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Un Papa “orribile” e una dottrina inalterata/ due Papi “santi” e una dottrina stravolta


Abbiamo avuto, nel passato, stando a quanto affermano certi scrittori, dei Papi “orribili”. 
Stando al Guicciardini, ripreso abbondantemente dalla interessata pubblicistica anticattolica, Roderigo Borgia ovvero Alessandro VI è stato uno di questi “orribili” Papi. E, allora, viene da chiedersi: perché, pur passando per Alessandro VI, nonché per la sua corte, il Vangelo ci è giunto inalterato e intatto? E perché, invece, passando per due Papi “buoni”, che ora sono stati fatti santi, la dottrina ci è giunta così stravolta da negare le parole stesse di Nostro Signore: “Io sono la via, la verità, la vita; nessuno sale al Padre se non per mezzo di me”?

Illogicità dei modernisti

L’esempio di don Vannutelli è molto istruttivo per comprendere lo stravolgimento in atto ormai da cinquant’anni. Questo prete modernista, vissuto nel XX secolo, ostentò esteriormente la fede cattolica fino alla morte. Ma, dopo la sua morte, vennero alla luce i suoi diari, nei quali è scritto che Gesù è il migliore degli uomini, ma non il Figlio di Dio. La domanda a questo punto è ineludibile: perché don Vannutelli continuò a fare il prete?


Temo che, per comprendere la posizione dei modernisti come don Vannutelli, sia necessario volgersi, per un momento, a guardare là dove tutti i modernisti hanno studiato. Gli atei, o almeno coloro che si proclamano tali, credono che la vita venga dal nulla e finisca nel nulla: lo pensano, lo dicono e scrivono apertamente.

Eppure ciò non impedisce loro di mettere su famiglia né di educare i figli secondo princìpi che considerano superiori a quelli cattolici. A quanto pare, questi sapienti ignorano le conclusioni logiche a cui giunge l’ateismo per bocca di un personaggio di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, tutto è permesso” e, non traendo tutte le conseguenze che è necessario trarre dalla cosiddetta “morte” di Dio, s’impegnano ad educare il mondo a princìpi e valori, come se alla fine non ci fosse il nulla a rendere vana questa fatica. 

Allo stesso modo dell’ateo, anche il modernista don Vannutelli non trasse le necessarie conseguenze da quel che sinceramente credeva o, meglio, non credeva, giacché, se veramente Gesù non fosse il Figlio Unigenito di Dio, la religione cattolica non avrebbe nessun senso e sarebbe assolutamente inutile assumersene l’impegno. 

Perché i modernisti non lo capiscono? Perché, in realtà, sono posseduti dall’ossessione di riabilitare la fede cattolica, di riscattarla dalla leggenda nera dei secoli bui, riformandola alla luce (sic) della cultura moderna e, poiché la cultura moderna non ammette nessuna verità assoluta (a parte il nulla), essi rinunciano al possesso della verità, senza rendersi conto che, rinunciando a questo possesso, di cui è garante Nostro Signore, la fede è destinata a svanire.

È certamente così che Dio ha voluto accecare i modernisti, “affinché i non vedenti vedano, e i vedenti diventino ciechi” (Gv. 9, 39): rendendoli ciechi come il mondo moderno. Essi, dicevo, hanno studiato nelle scuole laiche e, come l’ateo non capisce che, se la sola verità dell’essere è il nulla, darsi pena di fondare princìpi e trasmettere valori è fatica sprecata, così il clero modernista non capisce che è fatica sprecata osservare i difficili comandamenti della nostra santa religione se Gesù non è il Figlio di Dio, se non è Lui la via, la verità, la vita e se si giunge al Padre anche senza di Lui e senza la Sua Chiesa (il che è lo stesso), così come è fatica sprecata pretendere che i fedeli si impegnino a credere nei princìpi e nei valori della religione cattolica anche se essa non viene più proposta loro come assolutamente vera. E questa pretesa, condivisa dall’ateo e dal modernista, mostra la scarsa considerazione che entrambi hanno dell’intelligenza del cosiddetto uomo moderno e, insieme, l’intelligenza della scuola da cui provengono.

