Monsignor Krzystof Charamsa:
«Sono fuori dell’armadio e sono felice» Così il teologo gay a proposito del suo coming out durante la conferenza stampa a Roma con il fidanzato Eduard
Le parole di Gesù
Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.«Disse poi ai suoi discepoli: È impossibile che non avvengano scandali: ma guai a colui per cui avvengono!» (Luca 17:1)I cattivi operai, i disonesti, si muovono meglio nella omertà dei fratelli, nel silenzio dei giusti, altrimenti non potrebbero fare quello che gli piace fare, dovendo rendere conto per ogni cosa che fanno.
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Il mondo è diviso a causa di satana. Non è una nostra affermazione, è sotto gli occhi di tutti.
Il maggior inganno del diavolo è di far credere che non esista per operare indisturbato. Non l’abbiamo detto noi, ma il più celebre stigmatizzato della storia cristiana: Padre Pio.
Il male, non solo come forza metafisica, è reale. “Il demonio esiste, ed è in mezzo a noi” ammoniva Padre Pio. “Il fumo di satana è entrato nella Chiesa di Dio”, avvertiva Paolo VI in un memorabile discorso durante un udienza in Vaticano.
Ne cambia solo la dizione. Anziché chiamarli “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”, li chiama” peccati che gridano verso il cielo”, ma la sostanza è la stessa.
Ecco il testo: “La tradizione catechistica ricorda pure che esistono «peccati che gridano verso il cielo».
Gridano verso il cielo: il sangue di Abele (Cf Gen 4,10); il peccato dei Sodomiti (Cf Gen 18,20; Gen 19,13); il lamento del popolo oppresso in Egitto (Cf Es 3,7-10): il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano (Cf Es 22,20-22); l'ingiustizia verso il salariato (Cf Dt 24,14-15; Gc 5,4)” (CCC 1867).
2. La dizione peccato impuro contro natura è mutuata da S. Paolo: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento” (Rm 1,26-27).
3. In passato nei manuali di teologia morale venivano definiti peccati contro natura tutti i disordini sessuali nei quali è impossibile la procreazione. Ma questa dizione non metteva in evidenza la particolare gravità del disordine degli atti omosessuali e anche di quel particolare tipo di contraccezione che è simile alla sodomia.
San Paolo, quando parla di peccati contro natura, si riferisce chiaramente al peccato dei sodomiti, e cioè all’inversione della naturale inclinazione dell’uomo di accoppiarsi con la donna e viceversa.
Si dice che questi peccati gridano verso il cielo per il grande disordine che portano all’interno della società.
Monsignor Krzystof Charamsa: oltre a essersi macchiato di questo gravissimo peccato, a commesso un grave sacrilegio profanando il suo sacerdozio e la castità,e mangiando e bevendo il Corpo e il Sangue di Nostro Signore quotidianamente quando celebrava la Santa Messa.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di questi peccati.
Ne cambia solo la dizione. Anziché chiamarli “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”, li chiama” peccati che gridano verso il cielo”, ma la sostanza è la stessa.
Ecco il testo: “La tradizione catechistica ricorda pure che esistono «peccati che gridano verso il cielo».
Gridano verso il cielo: il sangue di Abele (Cf Gen 4,10); il peccato dei Sodomiti (Cf Gen 18,20; Gen 19,13); il lamento del popolo oppresso in Egitto (Cf Es 3,7-10): il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano (Cf Es 22,20-22); l'ingiustizia verso il salariato (Cf Dt 24,14-15; Gc 5,4)” (CCC 1867).
2. La dizione peccato impuro contro natura è mutuata da S. Paolo: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento” (Rm 1,26-27).
3. In passato nei manuali di teologia morale venivano definiti peccati contro natura tutti i disordini sessuali nei quali è impossibile la procreazione. Ma questa dizione non metteva in evidenza la particolare gravità del disordine degli atti omosessuali e anche di quel particolare tipo di contraccezione che è simile alla sodomia.
San Paolo, quando parla di peccati contro natura, si riferisce chiaramente al peccato dei sodomiti, e cioè all’inversione della naturale inclinazione dell’uomo di accoppiarsi con la donna e viceversa.
Si dice che questi peccati gridano verso il cielo per il grande disordine che portano all’interno della società.
Monsignor Krzystof Charamsa: oltre a essersi macchiato di questo gravissimo peccato, a commesso un grave sacrilegio profanando il suo sacerdozio e la castità,e mangiando e bevendo il Corpo e il Sangue di Nostro Signore quotidianamente quando celebrava la Santa Messa.
