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Il Giubileo dei santi



Così fu chiamato l’Anno Santo del 1450 che vide il pellegrinaggio a Roma di personaggi come Rita da Cascia e Giovanni da Capestrano, ma che fu funestato da incidenti e pestilenze


di Serena Ravaglioli


L’avvenimento di spicco dell’Anno Santo 1450 fu, il 24 maggio, domenica di Pentecoste, la canonizzazione di san Bernardino da Siena, il riformatore francescano morto soltanto sei anni prima a L’Aquila. Alla solenne cerimonia, insieme a moltissimi altri fedeli, parteciparono anche più di tremila frati, venuti a Roma da ogni parte d’Europa, oltre che per la canonizzazione, anche per il capitolo generale dell’Ordine e l’elezione del nuovo vicario generale. I cronisti raccontano che quel giorno la processione dei frati fu così lunga che quando «i primi erano già entrati in San Pietro, gli ultimi non finivano di uscire dal convento sul Campidoglio», e dentro la Basilica la folla era così immensa che «nessuno poteva muoversi isolatamente, ma come l’onda del mare si dovevano muovere tutti insieme verso una sola direzione». Il panegirico in onore di san Bernardino fu pronunciato dal Papa stesso, Niccolò V. Non è coincidenza da poco che ben quattro tra i frati presenti sarebbero a loro volta saliti alla gloria degli altari: Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca, Pietro Regalado e Diego di Alcalà.
Del resto non a caso l’Anno Santo 1450 è stato chiamato “Giubileo dei santi”. Infatti i quattro francescani non furono i soli pellegrini venuti a Roma in quell’anno destinati a essere proclamati santi. Secondo una tradizione, è da collegare a questo Giubileo il pellegrinaggio a Roma di santa Rita da Cascia. La biografia narra che in occasione della visita romana, per poter circolare tra gli altri romei senza suscitare il loro ribrezzo, santa Rita chiese al Signore la grazia di farle chiudere temporaneamente la piaga che aveva sulla fronte, segno della sua totale partecipazione alla passione del Redentore; questa infatti normalmente, essendo purulenta e fetida, la costringeva alla segregazione. Le date della vita della santa, tuttavia, sono tutt’altro che definitivamente chiarite (alcuni ne pongono la morte nel 1457, altri nel 1447) e quindi dare per sicura la sua presenza a Roma nel 1450 può essere un azzardo.
Invece furono certamente a Roma in quell’anno, santa Caterina Vegri da Bologna e sant’Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze, che guidò il pellegrinaggio della sua diocesi. Fu proprio sant’Antonino, nella sua Chronica, a dare al 1450 l’appellativo di «Anno d’oro».
In realtà non è chiarissimo se con questa definizione l’arcivescovo facesse riferimento all’affluenza dei pellegrini, che fu davvero eccezionale (un cronista senese, Giannozzo Manetti, per dare un’idea del brulichio nelle strade dei romei che andavano in fretta da una chiesa all’altra ricorse al pittoresco paragone con uno sciame di formiche incolonnate), o al fervore delle pratiche religiose o invece, con una punta di polemica, all’intensa attività economica che si accompagnò agli aspetti religiosi di quel Giubileo.
Certo è che gli incassi di quell’anno furono molto elevati non solo per tutti i romani più o meno direttamente coinvolti nell’accoglienza dei pellegrini, ma anche per il Papa, che aveva affidato a Cosimo de’ Medici l’appalto del servizio di tesoreria. I guadagni furono in larga parte investiti per proseguire l’intensa attività architettonica e artistica di cui Niccolò V si era fatto promotore, convinto della necessità di fare di Roma la splendida espressione visiva della fede, e per acquistare libri e codici, che andarono a costituire il primo nucleo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Fra gli artisti impegnati a Roma troviamo un altro frate cui la tradizione attribuisce fama di santità, fra Giovanni da Fiesole, più noto con l’appellativo di Beato Angelico. In occasione del Giubileo dipinse la Cappella del Sacramento a San Pietro e la cappella privata situata nella torre di Niccolò III nei Palazzi Vaticani.