La Verità o è assoluta o non è

Che il modernismo non sappia ragionare è perfettamente assodato. Che ne sia debitore al secolo anche. È il secolo, infatti, che non vuole più una verità assoluta (a parte il nulla), e, al tempo stesso, si sente in diritto di insegnare dei valori. E il risultato di tanta stoltezza si nota soprattutto in chiesa, ove il moderno clero esibisce la pretesa di insegnare una verità che, però, è tale solo per chi la crede, vale a dire che è e deve essere creduta vera in base alla fortuita circostanza d’essere nati dove la si apprende.

Le chiese sono sempre più vuote perché i fedeli, contrariamente a quanto crede il modernista, non sono stupidi. Essi capiscono che l’ecumenismo ha inferto un colpo mortale alla verità della nostra fede. Solo i modernisti non si accorgono che, rinunciando a proporre la divina Rivelazione come assolutamente vera, la nostra santa religione si riduce a favola. E non se ne accorgono perché, volendo mostrare al mondo una Chiesa, secondo loro, migliore di quella del passato e coltivando la velleità di formare dei cattolici più intelligenti e maturi che piacciano al secolo, lavorano per liberare la verità dalla sua forma assoluta. 
È questo il vero errore del Vaticano II, il suo peccato originale; tutto il resto viene di conseguenza. 

Non si creda, però, che sia un errore estrinseco; al contrario, esso è intimamente connesso alla dichiarata volontà di mutare la forma dell’annuncio senza intaccarne la sostanza. Dichiarazione vana e volontà impotente, perché la forma della verità è una sola: quella assoluta. Non ce n’è un’altra. 
Certo, vi sono anche altre forme d’annuncio, come, ad esempio, quelle scientifiche, ma nessuna di esse è compatibile con la verità. E ciò per la semplicissima ragione che, se queste forme non sono assolute (apodittiche), segue che sono ipotetiche. Se ipotetiche, probabili; se probabili, non certe; se non certe, aperte a disastrosi dubbi e a sciagurate riforme, come ci insegnano gli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa. 
Perciò, è necessario insistere dicendo che la verità o è assoluta, oppure, semplicemente, non è. E, per esser chiari fino in fondo – in modo da smentire ciò che si afferma oggi dal più alto soglio, seguendo un vecchio errore di mastro Eckart, già condannato dalla Chiesa – per Assoluto qui si intende ciò che è sciolto da ogni relazione ad altro, e, quindi, ciò che è ed esiste indipendentemente dall’uomo e dal pensiero (non scuota il capo il filosofo esistenzialista, perché questa è anche la forma in cui, alla sua scuola, si insegna il nulla). 
All’idealista, se ce n’è ancora qualcuno, che domanda in che modo l’Assoluto sia indipendente dal pensiero, si risponde che l’Assoluto è la forma della verità e che la verità non la crea il pensiero. Il pensiero, semmai, crea delle opinioni. La verità si trova e quel che si trova è già in essere, e ciò che è già in essere, è ontologicamente prima del suo rinvenimento e da esso indipendente, talché ci si deve semplicemente adeguare.

Un assurdo

L’Assoluto è sciolto da ogni relazione, ed esiste indipendentemente dall’uomo e dal pensiero. Se, infatti, non fosse sciolto dalla relazione ad altro, l’Assoluto sarebbe tale solo nella sua relazione ad altro (sarebbe l’assoluto dialettico di Hegel, cioè un cerchio quadrato), col risultato che, per ricavare la Sua identità, non lo si potrebbe scindere dalla sua relazione ad altro. In questo caso, Dio sarebbe Dio soltanto in relazione all’uomo (soltanto davanti all’uomo), mentre in Se Stesso (ove non c’è uomo) Dio non sarebbe Dio; il che è assurdo, perché, in tutto l’universo, dove ogni cosa è se stessa, solo Dio non sarebbe Se Stesso. 
Ma Dio è Dio anche senza l’uomo; così come l’uomo rimane uomo anche se non conosce o riconosce Dio. Non a caso il magistero cattolico ha sempre insegnato che Dio non ha bisogno dell’uomo e che l’ha creato solo per amore. 
E, del resto, se oggi si insegna ovunque che l’uomo è uomo anche senza Dio, perché riceve la propria identità da sé e non dal suo Creatore, non si capisce il motivo per cui si debba negare l’inverso dicendo che Dio è pura relazione. Così dicendo, infatti, si finisce col sostenere che l’identità di Dio dipende da noi, che senza di noi Dio neppure esisterebbe, che noi Lo abbiamo creato, aprendo il varco alla più terrificante deriva dell’ateismo conciliare, che non è l’Idealismo, come comunemente si crede, ma il Criticismo kantiano, ripreso e rielaborato, non a caso, da tutte le filosofie scettiche e immanentiste, a cominciare dall’Esistenzialismo, onde negare ogni valore alla ragione ed ogni fondamento razionale alla metafisica. 