Pio XII, «il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». Perduto o laicizzato: essi possono avere ancora il senso della colpa, un complesso di colpevolezza, ma non più il vero senso del peccato. Perciò bisogna ritrovare il vero senso di Dio e dell'uomo, della creatura davanti al suo Creatore; il peccato non è una semplice mancanza, una contravvenzione, un mancamento: è una ribellione a Dio stesso, è porre i beni transitori prima o al posto del Bene ultimo, che è Dio; anche la contrizione è ben altra dal semplice dispetto di aver compiuto qualcosa di irregolare. Bisogna tornare a concepire il peccato nel suo senso teologico di offesa a Dio, il che suppone una retta conoscenza della psicologia del peccatore e della sua vera responsabilità.Effetti del peccato impuro sull'anima, prima che sopraggiunga la morte
Colui che pecca con piena consapevolezza e deliberato consenso contro la purezza, assecondando lo spirito di lussuria compie un atto gravemente disordinato di disaffezione nei confronti di Dio. Trattandosi di peccato mortale, l’anima subisce una netta separazione da Dio.
L’affezione al peccato anestetizza, ammutolisce la voce della coscienza, la “voce di Dio” che costantemente richiama l’uomo sulla retta via e pertanto conduce verso un progressivo abbrutimento dell’anima, che si manifesta con la comparsa di comportamenti istintuali e peccaminosi. “Il peccato genera peccato”(cf Mc 4,25).
A proposito di questa "anestesia della coscienza" si legga quanto afferma S. Alfonso Maria de Liguori:
CONSIDERAZIONE XXII - DEL MAL'ABITO
«Impius cum in profundum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3).2
1 [2.] mal'abito) mal abito BR2: la variante ritorna uguale.
§
2 [3.] Prov., 18, 3: «Impius cum in profundum venerit peccatorum, contemnit».
CONSIDERAZIONE XXII - DEL MAL'ABITO
§ PUNTO I
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PUNTO I
Uno de' maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l'Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch'egli abborriva: «Video aliam legem in membris meis... captivantem me in lege peccati» (Rom. 7. 23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d'un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare?3 Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d'un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual'è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal'abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.
Per prima il mal'abito «accieca». E perché mai i santi sempre cercano4 lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono5 commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? «Excaecavit eos malitia eorum» (Sap. 2. 21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l'accecazione. Dio è la nostra luce;
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quanto più dunque l'anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. «Ossa eius implebuntur vitiis» (Iob. 20. 11). Siccome in un vaso, ch'è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina.
E perciò si vede poi che certi peccatori rilasciati perdono il lume, e vanno di peccato6 in peccato, e neppure pensano più ad emendarsi. «In circuitu impii ambulant» (Psal. 11.9). Caduti i miseri in quella fossa oscura, non sanno far altro che peccati, non parlano che di peccati, non pensano se non a peccare, e quasi non conoscono più che sia male il peccato. «Ipsa consuetudo mali (dice S. Agostino)7 non sinit peccatores videre malum, quod faciunt». Sicché vivono come non credessero più esservi Dio, paradiso, inferno, eternità.
Ed ecco, che quel peccato che prima faceva orrore, col mal'abito non fa più orrore. «Pone illos, ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti» (Psal. 82. 14). Vedete, dice S. Gregorio,8 con che facilità una pagliuccia è mossa da ogni vento anche leggiero; così vedrete ancora taluno che prima (avanti che cadesse) resisteva almeno per qualche tempo, e combatteva colla tentazione; fatto poi il mal'abito, subito cade ad ogni tentazione, ad ogni occasione che gli vien di peccare. E perché? perché il mal'abito gli ha tolta la luce. Dice S. Anselmo9 che 'l demonio fa con certi peccatori, come fa taluno che tiene qualche uccello ligato10 col filo, lo lascia volare, ma quando vuole torna a farlo cadere a terra; tali sono (come dice il santo) i mal abituati: «Pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur»
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(Ap. Edinor. in Vita lib. 2). Taluni, aggiunge S. Bernardino da Siena (tom. 4. Serm. 15),11 seguiranno a peccare anche senz'occasione. Dice il santo che i mal abituati si fan simili a' molini a vento, i quali «rotantur omni vento», girano ad ogni aura di vento; e di più voltano, ancorché non vi stesse grano da macinare, e benché il padrone non volesse che voltino. Vedrai un abituato che senz'occasione va facendo mali pensieri, senza gusto, e quasi non volendo, tirato a forza dal mal'abito. S. Gio. Grisostomo:12 «Dura res est consuetudo, quae nonnunquam nolentes committere cogit illicita». Sì, perché (come dice S. Agostino)13 il mal'abito diventa poi una certa necessità: «Dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas». E come aggiunge S. Bernardino,14 «usus vertitur in naturam»; ond'è che siccome all'uomo è necessario il respirare, così a' mal abituati,15 fatti schiavi del peccato, par che si renda necessario il peccare. Ho detto «schiavi»; vi sono i servi, che servono a forza colla paga; gli schiavi poi servono a forza senza paga; a questo giungono alcuni miserabili, giungono a peccare senza gusto.
