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Giovedì santo. L’ abluzione dell’altare papale di S. Pietro

 

Altare della Confessione



Carissimi amici e lettori,

un interessante articolo molto profondo e stato scritto da Francesco G. Tolloi - e pubblicato nel 2016 su Rerum Liturgicarum e ripreso da diversi blog, anche noi che pubblichiamo questo delizioso lavoro ci complimentiamo con l'autore, per la precisione e la minuzie che ne esalta il racconto - di un singolare aspetto della Settimana Santa che si svolgeva a Roma in tempi non sospetti,  dove  fede e  tradizione non erano ancora messe all'indice da chi la doveva custodire e trasmetterla fedelmente. (A.P)




Una breve premessa.


Tra le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. L’anonimo autore di un piccolo volume , ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo particolare costume liturgico, ci riferisce che – fin dalle testimonianze da lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa cerimonia: talmente numerosa era la moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra le ali di folla [1]. L’allora popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898 – pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni, laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del basamento delle colonne berniniane [2]. Altrettanto – sebbene con un’incisione, questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci – si evince da «L’illustrazione popolare».


Descriverò qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.


L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -



L'abluzione dell'altare papale (Paolocci)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -

Svolgimento.


Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il clero beneficiato e i restanti canonici. Il canonico officiante, sopra il rocchetto, portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici. Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares.


Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio romano in uso al clero della basilica vaticana [3].


Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31), sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si proseguiva “senza canto”[4]. Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa, spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che questi aspergilli erano dei serti fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella opportunamente composti ed intrecciati [5]. Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano, dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in fine, i seminaristi.


Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i cappellani detto il versetto Christus factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto – cui faceva seguito l’orazione Respice, quaesumus, Domine.


Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza – facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia, della Croce e del santo Sudario.

Origine e qualche riferimento storico.


Decisamente diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare le origini dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio israelitico (in particolare Esodo XXIX), a fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne vorrebbe rintr
acciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati, trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6]. Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti, in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente facilitato e agevolmente sarebbe venuto ad insinuarsi nelle incombenze da farsi in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati col mero pretesto della comodità [7].


Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto, voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.


Se prima ho fatto cenno all’ampio concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):


I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.





Tra i testi più vetusti ove si trova contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale: “Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur, vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8].


Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio: “Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9].


L’autore citato di La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6) poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave simbolica, e non una mera - parafrasando qui il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma anche solo convincente.


Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+ 856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10]. Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo rito [11]. Quanto alla menzione di tale uso liturgico nell’ambito degli Ordines romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu). La redazione di tale Ordo rimonta al X secolo: “Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa Domino sacrata purificentur” [12]. Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e – infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il giorno dopo, nel venerdì in Parasceve, situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni luoghi esso si compiva in camice e stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta. Diversità si riscontra anche nell’uso degli aspergilli: chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia – che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla mensa mondata dei ceri in forma di croce [13]. Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.


Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani, quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta, inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito sia stato ristabilito appena nel 1635 [14]; a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco fornito dal vescovo di Porto.


Quasi a voler frenare questo decadimento credo si possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII – quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani dell’antica osservanza e dei domenicani[15].


Una brevissima conclusione.


Qui mi sono limitato – e spero almeno di essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano: certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita analisi non sono certamente pochi. La messe documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa. Raccoglierla e confrontarla in modo sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della memoria ne pereat.


Tu autem in sancto habitas, laus Israel!


Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com




[1] La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome, Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.
[2] «La Tribuna illustrata della Domenica», anno VI, n. 15, 10 aprile 1898.
[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp. 260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.
[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.
[5] Idem, p. 100.
[6] R. HOSPINIANUS, De Festis christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.
[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise, Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..
[8] De eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.
[9] Homilia VIII, de Coena Domini, in P.L., t. LXXXVIII, col 623.
[10] De institutione clericorum, cap. XXXVI, De Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.
[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es. E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss. (Lib. IV, cap. XXII).
[12] M. ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.
[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.
[14] La cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.
[15] Per una compiuta descrizione dell’uso domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain, 1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani, debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..

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