Carissimi amici e lettori,
nemmeno il tempo che si affacciasse dalla loggia di San Pietro, che il nuovo Papa Leone XIV, ovvero Robert Francis Prevost, è stato subito accusato in maniera molto pesante da certuni che vagano nell'orbe cattolico, che con la bocca si professano cattolici, ma nella sostanza non si sa, lo sa solo il Signore. «Ci sono persone che non è che pregano contro di lui, ma non lo accettano e, magari senza conoscerlo, sono avversari». Perché il mondo di oggi «più che fede ha ideologie, e le ideologie sono escludenti».
Alcuni sostengono che il Pontificato di Leone XIV, non è altro che proseguimento sulla via dell’inganno e dell'autodistruzione che metterebbe persino in discussione il dogma della infallibilità del Pontefice.
Altri vorrebbero l'abrogazione o addirittura la scomunica del Concilio Vaticano II.
Vorrei fare presente che i Concili Ecumenici sono assemblee solenni dei vescovi di tutta la Chiesa cattolica, convocate per affrontare questioni di fede, morale o disciplina, e le loro decisioni sono considerate infallibili e vincolanti per tutti i fedeli. La risposta è No, un Concilio Ecumenico, come il Vaticano II, non può essere abrogato. Sui travisamenti applicativi del Concilio, le fughe in avanti possono essere rivisti i suoi testi aggiustati interpretati e applicate alla luce del magistero perenne e della tradizione, e questo c'è lo auguriamo un pò tutti.
Molti osservatori stanno facendo dei primi passi del pontificato di Leone XIV, mi pare che prevalga finora l’uso della categoria di continuità/discontinuità, applicata al confronto con il pontificato precedente. Se si potesse impiegare una metafora ludica, direi che, dagli spalti delle opposte tifoserie, le prime mosse del nuovo papa vengono giudicate paragonando il suo stile di gioco con quello del predecessore e valutando di conseguenza quanto egli si dimostri "bergogliano" o "non bergogliano", se non addirittura "antibergogliano". È una tendenza comprensibile, sia perché si tratta del confronto più facile ed immediato – e spesso anche l’unico possibile ad una cultura sociale ormai del tutto priva di memoria storica e abituata al respiro corto di un’attualità schiacciata sui tempi stretti della cronaca –, sia perché la "discontinuità" è stata in effetti la cifra, puntigliosamente cercata fin dal primo momento ed esibita con indubbia efficacia comunicativa sino alla fine, del papato di Francesco; o quantomeno della sua rappresentazione mediatica, da lui stesso peraltro voluta e promossa e che, in ogni caso, è quella che è giunta alla grande maggioranza delle persone, dentro e fuori la Chiesa. Il messaggio percepito praticamente da tutti è che Francesco è stato un papa diverso e divisivo. Diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, diverso e divisivo dal resto della gerarchia cattolica, alieno alle istituzioni della Chiesa (papato compreso).
Tale criterio, tuttavia, risulta a mio avviso largamente inadeguato a comprendere il senso di ciò che sta accadendo nella Chiesa, ed in particolare non aiuta a cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di papa Leone XIV, che mi pare stia invece emergendo con nettezza nei suoi primi discorsi; un tratto che è invece meritevole della massima attenzione per il suo valore paradigmatico, non solo sul piano dei contenuti ma anche, e direi soprattutto, su quello del metodo.
La Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. È un nomen relationis che si riferisce ad un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione,che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo. In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora; e proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta. Non è mai una "parola primaria" originata da un soggetto umano, ma sempre e comunque una "parola secondaria", in risposta ad un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda. Ne deriva che, in questo senso, la parola della Chiesa è sempre e solo parola ricevuta, perciò intrinsecamente "tradizionale". In quanto ricevuta, tale parola va custodita e trasmessa agli altri fedelmente, secondo la modalità limpidamente dichiarata da Paolo sin dai primordi della storia cristiana (quando ancora di passato alle spalle quasi non ce n’era): «vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3). Definire la parola ecclesiale come parola ricevuta significa anche affermare che la Chiesa – a tutti i suoi livelli, papa compreso! – non ha alcuna potestà su di essa: la serve, non se ne serve. Non può dunque disporne come vuole, ad esempio per renderla più idonea ad incontrare la mentalità e le attese della società contemporanea, così come noi le intendiamo. A differenza del suo predecessore, Leone non ci darà da temere che faccia il papa "di testa sua", e questo è decisivo. Lo ha chiarito sin dall’inizio, quando, richiamandosi ad una frase di Ignazio di Antiochia (ma riecheggiando riflessioni che a suo tempo aveva fatto anche Benedetto XVI), ha definito «un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità [quello di] sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo».

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