«Impius, cum in profundum venerit, contemnit» (Prov. 18. 3).16 Ciò lo spiega il Grisostomo17 appunto del mal abituato, il quale posto
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in quella fossa di tenebre, disprezza correzioni, prediche, censure, inferno, Dio, disprezza tutto, diventa il misero quale avoltoio, che per non lasciare il cadavere, su di quello più presto si contenta di farsi uccidere da' cacciatori. Narra il P. Recupito18 che un condannato a morte mentre andava alla forca, alzò gli occhi, vide una giovane, ed acconsentì ad un mal pensiero. Narra ancora il P. Gisolfo19 che un bestemmiatore, anche condannato a morte, mentre fu buttato dalla scala proruppe in una bestemmia. Giunge a dire S. Bernardo20 che per li mal'abituati non serve più a pregare, ma bisogna piangerli per dannati. Ma come vogliono uscire dal loro precipizio, se non ci vedono più? ci vuole un miracolo della grazia. Apriranno gli occhi i miserabili nell'inferno, quando non servirà più l'aprirli, se non per piangere più amaramente la loro pazzia.
Affetti e preghiere
Mio Dio, Voi mi avete distinto co' vostri benefici, beneficandomi più degli altri; io vi ho distinto colle offese, ingiuriando più Voi, che ogni altra persona da me conosciuta. O Cuore addolorato del mio Redentore, che sulla croce foste così afflitto e tormentato dalla vista de' miei peccati, datemi Voi per li vostri meriti una viva cognizione e dolore delle mie colpe. Ah Gesù mio, io son pieno di
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vizi, ma voi siete onnipotente; ben potete farmi pieno del vostro santo amore. A voi21 dunque confido che siete una bontà, una misericordia infinita. Mi pento, o sommo bene, di avervi offeso. Oh fossi morto prima e non v'avessi dato mai disgusto! Io mi sono scordato di Voi, ma Voi non vi siete scordato di me: lo vedo con questa luce che ora mi date. Giacché dunque mi date la luce, datemi ancora la forza di esservi fedele. Io vi prometto prima di morire mille volte, che mai voltarvi più22 le spalle: ma al vostro aiuto stanno le mie speranze: «In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».23 A voi24 spero, Gesù mio, di non avermi a vedere più confuso nel peccato e privo della vostra grazia.
A Voi mi rivolgo ancora, o Maria signora mia: «In te, Domina, speravi, non confundar in aeternum».25 Alla26 vostra intercessione confido, o speranza mia, di non avermi a vedere più nemico del vostro Figlio. Deh pregatelo che mi faccia prima morire, che mi abbandoni a questa somma disgrazia.
3 [15.] affondare) affondarla ND1 VR ND3 BR1 BR2.
4 [24.] cercano) chiedono VR BR1 BR2.
5 [25.] possono) posson BR2.
6 [5.] di peccato) da peccato ND1 ND3.
7 [10.] S. AUGUST., Sermo 98, c. V, n. 5; PL 38, 594: «Faciendo quod malum est, etiam mala consuetudine se implicant, ut ipsa consuetudo mali non sinat eos videre quia malum est».
8 [15.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XVI, c. 65, n. 79; PL 75, 1159: «Qui [iniqui] recte stipulae ante faciem venti comparantur: quia, irruente aura tentationis, dum nulla subnixi sunt ratione gravitatis, elevantur ut corruant, et saepe eo se alicuius meritis exsistere aestimant, quo eos in alta flatus erroris portat».
9 [20.] EADMERUS, Vita S. Anselmi, l. II, c. 3, n. 28; PL 158, 92: «Alia vice conspexit [Anselmus] puerum cum avicula in via ludentem... Simili consideratione, inquit, iocator diabolus cum multis hominibus, quos cum laqueis irretitos pro sua voluntate in diversa vitia pertrahit… His contingit aliquando ut sua facta considerent, defleant, seque amodo a talibus cessaturos sibi repromittant. Et more avis se liberos volare autumant. Sed quia pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur».
10 [22.] ligato) legato BR1 BR2.
11 [1.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale dictum Seraphim, sermo 15; Opera, III, Venetiis 1745, 192, col. 2: «Mala consuetudo subito praecipitat hominem in peccatum, quia usus vertitur in naturam, et ita consuetus in aliquo vitio riut… Et est instar molendini facti ad ventum, quia rotatur ad omnem ventum». (Cfr. PACETTI D., op. cit., 127 ss.).
12 [8.] GISOLFO P., La guida de' peccatori, p. II, disc. I; I, Roma 1694, 61: «Odi S. Gio. Grisostomo (t. 5, homil. ad Bapt.): Dura res est consuetudo, quae nonnunquam et invitos trahit, et nolentes committere cogit illicita». CHRYSOST., Ad illuminandos catechesis, I, n. 5; PG 49, 230: «Gravis res est consuetudo, difficile eam de medio tollere, arduum est ab illa cavere, invitos saepe et imprudentes invadit». ID., In ep. II ad Cor., hom. 7, n. 7; PG 61, 452: «Magna quippe, magna inquam, consuetudinis vis est, atque adeo tanta ut in naturae necessitatem migret».
