differente da quello che è stato definito a Trento; e questo senza nemmeno che essi siano coscienti dell’opposizione, dal momento che sono «sotto l’influenza di una concezione relativista ed evoluzionista» del dogma8 . Nel 1975 l’Arcivescovo precisa ancora: «La nuova messa è ambivalente, equivoca, perché un prete può dirla con la fede cattolica integrale nel sacrificio, e un altro può dirla con un’altra intenzione, giacché le parole ch’egli pronuncia e i gesti che compie non lo contradicono più»9 . Il problema dell’assistenza alla nuova Messa Ai preti che s’interrogano, stretti fra il bisogno di serbare l’espressione della fede tramite la Messa della Tradizione e il desiderio di ciò che essi pensano sia l’obbedienza, Monsignor Lefebvre consiglia, agli esordi della riforma, di mantenere quanto meno, e in latino, l’offertorio e il Canone tradizionali. I suoi consigli, sia ai seminaristi sia ai fedeli, sono improntati ad una stupefacente moderazione, da parte di colui che per primo è salito sulle barricate per rifiutare la nuova messa. «Compite ogni sforzo – esorta – per avere la Messa di san Pio V, ma nell’impossibilità di rintracciarne una nell’arco di 40 chilometri, se si trova un pio prete che dice la nuova messa rendendola quanto è possibile tradizionale, è bene che vi assistiate, per adempiere al precetto domenicale». Si può far fronte al pericolo per la fede grazie ad un buon catechismo: «Bisognerebbe vuotare tutte le chiese del mondo? Non mi sento il coraggio di dire una cosa simile. Non voglio indurre all’ateismo» .Così l’Arcivescovo prende le distanze da don Coache e don Barbara che, all’epoca delle “marce su Roma”, ch’essi hanno organizzato11 per la Pentecoste degli anni 1971 e 1973, hanno fatto prestare ai pellegrini e ai bambini un «giuramento di fedeltà alla Messa di san Pio V». Tuttavia nel 1973 precisa: «Rimane inteso che il nostro atteggiamento diverrà sempre più radicale man mano che il tempo passa, dal momento che la non validità si diffonde con l’eresia»12 . È ugualmente attento all’evolversi della posizione di Padre Thomas Calmel OP, che all’inizio dà come lui prova di una grande prudenza pastorale13, poi diventa categorico e viene a scuotere il seminario di Écône, dove predica il ritiro pasquale del 1974: «Non trascinate san Pio X alle Messe della nuova religione! La nostra posizione è sostenibile solo se abbiamo un’anima da martiri. […] Non è strano, ma è l’amore di Dio che ci chiede questo: una testimonianza così dura, così logorante, con tutti i falsi problemi di autorità, di obbedienza. È l’amore di Dio che ha fatto i martiri, i testimoni della fede. La nostra testimonianza, la nostra autentica battaglia è mantenere il rito fedele. Essere confessori della fede nella nostra epoca è un grande onore che Dio ci ha fatto. Qualunque siano i nostri sentimenti di relegazione, di abbandono, teniamo duro!»14 . L’Arcivescovo rivede pian piano nel senso della fermezza la sua posizione: questa Messa col rito ecumenico è gravemente equivoca, ferisce la fede cattolica, «per questo non obbliga all’adempimento del dovere domenicale»15 . Nel 1975 ammetterà ancora una “assistenza occasionale” alla nuova messa, quando si teme di restare per lungo tempo senza ricevere la comunione. Ma nel 1977 è categorico: «Conformandoci all’evoluzione che si produce poco a poco negli spiriti dei preti […] noi dobbiamo evitare, direi quasi in modo radicale, ogni assistenza alla nuova messa»16 . Una liturgia avvelenata Ben presto, Monsignor Lefebvre non tollera più che si partecipi alla messa celebrata secondo il nuovo rito se non in modo passivo, in occasione per esempio di funerali. Non vuole dichiarare intrinsecamente