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La professione di Fede e il sospetto di eresia





Corde creditur ad iusititiam, ore autem confessio fit ad salutem (2Tess. 1, 11)

di don Mauro Tranquillo

La fede, virtù senza la quale non si può piacere a Dio, non può limitarsi a essere una convizione interiore. Deve essere espressa esternamente, specialmente per essere diffusa. L’adesione alle verità non può essere separata dal rifiuto degli errori, rifiuto che non può permettersi di essere ambiguo o tacito, specialmente quando l’errore è clamoroso. L a virtù teologale di fede ha come atto primordiale l’adesione dell’intelligenza a Dio che si rivela. Un atto quindi assolutamente interiore, invisibile. Tuttavia questo atto interiore non è l’unico atto della virtù di fede: l’adesione a Dio che si rivela deve essere necessariamente espressa all’esterno con degli atti sensibili, parole e gesti. Questo si chiama professione (o confessione) della fede, e san Tommaso ne parla nella terza questione della Secunda Secundae della sua Somma. Tale atto di fede esternamente manifestata è quindi necessario alla salvezza secondo due modalità. La prima è quella affermativa, che obbliga a esprimere la nostra fede in determinate circostanze, che poi esamineremo; la seconda, non meno importante, è negativa: ci è proibito semper et pro semper compiere qualsiasi atto che direttamente o indirettamente appaia come una negazione delle verità di fede, anche nel caso in cui mantenessimo nel nostro cuore l’adesione a queste verità. Procederemo secondo queste due linee all’esame della questione.

Il precetto affermativo della professione di fede

La manifestazione esterna della fede non può essere, come è chiaro, un atto compiuto continuativamente (ovviamente parliamo di diretta confessione di fede, non degli atti delle altre virtù, che indirettamente rendono testimonianza che siamo coerenti con ciò che crediamo). Quando sarà dunque necessario e obbligatorio esprimere a parole o gesti la nostra fede? In generale, per diritto divino, occorre manifestare la fede quando l’onore di Dio o l’utilità del prossimo lo richiedono. San Tommaso presenta i tipici casi di colui che tacendo la fede in una determinata circostanza lascerebbe credere di non averla (dando così scandalo ai presenti e “vergognandosi” di Dio), specialmente se espressamente interrogato a riguardo dalle autorità; o di colui che deve istruire e confermare il prossimo. Atti di fede esterni sono richiesti al to di ricevere i sacramenti (si recita ad esempio il Credo in occasione del battesimo, della Cresima, dell’Ordine; ma come vedremo poi, sono i sacramenti stessi a significare la fede). Professioni di fede esplicite su punti specifici possono essere richieste in determinati luoghi e circostanze, specie quando un’eresia imperversa in una regione o in un tempo: non è lecito il silenzio di fronte a un errore che domina tutta una società cui siamo supposti aderire. È d’altra parte interessante notare come san Tommaso nella quaestio citata (art. II ad 3um) ricordi che in alcuni casi può essere doveroso non fare un atto di fede esterno: cioè quando non solo non ce n’è la necessità, ma anzi sarebbe dannoso mettersi ad affermare la fede in determinate circostanze, per esempio quando si prevede solo «turbamento degli infedeli senza alcuna utilità della fede o dei fedeli». La Chiesa ha poi il potere di imporre per legge la professione di fede esterna in determinate circostanze: al momento della conversione dell’infedele o dell’eretico, ad esempio, non basta un atto interno di fede per essere ammessi nella Chiesa, ma occorre un atto esterno e pubblico, essendo la Chiesa una società pubblica per sua natura. Inoltre la Chiesa impone una professione di fede a tutti coloro che sono chiamati ad avere un ruolo di insegnamento o di responsabilità. Dalla più alta antichità esistevano, per esempio, gli “scrutini” per i candidati alla consacrazione episcopale, che venivano interrogati sulla loro adesione ai dogmi dal Metropolita (il rito è ancora contenuto nel Pontificale Romano). Nel 1564, durante il Concilio di Trento, il Papa Pio IV impose a tutti coloro che avrebbero ricevuto gli ordini maggiori, come a tutti coloro che ottenessero un incarico ecclesiastico o di insegnamento, l’obbligo di giurare una precisa professione di fede, che comprendeva il Credo e l’elenco di una serie di verità esplicitamente menzionate, onde evitare l’infiltrarsi di protestanti in seno a posti di responsabilità nella Chiesa, come stava avvenendo in Germania. Ovviamente tale formula conteneva anche l’espressione più generale di adesione a qualunque insegnamento della Chiesa Romana, e di condanna di qualunque dottrina la Chiesa condannasse, essendo impossibile enumerare una per una tutte le verità rivelate. Per evitare che i modernisti snaturassero tale giuramento con la loro concezione dei dogmi (cui possono anche affermare di aderire, ma non certo nel senso che credono che il contenuto dei medesimi corrisponda a realtà esterne alla coscienza), il Papa san Pio X aggiunse al testo di Pio IV il famoso giuramento antimodernista (1910), che riprovava esplicitamente tali interpretazioni. Entrambi questi testi sono stati messi da parte dalla setta modernista oggi imperante (decreto di Paolo VI, 1966), che chiede l’adesione a una nuova formula, meno precisa e senza allusioni al modernismo, elaborata dal Card. Ratzinger ed imposta da Giovanni Paolo II nel 1989 (a modifica di un testo ancora più striminzito che era stato introdotto nel 1967). La clausola finale di questo nuovo testo è particolarmente contraria alla dottrina cattolica: «Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico». Questo semplice “o” contiene tutta la dottrina conciliare del doppio soggetto del potere supremo, condannata dalla Chiesa.