13 [9.] S. AUGUST., Confessionum l. VIII, c. 5, n. 10; PL 32, 735: «Velle mecum tenebat inimicus, et inde mihi catenam fecerat, et constrinxerat me. Quippe ex voluntate perversa facta est libido: et dum servitur libidini, facta est consuetudo; et dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas». Cfr. CSEL 33, 178.
14 [11.] S. BERNARDINUS SEN., op. cit.; vedi la nota 11.
15 [13.] mal abituati) mali abituati VR BR1 BR2.
16 [17.] Prov., 18, 3: «Impius, cum in profundum venerit peccatorum, contemnit».
17 [18.] CHRYSOST., In Genesim, homil. 22, n. 4; PG 53, 191: «Grave enim, grave est, dilecte, capi laqueis diaboli. Anima enim postea quasi in retibus comprehensa trahitur,... sic et ista a mala consuetudine obruta, ne sentit quidem peccatorum foetorem.» Il concetto dell'abituato simile all'avvoltoio s'incontra in SEGNERI P., Cristiano istruito, p. II, ragion. X; Opere, III, Venezia 1742, 92: «L'avvoltoio è un uccello sì ghiotto de' cadaveri, che i cacciatori bene spesso ve lo ammazzano su col bastone, tanto è egli intento a pascersi di carname. Or questo appunto interviene a i peccatori indurati». Nei Sermoni compendiati (Napoli 1771, p. 185) s. Alfonso riporta lo stesso concetto dell'avvoltoio ma senza attribuirlo al Crisostomo (serm. XLV, n. 8).
18 [4.] RECUPITUS I. C., De signis praedestinationis, tr. II, c. 7, n. 32; Neapoli 1634, 74: «Quidam reus, cum post confessa sacerdoti peccata, crucifixum pie, ut assolent, manu gestans ad supplicium duceretur, oblato mulierum aspectu per viam, peccato quod opere perpetrare non poterat, cogitatione consensit».
19 [6.] GISOLFO P., La guida de' peccatori, p. I, disc. I, n. I; Napoli 1677, 4. Il fatto citato da s. Alfonso si trova in questa edizione che fu condannata con decreto del I maggio 1683; manca invece nell'ed. purgata del 1694.
20 [8.] S. BERNARDUS, Tract. de gradibus superbiae, c. XXI, n. 51, c. XXII, n. 52; PL 182, 969-970: «Potest ergo duodecimus gradus appellari consuetudo peccandi, qua Dei metus amittitur, contemptus incurritur. Pro tali iam, inquit Ioannes apostolus, non dico ut quis oret (I Ioan., V, 16). Sed numquid dicis, o apostole, ut quis desperet? Imo gemat qui illum amat. Non praesumat nec desistat plorare... Sic melius, non orantes oramus, sic tamquam diffidentes confidimus».
21 [2.] a voi) in voi BR1 BR2.
22 [8.] voltarvi più) più voltarvi BR1 BR2; al vostro) nel vostro VR BR1 BR2.
23 [9.] a voi) in voi VR BR1 BR2.
24 [9.] Ps., 30, 2.
25 [13.] alla) nella VR BR1 BR2.
26 [13.] Ps. BONAVENTURA, Psalterium B. M. Virginis, Ps. 30; VI, Lugduni 1668, 480: cfr. Opera S. Bonav., VIII, Ad Claras Aquas 1898, p. CXI.
§
PUNTO II
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In oltre il mal'abito indurisce. «Cor durum efficit consuetudo peccandi», Cornelio a Lapide.1 E Dio giustamente il permette in pena delle resistenze fatte alle sue chiamate. Dice l'Apostolo che 'l Signore «cuius vult miseretur, et quem vult indurat» (Rom. 9. 18). Spiega S. Agostino:2 «Obduratio Dei est nolle misereri». Non è già che Iddio indurisce il mal abituato, ma gli sottrae la grazia, in pena dell'ingratitudine usata alle sue grazie; e così il di lui cuore resta duro e fatto come di pietra. «Cor eius indurabitur tanquam lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Quindi avverrà che dove
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gli altri s'inteneriscono e piangono in sentir predicar il rigore del divino giudizio, le pene de' dannati, la passione di Gesu-Cristo, il mal abituato niente ne resterà commosso; ne parlerà e sentirà parlare con indifferenza, come fossero cose che a lui non appartenessero; e a tali colpi egli diventerà più duro. «Et stringetur quasi malleatoris incus».
