Pater Noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tua, sicut in caelo et in terra. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo |
“La Chiesa sembra divenuta oggi un set cinematografo, dove si gira un film con un copione alla commedia italiana. Questa Chiesa è la chiesa della vergogna, dello scandalo.
Mons: Galantino sotto suggerimento del Pontefice regnante, “Cambia il Padre Nostro, la nuova versione nella prossima edizione del Messale Romano”. La decisione è stata presa dal Consiglio permanente della Cei, "roba da non credere" che dà inoltre l’addio alla prolusione."...e non indurci in tentazione": questo passo in italiano della preghiera del Padre Nostro, così come è stato tradotto, non piace a Papa Francesco. La preghiera regina per tutti i cristiani, quel 'Padre Nostro' insegnato direttamente da Gesù Cristo non va bene a un'argentino divenuto papa per sbaglio.
Ecco quanto scrive san Tommaso D’Aquino
Quanto alla traduzione della petizione “et ne nos inducas in temptationem”, nel suo Commento al Padre nostro, dopo aver premesso che Dio ‘tenta’ l’uomo per saggiarne le virtù, e che essere indotti in tentazione vuol dire consentire ad essa: “in questa (domanda) Cristo ci insegna a chiedere di poterli evitare (i peccati), ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: ‘Non ci indurre in tentazione’.”[…]. L’Aquinate poi, chiarito che la carne, il diavolo e il mondo tentano l’uomo al male, annota che la tentazione si vince con l’aiuto di Dio, in quale modo? “Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione”[…].Infine, si chiede: “Ma forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: ‘non ci indurre in tentazione’? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista: ‘Non abbandonarmi quando declinano le mie forze'(Sal 71[70],9). E Dio sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato”>. Insomma, il “non indurci” era già problematico allora, ma non si pensava certo a manipolarlo inzuccherandolo, bensì forse a capirne un senso più profondo.La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: “non ci indurre in tentazione”, che nella nuova versione è stato maldestramente tradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. Naturalmente anche qui ha prevalso il “politicamente corretto”. Come può Dio “indurre” in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sdolcinata, più sentimentale. Cosa sbagliatissima. Ma su questo punto tornerò dopo. Prendiamo dunque il versetto in questione dal testo originale greco: “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”. La parola di interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci” (come i cavoli a merenda). Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo infinito di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) che significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione.
Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione in, eis può reggere solo l’accusativo.
Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico.
Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’), corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco.
Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico.
Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”. Ogni altra traduzione è fuorviante, e oserei dire anche grottesca.
Come ho detto in precedenza, il rispetto per il Testo Sacro è fondamentale, e si dimostra nella fedeltà delle traduzioni con i testi originali. Ma la tendenza oggi è quella di far prevalere il “politicamente corretto”, la traduzione morbida, mielosa. Sradicando completamente il vero significato di ciò che la Parola ci vuole dire.
Infatti molti si sono chiesti: Come può Dio “indurre” in tentazione? Ci sono tantissimi passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e alla prova. Non ci si può scandalizzare, pensando sempre che Dio abbia solo la “mielosa misericordia” (oggi molto di moda nella neochiesa), trascurando la Croce, la prova e la tentazione>.
Il Padre nostro in aramaico
Introduzione sulla lingua aramaica
L’Aramaico, una lingua semitica come l’akkadico, il fenicio, l’ebraico, era parlata da popolazioni stanziatesi in Mesopotamia nel XII-XI sec. a.C., dapprima nomadi, poi assimilate nei regni assiro-babilonesi.
La sua scrittura alfabetica, improntata a quella fenicia, più facile a scriversi dell’assiro-babilonese dai caratteri cuneiformi, si impose a poco a poco già durante l’impero assiro (VIII sec. a.C.).
Quando, dopo la distruzione di Ninive (612), Nabopolassar, arameo, fonda la dinastia neo-babilonese, l’aramaico è già la lingua commerciale e diventerà di li a poco la lingua dei rapporti diplomatici.
Nel VI sec., Ciro il Grande, fondatore dell’impero Achemenide, che si estendeva dall’Egeo all’Indo, dal Caucaso all’Egitto, farà dell’aramaico la lingua ufficiale del suo Stato (parecchi documenti in aramaico di quest’epoca provengono dalla colonia ebraica di Elefantina, nel sud dell’Egitto).