Era, dunque, impossibile conservare la verità cattolica, mutandone la forma, perché quella forma è assoluta. E lo si è visto subito dal caos del postconcilio, quando, spogliata la verità cattolica della sua forma assoluta, ciascuno iniziò a rifare e ricreare la dottrina a proprio arbitrio. Ciò nondimeno, si è andati avanti, ostinatamente. Né è valso a risvegliare il modernismo da questo colossale errore il rapido stato d’abbandono di chiese, conventi e seminari. 

Eppure non occorre sforzarsi molto per capire l’errore fondamentale del concilio Vaticano II. Basterebbe soltanto chiedersi perché mai un uomo sano di mente dovrebbe caricarsi il peso di una religione non assolutamente ma solo relativamente vera, quando non soltanto vi sono altre religioni al mondo riconosciute dalla stessa “Chiesa conciliare” di uguale valore soteriologico, e, come ognuno sa, di minore fatica, ma anche quando ad ogni uomo viene riconosciuto il diritto alla salvezza prima ancora del Battesimo, e cioè non appena è concepito nel seno di sua madre, come afferma, purtroppo, non questo o quel teologo, ma l’enciclica di Giovanni Paolo II “Dives in Misericordia”.

L’ostilità alla Tradizione cattolica

Dopo quanto si è detto, non dovrebbe essere difficile capire il motivo per cui il modernista si accanisce sempre e solo contro la Tradizione cattolica. 

Dal proprio punto di vista, il modernista (in buona fede) non agisce con l’intenzione di danneggiare la Chiesa, ma, semmai, di procurarle un vantaggio ed è pertanto ovvio che, anche per lui, la perdita della fede è una sconfitta. Solo che egli non comprende come e perché è andata persa la fede negli ultimi cinquant’anni. 
“Ci si aspettava una giornata di primavera e, invece, è sopraggiunto il gelo”: ecco tutto quello che all’incirca Paolo VI ha saputo dire in piena burrasca postconciliare. E il suo sbigottimento “meteorologico” ci rivela in modo eloquente la sua incapacità di comprendere che cosa è successo. 

Che manchi qualcosa al modernismo appare chiaro anche a Paolo VI: ce lo dice il suo turbamento. Ma quel che manca e perché si è perso non lo sa né lo può sapere, perché ciò che si è perso lo può sapere soltanto chi l’aveva in dote. 
Solo chi sa che cosa ha perso, si sforza di ritrovarlo, mettendosi a cercare come la donna del Vangelo. Ma, se uno non sa di possedere neppure una delle dieci monete di quella donna, metterà forse sossopra la casa per cercare qualcosa che non sa di avere? Al contrario: è certo che a costui tanto zelo per ricercare qualcosa che, ai suoi occhi, non esiste apparirà soltanto come un’inutile e irritante perdita di tempo. È naturale, allora, che il modernista si accanisca contro la Tradizione, perché ciò che il cattolico fedele alla Tradizione intende risolutamente cercare, anche a costo di mettere a soqquadro la casa intera, appare al modernista come qualcosa di assurdo. Solo che questo qualcosa di assurdo è proprio ciò che il Signore ci invita a cercare sacrificando tutto: è la dracma d’oro, la pietra preziosa, il tesoro nel campo. E’ quell’amore che si deve a Dio sopra ogni cosa. Vale a dire: è proprio quell’Assoluto che il modernista, seguendo il secolo, rifiuta.

Una partita truccata

Nella storia del pensiero europeo l’Assoluto cade in disgrazia non perché sia inattingibile, come si sostiene da più parti e perfino da parte di molti cattolici, ma, più semplicemente, per volontà dell’uomo. In ambito filosofico, cioè là dove, da sempre, si decidono le sorti della intera società europea su cosa e come pensare (ontologia e gnoseologia), si è negato, sotto la generale e perdurante influenza del pensiero kantiano, ogni significato all’Assoluto e alla filosofia che se ne occupa: la metafisica.