Anche le morti improvvise, i tremuoti,3 i tuoni, i fulmini più non lo spaventeranno: prima che svegliarlo e farlo ravvedere, più presto gli concilieranno quel sonno di morte, in cui dorme perduto. «Ab increpatione tua, Deus Iacob, dormitaverunt» (Ps. 75. 7). Il mal'abito a poco a poco fa perdere anche il rimorso della coscienza. Al mal abituato i peccati più enormi gli sembrano niente. S. Agostino:4 «Peccata quanvis horrenda, cum in consuetudinem veniunt, parva, aut nulla esse videntur». Il far male porta seco naturalmente un certo rossore, ma dice S. Girolamo5 che i mal abituati6 perdono anche il rossore peccando: «Qui ne pudorem quidem habent in delictis». S. Pietro paragona il mal abituato al porco, che si rivolta nel letame: «Sus lota in volutabro luti» (2. Petr. 2. 22). Siccome il porco, rivoltandosi nel loto, non ne sente egli il fetore; così accade al mal abituato: quel fetore che si fa sentire da tutti gli altri, egli solo non lo sente. E posto che il loto gli ha tolta anche la vista, che meraviglia, è, dice S. Bernardino,7 che non si ravveda, neppure mentre Dio lo flagella? «Populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti; quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit?» (S. Bern. Sen. p. 2. pag. 182). Onde avviene che in vece di rattristarsi de' suoi peccati, se ne rallegra, se ne ride e se ne vanta. «Laetantur, cum malefecerint»
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(Prov. 2. 14). «Quasi per risum stultus operatur scelus» (Prov. 10. 23). Che segni sono questi di tal diabolica durezza? Dice S. Tommaso di Villanova,8 sono segni tutti di dannazione: «Induratio, damnationis indicium». Fratello mio, trema che non ti avvenga lo stesso. Se mai hai qualche mal'abito, procura d'uscirne presto, ora che Dio ti chiama. E mentre ti morde la coscienza, sta allegramente perché è segno che Dio non t'ha abbandonato ancora. Ma emendati, ed esci presto; perché se no, la piaga si farà cancrena, e sarai perduto.
Affetti e preghiere
O Signore, come potrò ringraziarvi come debbo, di tante grazie che mi avete fatte? Quante volte mi avete chiamato, ed io ho resistito? In vece di esservi grato e d'amarvi, per avermi liberato dall'inferno, e chiamato con tanto amore ho seguitato a provocarvi a sdegno, replicando a Voi le ingiurie. No, mio Dio, non voglio più oltraggiare la vostra pazienza; basta quanto vi ho offeso. Solo Voi che siete bontà infinita, avete potuto sinora sopportarmi. Ma già vedo che non potete sopportarmi più, avete ragione. Perdonatemi dunque, Signore mio e mio sommo bene, tutte l'ingiurie che v'ho fatte, delle quali mi pento con tutto il cuore; ch'io propongo per l'avvenire di non offendervi più. E che forse ho da seguire sempre ad irritarvi? Deh placatevi meco, o Dio dell'anima mia, non per li meriti miei, a cui non si aspetta altro che castighi ed inferno, ma per li meriti del vostro Figlio e mio Redentore, a' quali9 metto tutta la mia speranza. Per amore dunque di Gesu-Cristo ricevetemi nella vostra grazia, e datemi la perseveranza nel vostro amore. Staccatemi dagli affetti impuri, e tiratemi tutto a Voi. V'amo, o sommo Dio, o sommo amante dell'anime, che siete degno d'infinito amore. Oh vi avessi sempre amato.
O Maria Madre mia, fate che questa vita che mi resta, non mi serva più per offendere il vostro Figlio, ma solo per amarlo e per piangere i disgusti che gli ho dati.
1 [19.] CORNELIUS A LAPIDE, Comment. in Eccli. III, 27; IX, Parisiis 1859, 133: «Cor durum efficit superbia, et consuetudo crebro peccandi; haec enim, cum sit quasi altera natura, indurat mentem in peccato».
2 [22.] S. AUGUST., De diversis quaest. ad Simplicianum, l. I, q. II, n. 15; PL 40, 120: «Obduratio Dei nolle misereri: ut non ab illis irrogetur aliquid quo sit homo deterior, sed tantum quo sit melior non erogetur».
3 [7.] Terremoti al posto dell'arcaico tremuoti.
4 [12.] S. AUGUST., Enchiridion ad Laurentium, l. I, c. 80: PL 40, 270: «Peccata, quamvis magna et horrenda, cum in consuetudinem venerint, aut parva aut nulla esse creduntur».
5 [15.] HIER., Comment. in Ezechielem, l. I, c. I, v. 7; PL 25, 22: «Et tamen hanc quoque ipsam conscientiam, iuxta illud quod in Proverbiis scriptum est: Impius cum venerit in profundum peccatorum, contemnit (Prov. XVIII, 3): cernimus praecipitari apud quosdam et suum locum amittere, qui ne pudorem quidem et verecundiam habent in delictis».
6 [15.] mal abituati) mali abituati VR BR1 BR2.
7 [21.] S. BERNARDINUS SEN., Quadragesimale de Evangelio aeterno,sermo XX, art. 2, c. 5; Opera, II, Venetiis 1745, 112: «Multiplicata peccata excaecant populi intellectum, ne veritatem intelligere queat… Sic etiam quum populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti, quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit»? Op. omnia, III, Ad Claras Aquas 1956, 348-349.
8 [3.] S. THOMAS A VILLANOVA, Conciones, In fer. VI post dom. I Quadrag., concio I, nn. 4-5: I, Mediolani 1760, col. 315: «Rarissime enim huiusmodi peccatores convertuntur ad poenitentiam: illa enim induratio aeternae damnationis indicium est».