Professione della fede nei Sacramenti

È un errore particolarmente dannoso il limitarsi a vedere i Sacramenti (e la Messa) come mere “macchine della grazia”, pensando che, purché sia compiuto validamente il rito, tutto il resto sia secondario. San Tommaso ci insegna che «omnia sacramenta sunt quaedam fidei protestationes» (1), tutti i sacramenti sono delle professioni di fede, e producono la grazia proprio in quanto la significano: questa significazione è essa stessa una manifestazione di quanto crediamo (l’errore protestante consisterebbe invece a escludere l’aspetto dell’efficacia per farne solo delle manifestazioni di fede). Se il carattere del Battesimo è dato per rendere il soggetto capace di ricevere i beni del culto cristiano (pubblico per sua natura), cioè in particolare gli altri sacramenti in quanto tali (è un carattere anzitutto passivo), quello della Cresima ci rende attivi negli atti del culto in quanto professioni di fede pubbliche (l’Ordine poi rende attivi negli atti di culto in quanto tali). Partecipare al culto della Chiesa, specie nei Sacramenti, non è solo ricevere la grazia, ma anche allo stesso tempo fare un’eminente professione pubblica di fede, compiere l’atto proprio e specifico del carattere della Cresima. I due aspetti non possono essere separati. La stessa professione di fede nella vita pubblica, compresa quella dei martiri, è fatta sotto la mozione della grazia della Cresima solo in quanto è, in senso largo, un atto di culto a Dio. Essendo dunque il culto della Chiesa, massimamente nella celebrazione dei Sacramenti, la professione di fede per eccellenza, è chiaro che nella celebrazione di questo culto ogni ambiguità sul contenuto della fede (e a maggior ragione ogni errore esplicito) assume un carattere di estrema gravità. Occorre quindi che il culto e la ricezione stessa dei Sacramenti si svolgano non solo in modo “meccanicamente” valido, ma anche in un contesto in cui risplenda nettissima la professione della fede cattolica. La partecipazione attiva a un rito è infatti adesione a quello che il rito esprime nella sua totalità, quindi anche alla dottrina che è esplicitamente professata in quella circostanza, oltre a quella oggettivamente espressa da gesti e parole. Si può ben capire fin d’ora quanto questo differisca da ogni forma di donatismo, l'eresia che negava l'efficacia dei sacramenti alla personale fede o dignità del celebrante. Si tratta al contrario della fede oggettivamente espressa dal rito celebrato nelle circostanze date, non di questioni personali. Sarebbe assolutamente pensabile che un sacerdote indegno o perfino eretico (ammettendo che la Chiesa lo riconosca ancora come suo ministro) celebrasse una Messa o un sacramento nei quali si professa integra la fede cattolica, dal momento in cui la sua eresia non si manifesta in nessun modo in quella circostanza: il fedele aderirebbe infatti al rito della Chiesa, non alle personali convinzioni del celebrante (2). D’altro canto, la Chiesa insegna che sebbene di per sé si debba genuflettere davanti all’Ostia consacrata da ministri non cattolici, si deve tuttavia evitare di dare l’impressione di mischiarsi agli acattolici e di condividerne le dottrine compiendo questi atti, dei quali bisogna quindi evitare le occasioni (3) (e questo vale pure per la visita a templi acattolici e l’onore che si potrebbe rendere a eventuali immagini sacre in essi contenute) (4): segno di quanto la Chiesa sia lontana dall’accontentarsi di una semplice dinamica sacramentale valida, ma sappia bene che la partecipazione a un culto indica l’adesione alla fede che quel culto nella sua integrità significa.

