Scola, Ouellet e numerosi grandi teologi rigettano i facilismi dei tedeschi sulla comunione ai risposati
di Matteo Matzuzzi
Cardinali riuniti nella loggia delle benedizioni
Roma. C’è anche un lungo saggio del cardinale Angelo Scola, nel numero speciale presinodale di Communio, la rivista fondata da Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e Joseph Ratzinger, interamente dedicato al matrimonio. Il tema che più d’ogni altro divide è quello del riaccostamento dei divorziati risposati all’eucaristia, auspicato da chi come il cardinale Walter Kasper ritiene inimmaginabile che chi è andato incontro a un fallimento matrimoniale “cada in un buco senza via d’uscita” e rifiutato da quanti considerano tale via libera una sorta di dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della chiesa. Spesso, scrive Scola, la chiesa è accusata di essere poco sensibile e assai poco comprensiva quando ha a che fare con i divorziati risposati. Andrebbero però indagate in profondità le ragioni di una posizione non improvvisata, ma “fondata sulla divina rivelazione”. E poi, qui non si sta parlando di “una azione arbitraria del magistero della chiesa”, quanto della consapevolezza del legame che unisce da sempre il sacramento dell’eucaristia al sacramento del matrimonio. A rendere impossibile l’accesso alla comunione non è dunque la volontà di disattendere quelle attese dei fedeli cattolici che a giudizio di Kasper non possono essere disattese dal Sinodo prossimo venturo, tantomeno lo è il piacere d’arroccarsi su posizioni considerate superate dal moltiplicarsi di tutte le “situazioni inedite fino a pochi anni fa” (dal gender alle famiglie cosiddette patchwork, fino alle unioni tra persone dello stesso sesso) che non furono affrontate in modo approfondito durante il Sinodo del 1980: a impedire l’accostamento all’eucaristia è solo “lo stato nel quale si trovano coloro che hanno stabilito un nuovo legame”. “Uno stato – scrive Scola – che contraddice ciò che è significato dal legame tra l’eucaristia e il matrimonio”.
“Il divorzio nella chiesa antica? Falso”
Anche i riferimenti fatti dal cardinale Kasper alla prassi della chiesa dei primi secoli – ritenuta più permissiva e flessibile circa i fedeli divorziati e risposati – nella lunga relazione teologica dinanzi al collegio cardinalizio riunito in concistoro lo scorso inverno, lasciano il tempo che trovano: si tratta di “interpretazioni che ancora non sembrano fornire la prova di comportamenti sostanzialmente differenti da quelli di oggi”, aggiunge l’arcivescovo di Milano. E a conferma di ciò, la rivista ripubblica un ampio testo del padre gesuita Henri Crouzel, scomparso nel 2003 e già professore di Patristica all’Istituto cattolico di Tolosa e all’Università Gregoriana di Roma, in cui si bollano come “false” le teorie sulla flessibilità rispetto al divorzio e al secondo matrimonio nella chiesa dei primi tempi: “Non si può deformare la ricerca storica”, e poi è abbastanza “inutile falsare la storia dei primi secoli con l’obiettivo di adattarla alle riforme che qualcuno potrebbe desiderare per il secolo Ventesimo”, sottolineava padre Crouzel. Tra i contributi presenti nel volume, c’è anche quello del cardinale Marc Ouellet, prefetto della congregazione dei Vescovi scelto da Benedetto XVI nel 2010 e confermato da Francesco. Il porporato canadese si sofferma in modo particolare sulla questione riguardante la comunione ai divorziati risposati e ricorda che “le nuove aperture per un approccio pastorale basato sulla misericordia devono concretizzarsi nella continuità della tradizione dottrinale della chiesa, che è essa stessa un’espressione della divina misericordia”.Ouellet, di cui Communio ripubblica l’intervento tenuto in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario del Tribunale ecclesiastico di Valencia, non chiude alla riflessione su “alcune iniziative innovative che rispondano alle nuove sfide dell’evangelizzazione”. Il punto chiave, però, è che l’aiuto che si deve concedere ai divorziati risposati ha un limite ben chiaro: “Quello imposto dalla verità dei sacramenti della chiesa”. Quel che bisogna fare, semmai, è “ricordare il patrimonio” lasciato da “Giovanni Paolo II, il Papa della famiglia”. Certo, il limite imposto è doloroso, ma “non impedisce alla misericordia di raggiungere il cuore e l’anima delle persone in una situazione irregolare”. E poi – precisa il prefetto della fabbrica dei vescovi – “mantenere questo limite non equivale a dire che queste coppie vivono in peccato mortale o che viene loro negata la Santa Comunione per questa ragione morale”. Queste persone “possono sinceramente pentirsi e ottenere il perdono, ma rimangono impossibilitate a godere della consolazione del segno sacramentale”. La ragione di questa limitazione – prosegue Ouellet – “non è morale, bensì sacramentale. Il secondo matrimonio rimane un ostacolo oggettivo che non permette di partecipare alla sacramentalità di Cristo e della chiesa”.
Misericordia non è compassione psicologica
Nicholas Healy, docente di Filosofia e cultura all'Istituto John Paul II presso la Catholic University of America, ricorda che il dibattito in corso non è altro che una ripresa dello scontro che s’ebbe vent’anni fa, con la lettera sull’attenzione verso i divorziati risposati scritta e firmata da tre presuli tedeschi di rango: l’allora arcivescovo di Friburgo Oskar Saier, Karl Lehmann e Walter Kasper. I vescovi proponevano di stabilire alcuni criteri che avrebbero poi condotto i singoli individui ad accostarsi all’eucaristia: pentirsi per il fallimento del primo matrimonio, dar prova che il matrimonio civile sia stabile nel tempo, accettare gli impegni assunti con il secondo matrimonio. Sotto queste condizioni, scrivevano Saier, Lehmann e Kasper, le persone risposate civilmente avrebbero potuto ricevere la comunione. Peccato che, ricorda Healy, pochi mesi più tardi la congregazione per la Dottrina della fede a guida Ratzinger, pubblicò una lettera diretta “ai vescovi della chiesa cattolica” riguardante proprio la questione dell’eucaristia per i divorziati risposati.
L’ex Sant’Uffizio citava solo due documenti, la Familiaris Consortio giovanpaolina e il Catechismo della chiesa cattolica, per ribadire in poche parole che “la dottrina e la pratica della chiesa precludono ai cattolici risposati civilmente di ricevere la comunione, dal momento che la loro condizione di vita oggettivamente contraddice l’unione d’amore tra Cristo e la chiesa”. Il fatto è, osserva sempre nel numero speciale di Communio padre Fabrizio Meroni, professore di Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma, che in molte circostanze “si riduce l’assistenza pastorale per i divorziati risposati a una compassione psicologica, a una simpatia superficiale o a una soggettiva comprensione misericordiosa che cerca di portare gli sposi di nuovo nella vita sacramentale della comunità”. Ma l’auspicio di essere riammessi all’eucaristia, aggiunge Meroni, non può essere una rivendicazione: il sacramento è semplicemente un dono.
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