9 [23.] a' quali) ne' quali VR BR1 BR2.
§
CONSIDERAZIONE XXII - DEL MAL'ABITO
§ PUNTO III
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PUNTO III
Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che 'l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. «Cor durum habebit male in novissimo» (Eccli. 3. 27). I giusti sieguono1 a camminare per la via dritta.2 «Rectus callis iusti ad ambulandum» (Is. 26. 7). All'incontro i mal abituati3 van sempre in giro. «In circuitu impii ambulant» (Ps. 11. 9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo4 annunzia la dannazione: «Vae homini qui sequitur hunc circuitum» (Serm. 12. Sup. Psal. 90). Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: «Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea» (Prov. 22. 6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova (Conc. 4. Dom. Quadr. 4),5 perché la nostra forza è molto debole. «Et erit fortitudo nostra6 ut favilla stupae» (Is. 1. 31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l'anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: «Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit». Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all'ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra' peccati, e spera poi nell'ultimo giorno7 della vita di rimediare al tutto. Può l'Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? «Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis
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malum» (Ier. 13. 23). Quindi avviene che il male abituato8 in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. «Qui vero mentis est durae, corruet in malum» (Prov. 28. 14).
S. Gregorio9 su quel passo di Giobbe: «Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas» (Iob. 16. 15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s'intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, «irruit quasi gigas». All'incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l'anima: «Et posuerunt lapidem super me» (Thren. 3. 53). Or dice S. Bernardo10 esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: «Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit».
Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne' mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: «Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere» (Cardin. Meth. cap. 16).11 Se
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ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l'infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell'infermi, che «raro sanantur» (come dice S. Tommaso da Villanova);12 stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d'aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t'impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: «Lazare, exi foras».13 Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l'ultima chiamata per te.
Affetti e preghiere
Ah Dio mio, e che voglio aspettare che proprio mi abbandoniate e mi mandiate all'inferno? Ah Signore, aspettatemi, ch'io voglio mutar vita e darmi a Voi. Ditemi che ho da fare, che voglio farlo. O sangue di Gesù, aiutatemi. O avvocata de' peccatori Maria, soccorretemi. E Voi, Eterno Padre, per li meriti di Gesù e di Maria, abbiate
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pietà di me. Mi pento, o Dio di bontà infinita, di avervi offeso, e v'amo sopra ogni cosa. Perdonatemi per amore di Gesu-Cristo e datemi il vostro amore. Datemi ancora un gran timore della mia ruina, se di nuovo vi offendessi. Luce, mio Dio, luce e forza. Tutto spero dalla vostra misericordia. Voi mi avete fatte tante grazie, quand'io andava lontano da Voi, molto più spero, or che a Voi ritorno risoluto di non amare altro che Voi. V'amo, mio Dio, mia vita, mio tutto.
Amo ancora Voi, Madre mia Maria; a Voi consegno l'anima mia; Voi preservatela colla vostra intercessione dal non tornare a cadere in disgrazia di Dio.
1 [5.] Seguono.
2 [5.] dritta) diritta BR1 BR2.
3 [6.] mal abituati) mali abituati VR; male abituati BR1 BR2.
4 [8.] S. BERNARDUS, In Ps. Qui habitat, sermo 12, n. I; PL 182, 231: «Qui enim in circuitu ambulat, proficiscitur quidem, sed proficit nihil. Vae homini qui sequitur hunc circuitum, qui numquam a propria voluntate recedit. Si conaris avellere, paululum sequi videtur, sed in dolo. Circuitus est, aliunde reditum parat, non ab ea penitus abducetur».
5 [14.] S. THOMAS A VILL., Conciones, in domin. III Quadrag., concio 2, n. 5; I, Mediolani 1760, col. 377: «Virtus quoque nostra ad resistendum peccatis per se fragilis est... et nisi iuvetur a gratia, diu vitiosum impulsum sustinere non valet; quo fit ut anima quae in peccato est, a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit».
6 [16.] In Isaia «vestra» non «nostra».
7 [22.] giorno) pezzo VR BR1 BR2.
8 [1.] male abituato) mal abituato BR2.
9 [4.] S. GREGORIUS M., Moralia in Iob, l. XIII, c. 18; PL 75, 1027: «Facile quippe inimico resistitur si non ei vel in multis lapsibus, vel in uno diutius, consentiatur. Sin vero eius suasionibus anima subesse consueverit, quanto se eis crebrius subiicit, tanto eum sibi intolerabiliorem facit, ut ei reluctari non valeat, quia nimirum malignus adversarius contra hanc ex prava consuetudine devictam quasi more gigantis pugnat».