Il precetto negativo e il sospetto di eresia

Il precetto negativo riguardo la professione di fede obbliga semper et pro semper: ciò significa che non è mai lecito compiere un atto che comporti o lasci intendere la negazione della fede, o la occulti ingiustamente, o lasci intendere l’adesione a dottrine non cattoliche. Non sarebbe per esempio lecito bruciare l’incenso agli idoli, ma nemmeno farlo esternamente con l’animo di onorare però il vero Dio. Si capisce che il campo è molto vasto. Non tratteremo però qui l’esplicita adesione all’errore, o l’apostasia, che sono casi evidenti di negazione della fede, quanto una serie di situazioni intermediarie. Alcuni di questi casi di ambiguità rientrano in una categoria giuridica precisa, che viene chiamata dal diritto canonico sospetto di eresia: per esempio il fare patto tra gli sposi di far battezzare o educare i figli fuori dalla religione cattolica, o compiere di fatto tali azioni (can. 2319); il sacrilegio sulle specie consacrate (can. 2320); l’appello al Concilio contro una sentenza del Papa (can. 2332); l’ostinazione nella scomunica per più di un anno (can. 2340); la simonia nell’amministrazione dei sacramenti (can. 2371); l’aiuto alla propaganda degli eretici con parole di lode o aiuti materiali (ovviamente senza aderire formalmente all’eresia, il che sarebbe semplicemente apostasia), la comunicazione in sacris con loro (per esempio se un cattolico partecipasse attivamente a una funzione luterana) (can. 2316) (5); prima del codice del 1917 la stessa sodomia, l’esercizio della magia, la violazione del sigillo della confessione e il possesso di libri proibiti. Tutti questi atti infatti, benché non corrispondano a dirette negazioni della fede, lasciano intendere che chi li compie si dissoci dal credo della Chiesa, non essendoci altre spiegazioni plausibili a tali comportamenti (alcuni peccati si commettono infatti per fragilità, ma altri si spiegano difficilmente senza una particolare malizia dell’intelletto). Il sospetto di eresia comporta, dopo le debite monizioni, l’interdizione dagli atti legittimi, la sospensione per i chierici, e dopo sei mesi di impenitenza l’assimilazione de jure agli eretici (can. 2315). Secondo le Decretali il sospetto d’eresia può essere di tre tipi: lieve, se gli indizi sono di poca importanza; violento, se si fonda su certi argomenti; veemente se si fonda su argomenti probabili. Il diritto naturale impone al sospetto di eresia di riparare e di professare apertamente la sua fede cattolica, con un atto proporzionato alla gravità del sospetto suscitato, ovvero più o meno pubblico. Gli antichi canoni prevedevano vari modi e circostanze in cui pronunciare tale ritrattazione, detta “purgazione”. Tali atti hanno, prima ancora che una valenza canonica, una indubbia connotazione morale, per cui anche se la Chiesa non li punisse più nel suo diritto, resterebbero peccati mortali contro la virtù di fede, e anche contro la carità se vi si aggiungesse lo scandalo.