Nel clima di rinnovato interesse letterario e artistico per l’antichità che contraddistingueva l’Umanesimo, non fa sorpresa che molti dei pellegrini più colti approfittassero dell’occasione giubilare per conoscere da vicino ciò che restava di Roma antica, con una armoniosa integrazione di fervore religioso e interessi culturali. È quanto emerge per esempio dalla relazione di viaggio contenuta nello Zibaldone del mercante fiorentino Giovanni Rucellai, che così descrive il soggiorno trascorso nell’Urbe insieme al cognato, al genero e alle donne della famiglia nel febbraio 1450: «E nel tempo che noi stemmo a Roma osservavamo questa regola, che la mattina montavamo a cavallo andando a visitare le quattro chiese e di poi, dopo mangiato, rimontavamo a cavallo cercando e vedendo tutte quelle muraglie antiche e cose degne di Roma, e la sera tornati a casa ne facevo ricordo...». Nello Zibaldone sono riferiti fatti veri, leggende e miracoli alla maniera dei vecchi libri devoti a uso e consumo dei pellegrini. Fra le notizie più fantasiose, ve ne è una relativa a «due donne murate in due pilastri solo con una buca dove si porge loro da mangiare» nella Basilica di San Pietro.
Rucellai appare anche ben informato sulle opportunità gastronomiche della città: «Erano in Roma in questo anno del Giubileo osterie milleventidue che tengono insegna fuori. E senza insegna, anche un gran numero in più». Anche un altro cronista del tempo, Paolo del Mastro, parla delle osterie e delle taverne, indicandole fra le attività più redditizie per i romani, «massime chi le fece per le strade di fuori». Evidentemente tutto ciò non bastava se altre fonti riferiscono dei gravi problemi di approvvigionamento alimentare che angustiarono la città per tutto quell’anno, tanto da indurre il Papa ad abbreviare da quindici a cinque giorni la lunghezza della visita dei pellegrini ai luoghi sacri, necessaria a ottenere «tutta la perdonanza».
Ma il problema dell’approvvigionamento non fu il solo aspetto negativo dell’Anno Santo 1450. Ve ne furono altri, anche più gravi. Alla fine di maggio un’ennesima epidemia di peste investì la città mietendo come sempre vittime a migliaia. Anche il convento francescano dell’Ara Coeli fu colpito: nell’assistenza ai frati malati si prodigò il futuro santo Diego di Alcalà, che, come abbiamo visto, era venuto a Roma dalla Spagna insieme al confratello Alfonso de Castro per la canonizzazione di san Bernardino. La peste interruppe per alcuni mesi l’afflusso dei pellegrini e lo stesso Papa, durante l’estate, quando l’epidemia raggiunse il culmine, preferì allontanarsi dalla città, riparando a Fabriano.
In autunno, passato il contagio, le attività giubilari ripresero in pieno il loro svolgimento, ma il 19 dicembre accadde un nuovo grave incidente. Al tramonto, quando la gente faceva ritorno dalla benedizione pontificia gremendo le strade provenienti da San Pietro e soprattutto quel passaggio obbligato che era rappresentato dal ponte Sant’Angelo, una mula e un cavallo s’imbizzarrirono in mezzo al ponte, colpendo con gli zoccoli le persone intorno. Queste si fermarono, la folla che sopraggiungeva continuò ad avanzare spingendo: si venne a creare così un tale scompiglio che nella calca morirono soffocate o calpestate centosettantadue persone; molte altre cercarono scampo buttandosi a fiume e scomparvero nel Tevere. Il Papa fu assai rattristato da questo incidente: dispose cerimonie di suffragio per le vittime, fece edificare all’imbocco del ponte due cappelle commemorative e ordinò una risistemazione edilizia della zona, fra l’altro facendo abbattere quanto restava dell’arco di Graziano. Intanto la notizia della sciagura, riferita dai pellegrini che tornavano in patria, fece il giro di tutta Europa, destando ovunque grande impressione.

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