10 [15.] Sospettiamo che s. Alfonso citi un pensiero di s. Bernardo con le parole che appartengono a s. Agostino: S. BERNARDUS, Tract. de gradibus superbiae, c. 21; PL 182, 969: «Concupiscentia reviviscente sopitur ratio, ligat consuetudo. Trahitur miser in profundum malorum, traditur captivus tyrannidi vitiorum, ita ut carnalium voragine desideriorum absorptus, suae rationis divinique timoris oblitus, dicat insipiens in corde suo: Non est Deus (Psal. XIII, I)». S. AUGUST., In Ioan. Evangelium, tr. 49, n. 24; PL 35, 1756: «Quam difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit. Sed tamen surgit; occulta gratia intus vivificantur; surgit post vocem magnam». Cfr. CC 36, 431.
11 [22.] Forse la citazione proviene da CAMPADELLI G., Sermoni sacri morali, Domen. III di Quares.; Venezia 1751, 196: «Non è senza rimedio lo stato de' recidivi, né devono disperarsi, ma creder devono che sì come gravissimo è il loro male, gravissima esser deve la cura, che conviene intraprendere per guarirlo, adattandosi la grazia alle regole dell'arte medica, che insegna che nei mali gravissimi co' rimedi gravissimi curar si devono: Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis, in maximis a maximis initium medendi (Cardin. Method. medendi, c. 16)». A s. Alfonso non era sconosciuto il Campadelli, come abbiamo indicato nella Cons. IV, p. 40. Cfr. Hippocratis lib. Aphorismorum (Interprete Iano Cornario), sectio In. VI; Basilea 1546, 517: «Ad extremos morbos exacte extremae curationes optimae sunt».
12 [6.] S. THOMAS A VILL., Conciones, in fer. VI post dom. I Quadr., concio I, nn. 4-5; I, Mediolani 1760, col. 315: «Infelix anima, quae longo tempore vivit sine Deo facta habitaculum daemoniorum, a quibus captiva tenetur ad suam voluntatem… Huiusmodi peccatores raro sanantur: non quia piscina salubris non sit, sed quia non descendunt in illam».
13 [17.] Io., 11, 43: «Lazare, veni foras».
Come dice San Tommaso d’Aquino della Summa Theologica “ Niente impedisce che l'effetto di un peccato sia causa di un altro. Infatti dal momento che l'anima viene disordinata da un peccato, più facilmente è inclinata a peccare”.
Quando un’anima commette un peccato si dice che questa viene macchiata. Cos’è questa macchia?
Dice San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 86:
[…]In senso proprio si parla di macchia per le cose materiali, quando un corpo nitido, p. es., l'oro, l'argento, o una veste, perde la sua lucentezza a contatto con altri corpi. Perciò nelle cose spirituali se ne deve parlare per analogia a codesta macchia. Ora, l'anima umana può avere due tipi di lucentezza: l'una dovuta allo splendore della luce naturale della ragione, che la dirige nei suoi atti; l'altra dovuta allo splendore della luce divina, cioè della sapienza e della grazia, che porta l'uomo a compiere il bene dovuto. Ma quando l'anima aderisce con l'amore a una cosa, si ha come un contatto di essa. E quando pecca aderisce a qualche cosa che è contraria alla luce della ragione e della legge divina, com'è evidente da quanto sopra abbiamo detto. Ebbene, codesta perdita di luminosità metaforicamente è chiamata macchia dell'anima.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'anima non viene macchiata dalle cose inferiori per la virtù di esse, come se queste agissero su di essa: al contrario è l'anima che col suo agire si sporca, aderendo ad esse disordinatamente, contro la luce della ragione e della legge divina.
2. L'atto intellettivo si compie con la presenza delle cose intelligibili nell'intelletto; perciò l'intelletto non può esserne macchiato, ma piuttosto ne riceve un perfezionamento. Invece l'atto della volontà consiste in un moto verso le cose, cosicché l'amore unisce l'anima alla cosa amata. Per questo l'anima si macchia quando vi aderisce disordinatamente, secondo il detto di Osea: "Diventarono abominevoli come le cose che amarono".
3. La macchia non è qualche cosa di positivo nell'anima, e non indica una semplice privazione: indica invece una privazione della lucentezza dell'anima in rapporto alla sua causa, cioè al peccato. Perciò peccati diversi arrecano macchie diverse. Avviene qualche cosa di simile con l'ombra, privazione della luce dovuta all'interposizione di un corpo: secondo la diversità dei corpi le ombre cambiano. […]
la macchia rimane nell’anima anche dopo l’attaccamento
[…] RISPONDO: La macchia del peccato resta nell'anima anche dopo l'atto peccaminoso. E la ragione si è che la macchia importa, come si è visto, un difetto di luminosità dovuto a un rifiuto di fronte alla luce della ragione, o della legge divina. Perciò finché uno rimane estraneo a codesta luce, resta in lui la macchia del peccato: questa scompare soltanto col ritorno della luce di Dio e della ragione, mediante la grazia. Infatti, pur cessando l'atto del peccato, col quale si era allontanato dalla luce della ragione e della legge divina, l'uomo non torna immediatamente al punto in cui era; ma si richiede un moto della volontà contrario al precedente. Se uno, p. es., si allontana da una persona con una camminata, non si ritrova subito vicino a lei appena smette di camminare, ma deve riavvicinarsi tornando con un moto contrario.[...]