Qualche applicazione alla situazione presente

Alla luce di tutto quanto esposto finora, vediamo alcuni casi concreti che si riferiscono alla situazione attuale. Sappiamo che a partire dal Concilio Vaticano II si richiede ai cattolici un’adesione a dottrine contrarie al Magistero della Chiesa. Ne abbiamo parlato tante volte: quella sul diritto naturale a non essere impediti nel culto di qualsiasi religione, quella sul doppio soggetto del potere supremo, quella sul rapporto con le false religioni, etc. Quando un’adesione a queste dottrine è richiesta in modo esplicito (come è accaduto recentemente alla Fraternità San Pio X), il più chiaro diniego è necessario. Ma allo stesso modo non sarebbe lecito aderirvi anche solo esternamente, pur mantenendo la fede all’interno di se stessi, né tacere davanti a una situazione in cui l’utilità del prossimo è così gravemente in gioco, e in cui il silenzio può apparire come approvazione. Specialmente chi è inserito nel sistema ecclesiastico ordinario, per mantenere la professione di fede cattolica, deve prendere pubblicamente le distanze da questi errori, che i superiori professano e cui si suppone egli aderisca. Questo deve avvenire a qualsiasi prezzo, e qualora se ne colga la gravità, si è tenuti in coscienza a farlo. La vicenda di Mons. Lefebvre si spiega essa stessa in questo modo: il tacere gli errori professati dal Concilio, che egli chiaramente percepiva come tali, sarebbe parso l’approvarli insieme al resto dell’episcopato mondiale. Denunciarli pubblicamente diventava allora strettamente necessario, a qualsiasi prezzo, come dovere primordiale. Se oggi tale professione di fede contro gli errori viene punita dalle autorità, si capisce che lo stato di grave necessità generale non è una favola. Alleghiamo qui la dichiarazione di Mons. De Castro Mayer il giorno delle consacrazioni episcopali, dove l’altro grande Vescovo spiega la sua presenza a Ecône quel giorno proprio come una necessaria professione di fede. Ugualmente, da quanto abbiamo enunciato appare chiaro che, dal momento in cui percepiamo quanto la nuova messa si distacchi dalla professione di fede cattolica su sacrificio, sacerdozio e presenza reale (cf. Breve esame critico), non possiamo mai prendervi parte, nemmeno sotto il pretesto di partecipare ai sacramenti. Infatti non possiamo contraddire, con la partecipazione a un rito non cattolico, la fede che il sacramento valido in se stesso significa: sarebbe commettere un peccato che ostacolerebbe gli stessi frutti del sacramento, anche ricevuto validamente. Potremmo noi assistere passivamente, e magari avvicinarci solo alla comunione? Evidentemente no, perché partecipare alla comunione durante quel rito sarebbe la massima adesione possibile al contenuto di quel rito. Perfino in punto di morte non si devono accettare i sacramenti in un rito o da ministri non cattolici, qualora questo diventi o anche solo possa sembrare un’adesione ai loro errori. Quanto alle Messe tradizionali celebrate da sacerdoti che fanno professione di accettare gli errori del Concilio, o a quelle celebrate in virtù del motu proprio, lungi da ogni donatismo, dovremo fare attenzione non alla fede personale del celebrante, ma a quella di cui si fa professione esplicita in quella particolare celebrazione. Se si intende esplicitamente celebrare in virtù del motu proprio, che assimila l’antico rito al nuovo (e che nell’istruzione applicativa richiede, come il vecchio indulto, l’adesione al Concilio) (6), è ovvio che si sta partecipando alla professione di una falsità, e ci si deve astenere da questo (il significato della vecchia Messa vien infatti parificato a quello della nuova). Seppure infatti il rito di san Pio V, preso materialmente, significhi sempre la fede cattolica, vi vengono uniti ingiustamente dei significati ai quali il cattolico non può aderire, dal momento che ne abbia chiara coscienza. Questo, lo ripetiamo, vale nella misura in cui vi sia professione di questo all’esterno. Se fosse una pura convinzione personale del celebrante o di parte dei fedeli presenti, il discorso potrebbe essere diverso. Teniamo però conto che molte Messe introdotte dai Vescovi diocesani dopo il motu proprio sono celebrate esplicitamente a queste condizioni. Rimane quindi necessaria grande vigilanza e attenzione, essendo la chiara professione di fede un dovere così necessario alla salvezza, come insegna il Santo Vangelo: Qui me confessus fuerit coram homini bus, confitebor et ego eum coram Patre meo, qui in caelis est. Qui autem negaverit me coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in caelis est (Mt 10, 32-33).

1. Summa Theologiae, III q.72 art. 6 ad 3um. 2. Cf. ibidem, q. 82 art. 9. 3. Responsa Pii VI 18 maii 1793 ad 11 (cit. in Noldin, Summa theologiae moralis vol. II, Innsbruck 1917). 4. S. C. de Propaganda Fide, 15 dec. 1764. 5. Tutti i canoni citati qui e in seguito si riferiscono al Codice di Diritto di Canonico in vigore cioè quello promulgato nel 1917. 6. Istruzione Universae Ecclesiae, nn. 6-7 e 19.

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