Naturalmente per osare tanto, è stato necessario truccare la partita, screditando innanzi tutto, l’arbitro e cioè la ragione col suo chiaro e di per sé evidente principio di non contraddizione, proponendo di essa quella penosa caricatura che ne ha fatto Kant, e dichiarandola, senza fondamento, incapace di trascendere i limiti empirici, magari per giudicare i clamorosi errori logici dell’empirismo. Non solo; ma si trucca la partita per motivi ignobili: affinché l’uomo si convinca che l’unico sapere rimastogli è quello empirico e si rassegni a trovare il suo posto nei limiti di questo mondo e dei suoi triviali interessi. Il che dimostra tutto l’amore della scienza filosofica moderna per l’uomo.

Considerando ciò, suscita meraviglia il fatto che il modernismo cattolico abbia potuto abbandonare la teologia tomista per andar pedestremente dietro alla ridicola “filosofia” contemporanea con il mito del suo progresso, così come lo conosciamo tutti. 
E il mito del progresso non può e non vuole acquietarsi in un sapere assoluto, per la semplice ragione che il sapere assoluto non implica nessun progresso. Quindi, per cautelarsi anche soltanto dalla possibilità di imbattersi in qualcosa che somigli al sapere assoluto, il progresso ha già coniato il nome filosofico per diffamarlo pubblicamente, definendolo una tautologia. Purtroppo, ciò che il modernismo non è in grado di comprendere è che, se il mito del progresso rifiuta un sapere assoluto, ciò vuol precisamente dire che esso si costringe a vivere di un sapere parziale, ipotetico, di un sapere – si badi – che richiede “fede” onde compensare il divario necessariamente esistente tra l’incremento e la completezza della conoscenza, tra la sua parzialità e la sua totalità, tra la sua probabilità e la sua certezza. 
Purtroppo, avendo da tempo cessato colpevolmente di combatterlo, per correre ad affidargli le sue nuove e materialiste esegesi dei sacri testi, il modernismo consente di fatto a quel sapere ipotetico e scettico non soltanto di spargere indisturbato, tra le sempre più disorientate greggi cattoliche, la vanteria spavalda di essere il solo sapere vero, ma di dileggiare impudentemente la Fede, benché sia un atto di “fede” esso stesso. 

L’insipienza dei modernisti

Come si vede, la moderna negazione dell’Assoluto non è uno stato di fatto delle cose, quale si vorrebbe far credere, ma un’opera della volontà umana. Per cui se, nel corso della storia filosofica europea l’Assoluto cade in disgrazia, ciò non avviene per una adeguazione dell’intelletto alla realtà bensì per pura e semplice volontà umana. 
Ma si sa che le cose hanno successo nel mondo con l’uso della forza, e, in questo caso, non si può affatto negare che la forza della propaganda abbia avuto la meglio sulla logica. A tal punto che l’uomo moderno è convinto che il secolo del progresso sia anche il secolo della ragione. Ne è così persuaso che non esita ad obiettare ingenuamente ai filosofi moderni e agli scienziati che l’uomo non è fatto solo di ragione, senza neppure immaginare di rivolgere questa obiezione a chi della ragione va facendo strazio da ben due secoli. 
Quante volte non si è sentita questa stessa obiezione in bocca a cattolici anche “tradizionalisti”? Su costoro graverebbe il sacro dovere di difendere la ragione naturale, conformemente ai decreti del Concilio Vaticano I e della stessa logica, per far ritorno una buona volta a quella armonia di ragione e fede costantemente insegnata dalla Chiesa. Invece, no. Essi vaneggiano di una logica divina totalmente altra, non per affermare la razionalità di Dio (questo significherebbe offenderlo, secondo loro), ma per separare Dio da ogni logica razionale e abbandonarLo alla irrazionalità di un cieco fideismo, sempre condannato dalla Chiesa. 
Essi sostengono di rivolgere le loro armi contro il razionalismo puro, quando di razionalismo puro non se ne vede neppure l’ombra, e, per farlo, si appoggiano temerariamente a filosofie scettiche e immanentiste, come l’Esistenzialismo, costruite sul più totale disprezzo della ragione. Ebbene, anzitutto i Pastori dovrebbero fare attenzione alle sponde che cercano nella filosofia contemporanea, perché quelle sponde, poggiate sulla sabbia anziché sulla roccia, inclinano vistosamente allo scetticismo e rischiano di franare sulla fede del gregge affidato loro.