Il peccato è una terribile forza disgregatrice, che provoca lentamente ed inesorabilmente la rovina dell'anima. E' più che evidente la differenza tra una persona che ha costruito la propria anima, attraverso decisioni e azioni, nella propria libertà, seguendo un percorso tracciato nel bene, e un'altra persona che con decisioni e azioni malvage, si è costruita nel male, acconsentendo al male, piuttosto che combatterlo. In sintesi: tra bontà e perversione la differenza è abissale! Il potere del peccato abbrutisce l'umanità, degradandola attraverso una via discendente, che ci avvicina all'animalità, privando per gradi dell'autentica dignità originaria: lo spirito si asservisce alla carne, che prende il sopravvento senza alcun controllo. La via discendente, la via del piacere, la via della carne, è quella che conduce a Satana. Questo è il percorso nel quale la coscienza individuale perde la sua sensibilità, dove è sempre più difficile distinguere tra il bene e il male: progressivamente l'anima muore, nel senso che cade totalmente immersa nelle tenebre del nulla; si vive solo per soddisfare l'istinto e l'egoismo. In questo processo, ha la sua genesi il peccato mortale: totale separazione da Dio, anticipazione della sofferenza eterna.
Se non interviene la Grazia di Dio, se l’anima non ritorna a Dio, convertendo il proprio cuore cambiando radicalmente strada, da un cammino discendente verso un cammino ascendente, l’anima in stato di peccato mortale continuerà a vivere nella separazione da Dio per tutta l’eternità!
Effetti del peccato impuro sull'anima, in seguito alla morte
Come abbiamo precedentemente accennato, l’anima che fino alla fine della propria vita terrena rimane tenacemente legata alla propria situazione di peccato mortale, morendo impenitente sarà necessariamente destinata all’inferno.
Qualcuno, evidentemente poco addentrato nella s. teologia potrà ritenere eccessive queste parole sui castighi che Dio infligge.
Per queste persone aggiungo il seguente testo di Paolo VI , Papa, tratto dalla “Indulgentiarum doctrina”al n. 2
“ È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Così come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.”
Come dice la Scrittura: non c'è pace per gli empi!! Chi pecca non avrà mai la vera pace, perché la pace viene dalla carità , è dono di Dio e non si potrà mai trovare in chi è contro Dio!
Dunque siamo nell’alveo della vera teologia cattolica si noti la distinzione che il Papa fa tra le pene del fuoco e i tormenti che dicono la pena, e dunque la punizione, che è propria dell’inferno, ed è eterna, e le pene purificatrici, che sono proprie del Purgatorio, e che sono limitate nel tempo.
Questa falsa cultura di cui dicevo tende precisamente a nascondere la reale gravità morale della lussuria e la pena terribile che ad essa segue, presentando il peccato che è un grave male come un grande bene. Di questi tali, paladini dell’inganno e del male, Dio, per bocca del profeta Isaia, afferma
“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre,
che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro.” (Isaia 5:20)
Circa il merito di una pena eterna per chi muore in condizione di peccato mortale, afferma San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 87
[…]un peccato merita una punizione in quanto sconvolge un dato ordine. E finché rimane la causa, rimane anche l'effetto. Quindi finché dura il sovvertimento dell'ordine, deve rimanere l'obbligazione alla pena. Ora, uno può sconvolgere l'ordine in modo riparabile, o in modo irreparabile. Ebbene, irreparabile è la mancanza che ne elimina il principio stesso: invece se ne salva il principio, in virtù di esso le deficenze si possono riparare. Se si corrompe, p. es., il principio visivo, la vista non è più ricuperabile, se non per virtù divina: se invece la vista soffre delle difficoltà, ma ne è salvo il principio, è ancora riparabile per la natura o per l'arte. Ma ogni ordine ha un principio in rapporto al quale le altre cose ne divengono partecipi. Se quindi il peccato distrugge il principio dell'ordine, col quale la volontà umana è sottomessa a Dio, si avrà un disordine di per sé irreparabile, sebbene possa essere riparato dalla virtù di Dio. Ora, il principio di quest'ordine è il fine ultimo, al quale l'uomo aderisce con la carità. Perciò tutti i peccati che ci distaccano da Dio, col distruggere la carità, di per sé importano un'obbligazione alla pena eterna.
[…]
come insegna S. Gregorio, è giusto che sia punito nell'eternità di Dio, chi osò peccare contro Dio nell'eternità del proprio essere. E si dice che uno ha peccato nell'eternità del proprio essere, non solo per la continuità dell'atto peccaminoso durante tutta la sua vita: ma perché costituendo il proprio fine nel peccato, mostra la volontà di voler peccare eternamente. Perciò S. Gregorio afferma, che "gli iniqui avrebbero voluto vivere senza fine, per poter rimanere senza fine nel peccato".
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