cattiva la nuova messa nel senso in cui una cosa viene detta intrinsecamente perversa; ma reputa che sia cattiva in se stessa e non solo per le circostanze che circondano il rito, come la tavola che sostituisce l’altare o la comunione nella mano17 . Ma come è possibile che un Papa abbia potuto promulgarla? Giacché in teoria questa messa, che costituisce verosimilmente una legge universale della Chiesa, è garantita da qualsiasi errore e da qualsiasi pericolo p er la fede dall’infallibilità del magistero del Papa,econdo l’opinione comune dei teo lo gi. L’Arciv escovo risponde all’obiezion e n el 1981: «Tanto i criteri esterni (le circostanze della sua istituzione) quanto i criteri interni (l’analisi del rito) quanto i frutti della nuova messa mostrano che essa, senza essere eretica, concorre alla perdita della fede e che essa non potrebbe essere una vera legge, come dice don Giuseppe Pace: “Balza agli occhi che la nuova legislazione non è ad bonum commune come viene richiesto ad una legge: essa non procura il bene comune”. No, non è in modo puramente accidentale ed estrinseco che questa messa è cattiva. C’è in essa qualcosa che è veramente cattivo. Essa è stata fatta sul modello della messa di Cranmer18 e di quella di Taizé (1959). Come del resto ho detto a Roma ai miei esaminatori: è una messa avvelenata!»19 . «Chi ha presieduto a ciò? Chi ha voluto mutare la nostra spiritualità? Ci hanno avvelenato la nostra liturgia. Alcuni dicono: “Sì, ma è un veleno lento!”. Sì, è un veleno lento, ma è pur sempre un veleno»20 . Crisi della Chiesa e crisi del sacerdozio Con le sue conferenze tenute dappertutto, Monsignor Lefebvre diventa l’araldo della battaglia per la fede: «Se io accetto di tenere delle conferenze – dice a Tourcoing21 alla presenza del sindaco della città – è per d i f e n d e r e , proteggere e ravvivare la nostra fede, in un momento in cui essa è attaccata da ogni parte […] d a l l’in t ern o stesso della Chiesa». Cita pubblicazioni di ambienti ufficiali o ufficiosi dell’episcopato francese. Nelle schede catechetiche del Centro Jean Bart viene proposta, accanto alla nozione tradizionale della salvezza («Noi abbiamo perduto la grazia, ma il Cristo ci ha redenti»), la nuova concezione di “salvezza-alleanza”: «L’avvenire dell’umanità è l’Alleanza di Dio sigillata in Gesù il giorno di Pasqua»22. Lo stesso Centro Jean Bart di catechesi liturgica spiega così la messa: «Nel cuore della messa c’è un racconto […] Il memoriale non è il rinnovarsi di questo avvenimento […] vuol dire che noi riconosciamo l’azione di Dio nei grandi avvenimenti della storia della salvezza»23 . Quanto alla Scuola teologica serale di Strasburgo, essa rifiuta «una certa maniera di celebrare il memoriale del Signore che era legata ad un universo religioso che non è più il nostro, con tutto un rivestimento “sacrale” attinto dal Levitico e dal culto sacrificale delle religioni di quell’area». In realtà, «si tratta di un’azione simbolica […]. Non si tratta di una presenza miracolosa […]. Bisogna partire dal Cristo glorioso e vedere nella presenza eucaristica uno del luoghi privilegiati della presenza pasquale di Gesù Cristo. Questa presenza merita, nel senso stretto del termine, l’appellativo di spirituale» .Non ne troverei la forza, pur con la migliore buona volontà. La vera Messa, è questo il cuore del seminario, del prete, della Chiesa, del Vangelo, di Nostro Signore. San Pio V l’ha visto bene: la Messa è anche una barriera della fede contro le eresie».  

(Tratto da Mons. Marcel Lefebvre – Una vita, di Mons. Bernard Tissier de Mallerais, Tabula Fati 2005, pp. 525 ss.)

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