So bene che coloro ai quali mi rivolgo non ascolteranno. Purtroppo, il modernista è come quel re savio della famosa favola che, trovandosi a regnare su un popolo di pazzi, si persuade a bere alla fonte della pazzia comune per diventare pazzo come tutti gli altri e conservare il trono. Il modernista aveva la Sapienza a sua disposizione. Il Magistero della Chiesa, sempre divinamente assistito, e la sua gloriosa Tradizione gliel’avrebbero elargita senza nessun risparmio, ma egli ha preferito dissetarsi alla fonte della filosofia moderna per diventare come tutti gli altri e conservare un qualche inutile trono.

È lì, a quella scuola, che gli hanno insegnato che l’Assoluto non può esistere, perché ce n’è già uno: il nulla. Stordito da tanto… rigore logico, il nostro modernista si è vergognato di dare prova di sorpassato aristotelismo chiedendo lumi sulla contraddizione implicita a un Assoluto che esiste e, insieme, non esiste. Né avrebbe fatto in tempo a domandare perché quell’unico Assoluto sia il nulla e non, ad esempio, Dio, giacché i sapienti, senza por tempo in mezzo, si prodigavano a spiegargliene la formidabile ragione: è Dio che deve recare prova della sua esistenza davanti al tribunale umano, perché Dio è un ente; e questa prova ancora latita (il che è falso); il nulla, invece, non è un ente, è un niente; e, in quanto non è un ente, non è obbligato a dar prova della sua esistenza. Se non si è ancora capito, ecco, tradotta in un linguaggio accessibile, la convincente ragione: se Dio non c’è, allora non c’è nulla oltre il divenire (il che è contraddittorio) e dunque, se non c’è nulla, c’è il nulla. 

Affascinato dalla traboccante sapienza di tali maestri del pensiero, il nostro modernista non si è nemmeno sognato di replicare che, se il nulla è un niente, allora non esiste ed è inutile insegnarlo; mentre se esiste, come gli hanno insegnato, allora non è un niente ma un ente e, in quanto è un ente, anch’esso deve rassegnarsi a recare prova della sua esistenza, come si esige dal buon Dio. 

Non ha saputo replicare, si diceva, ora si aggiunga che il modernista non avrebbe nemmeno potuto, perché, frattanto, stava apprendendo dai più grandi filosofi del secolo, che è bene che l’Assoluto non esista, perché il solo male del mondo è proprio l’Assoluto. Ad Esso, infatti, si devono imputare le crociate e le guerre, le stragi e gli stupri, le pulizie etniche e i campi di sterminio. Non all’uomo, che ne fa un uso strumentale, ma, si badi, all’Assoluto in sé (sebbene per la moderna logica, un Assoluto in sé, propriamente non esista). 
Formato, dunque, a una siffatta scuola di pensiero, il modernista è poi tornato in chiesa ad insegnare quello che aveva tanto bene appreso: l’odio per l’Assoluto. Qui, confortato dalla raccomandazione di Giovanni XXIII di rileggere il Cristianesimo alla luce (sic) della cultura moderna, il modernista si mostra aperto a tutto, perfino al paganesimo di ritorno, fuorché alla Tradizione, perché la Tradizione rivuole l’Assoluto, e lo rivuole proprio perché l’Assoluto, di natura sua, non è aperto, ma chiuso all’errore. 
Il modernista, però, è troppo intelligente per non sapere ormai, da intellettuale consumato, che l’errore non esiste né può esistere, dato che, se esistesse, allora esisterebbe anche l’Assoluto, mentre, invece, l’Assoluto non esiste, ed è bene che non esista. 
A questo punto, si cerchi di comprendere l’illuminato modernista: dopo aver tanto studiato un lato solo del problema, quello moderno, gli è sfuggito l’altro, l’antico, che, invece, è perfettamente noto anche all’ultimo dei fedeli, e cioè che, se l’Assoluto non esiste, non esiste la stessa verità e, se non esiste la verità, la nostra santa religione è semplicemente falsa.

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