Gli Ebrei, che avevano adottato l’aramaico durante la loro lunga prigionia a Babilonia, continuarono a parlarlo dopo il loro rientro in patria per opera di Ciro, nel 539 a.C. "Certe parti dei libri biblici di quest’epoca sono redatti direttamente in aramaico (Esdra e Daniele), e divenne necessario tradurre le stesse Scritture ebraiche in aramaico: questa fu l’origine dei targum. Nel III sec. a.C. l’ebraico era relegato al rango di lingua liturgica e letteraria. Il popolo parlava l’aramaico. Questo aramaico giudeo-palestinese sarà la lingua di Gesù, degli apostoli e dei rabbini" (C. Sélis).
Con la conquista dell’impero persiano da parte di Alessandro Magno, alla fine del IV sec., in tutto il Medio Oriente lingua ufficiale dello stato diventerà il greco e l’aramaico si ramificherà in dialetti.
Lingua ebraica e aramaica al tempo di Gesù.
La lingua ebraica biblica, quella in cui è scritto l’Antico Testamento, non era più parlata all’epoca di Gesù; veniva comunemente usata nella liturgia sinagogale del sabato anche se ben pochi potevano comprenderla pienamente. Questa era la lingua letteraria conosciuta e capita solo dal ceto colto. Contemporaneamente vi era una variante più “popolare” della stessa lingua ebraica (la cosiddetta “lingua dei saggi” o “ebraico rabbinico”) caratterizzata da forme meno complesse e da un periodare più semplice. Questo secondo tipo di ebraico continuò ad essere parlato a Gerusalemme e in qualche altro centro minore della Palestina fin verso il 200 d.C.
Da molti secoli la lingua ebraica era affiancata, come detto prima, dall' aramaico
Questa lingua era la lingua familiare che parlava il popolo in molti villaggi e cittadine della Palestina in particolare al nord (Nazareth, Cafarnao, ecc.) dove Gesù fu educato, crebbe e trascorse la maggior parte della sua vita. Anche al di fuori dei confini di questa regione era parlata e capita.
Un episodio raccontato nel vangelo di Luca (4,16-30) ci fa capire che la lingua ebraica biblica era familiare a Gesù. In questo passo si dice che Gesù lesse il rotolo della legge (il profeta Isaia) nella sinagoga di Nazareth; certamente questa proclamazione fu fatta in ebraico. Le poche parole che Gesù aggiunse come commento furono enunciate più probabilmente in aramaico che era la lingua della “predica”, un po’ come nelle nostre chiese prima della riforma liturgica si proclamavano le letture in latino e l’omelia veniva data in italiano.
Alfabeto aramaico
Il Padre Nostro nella lingua che parlava Gesù
Padre nostro in ebraico
Versione ebraica: traslazione e traduzione
AVINU SHEBA-SHAMAYYIM (Padre nostro che sei nei cieli)
YITKADASH SHEMAYCHA (Sia santificato il tuo nome
TAVO MALKUTAYCHA (Venga il tuo regno)
YE-ASSEH RETZONCHA (Sia fatta la tua volontà)
K'MO BA-SHAMAYYIM KAIN BA-ARETZ(come in cielo così in terra)
ET LECHEM HUKAYNU TEN-LONU HA-YOM (dacci oggi il nostro pane quotidiano)
U-SLACH LONU ET HOVOTHEYNU (Rimetti a noi i nostri debiti)
KA-ASHER SOLACHNU GAM ANACHNU L'HA-YAVAYNU (come noi li rimettiamo ai nostri debitori)
VIH-AL TIVI-AYNU LI-Y'DAY NISA-YON (e non ci indurre in tentazione)
KEE IM HAL-TZAYNU MIN HARAH (Ma liberaci dal male)
Padre nostro in grecoPater hêmôn ho en toes ouranoes;hagiasthêtô to onoma sou;elthetô hê basileia sou;genêthêtô to thelêma sou,hôs en ouranô, kae epi tês gês.ton arton hêmôn ton epiousion dos hêmin sêmeron;kae aphes hêmin ta opheilêmata hêmôn,hôs kae hêmeis aphiemen toes opheiletaes hêmôn;kae mê eisenenkês hêmas eis peirasmon,alla rhysae hêmas apo tou ponerou.hoti sou estin hê basileia kae hê dynamis kae hê doxa eis tous aeônas;amên.
Padre nostro in latinoPater Noster, qui es in caelis, Sanctificetur nomen tuum.Adveniat regnum tuum,Fiat voluntas tua,sicut in caelo, et in terra.Panem nostrum quotidianum da nobis hodie,Et dimitte nobis debita nostra,sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.Et ne nos inducas in tentationem,Sed libera nos a malo.Amen.
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