Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

giovedì 23 febbraio 2017

7Q5: una conferma alla storicità dei Vangeli di Venator

Risultati immagini per i rotoli del mar morto
Sono ormai passati quasi settantantʼanni dalla scoperta, avvenuta nel 1947, dei celeberrimi papiri di Qumran eppure non ancora tutte le controversie accademiche sono state risolte. Oggi cʼè un generale accordo degli studiosi su molte delle questioni che concernono lʼidentificazione degli abitanti del sito di Khirbet Qumran (“le rovine di Qumran”), tuttavia vi è ancora un piccolo frammento papiraceo, rinvenuto nella grotta 7 (il cosiddetto 7Q5), che fa vivamente discutere gli studiosi dal 1972, cioè da quando per la prima volta il papirologo spagnolo e padre gesuita José OʼCallaghan, poi sostenuto dal protestante Carsten Thiede, propose di identificarne il testo con un passo del Vangelo di Marco (Mc 6, 52-53). Ma per comprendere quale sia la pietra dello scandalo che divide il mondo accademico in due schieramenti avversi è necessario fare alcune premesse di carattere essenzialmente storico.

 
IL LUOGO DELLA SCOPERTA 
La località di Qumran, nellʼantichità conosciuta col nome di Sokoka, si trova sulla costa nord-occidentale del Mar Morto. Qui una falesia calcarea sovrastante di 350 metri il lago Asfaltide presenta sulle pareti numerose grotte naturali che hanno costituito il rifugio sicuro del “tesoro” della comunità di Qumran per quasi duemila anni. La «biblioteca» custodita nelle grotte dei manoscritti di Qumran comprendeva una collezione di circa 800 rotoli. A partire dalla fine della prima metà del XX secolo hanno iniziato a comparire sul mercato nero alcuni di questi manoscritti che alcuni beduini avevano fortuitamente scoperto inseguendo alcune capre disperse e che, fiutata la possibilità di ricavarne un poʼ di denaro, avevano prontamente venduti ad un mercante di Betlemme. Da allora fu una corsa a chi sarebbe riuscito ad accaparrarsi per primo altri manoscritti probabilmente ancora nascosti nelle vicine grotte che alla fine risultarono essere undici. I testi, contenuti entro giare di terracotta, presentano talvolta notevoli differenze tra loro sotto numerosi aspetti: il materiale scrittorio è di volta in volta la pergamena, il papiro, o addirittura una laminetta di rame; la lingua è ora lʼebraico, ora lʼaramaico, il greco o il latino (un sigillo), forse il nabateo. I vari documenti sono classificati sostanzialmente in tre categorie: scritti biblici veterotestamentari, apocrifi (comprendenti anche gli scritti pseudoepigrafici del Vecchio Testamento dei protestanti) e tutta la letteratura propria della setta che abitava Qumran (si tratta di scritti come la “Regola della Comunità”, la “Regola della Guerra”, commenti a vari libri biblici, ecc.). 
UNA STRANA COMUNITÀ 
Ma chi erano dunque gli appartenenti a questa setta? Oggi la maggioranza degli studiosi concorda nel ritenere i qumraniani degli esseni, una delle correnti del giudaismo antico, ancora presenti allʼepoca di Gesù, di cui abbiamo ben poche informazioni da parte degli storici dellʼepoca (ce ne parlano Flavio Giuseppe, Plinio e Filone Alessandrino). Le tracce del primo insediamento esseno a Sokoka risalgono al 152 a.C. quando il Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme fu deposto dai Seleucidi, che allora occupavano la Palestina, dal suo incarico e sostituito da Gionata Maccabeo. Il potere civile si intrometteva negli affari di culto del popolo giudaico e soprattutto poneva a capo della gerarchia religiosa un uomo che, stando alla tradizione religiosa, non avrebbe mai potuto occupare tale carica in quanto non appartenente alla famiglia sacerdotale che deteneva quella prerogativa. Il Sommo Sacerdote spodestato è probabilmente da identificare con il Maestro di Giustizia di cui parlano i manoscritti, fondatore della comunità di Qumran, seguito da numerosi fedeli con i quali visse ritirato nel deserto in una sorta di esilio in attesa della “Fine dei Tempi”: dai documenti esseni appare infatti con chiarezza che il pensiero della comunità era fortemente rivolto allʼeschaton, alle cose ultime. Lʼoccupazione della zona da parte della comunità “monastica”, perseguitata dal “Sacerdote Empio” di Gerusalemme, si concluse nel 68 d.C., quando lʼesercito romano comandato da Tito Flavio Vespasiano, futuro imperatore, distrusse lʼinsediamento, nel contesto di una generale riorganizzazione della Palestina. È proprio in questa occasione che i manoscritti furono riposti nei nascondigli naturali presenti nelle vicinanze del sito per evitare che fossero distrutti dalla furia iconoclasta dei Romani: la loro datazione non può dunque essere posteriore a questa data. Diventa così chiaro quale sia il grande problema che lʼaffermazione di OʼCallaghan ha sollevato: se il frammento 7Q5 si può identificare con un passo del Vangelo di san Marco, allora bisogna ammettere che questo sia arrivato alla comunità prima del 68 d.C., circa una trentina (e forse anche meno) di anni dopo la morte di Gesù Cristo. Se si considera inoltre che non si trattava certo dellʼoriginale ma di una copia, e che quindi si deve tenere conto anche del tempo necessario perché il testo arrivasse a Qumran, si può ritenere che la stesura di questo Vangelo sia avvenuta a pochissimi anni di distanza dalla morte di Nostro Signore. Questo conferma con forza la storicità dei Vangeli, poiché se la narrazione evangelica non fosse nientʼaltro che una favola, se Gesù non avesse operato miracoli, se non fosse realmente risorto (come più volte anche oggi da parte “cattolica” si è sostenuto), allora i testimoni oculari, ancora in vita allʼepoca della diffusione di questi scritti, avrebbero sicuramente potuto confutare tutte le eventuali menzogne da essi diffuse. Tuttavia anche di fronte allʼevidenza e a studi che hanno dimostrato con prove schiaccianti ed incontrovertibili lʼidentificazie di 7Q5 con Mc 6, 52-53 sono ancora numerosi gli studiosi che ideologicamente vi si oppongono, così come non sembrano volervi cedere i sostenitori delle tesi “demitologizzatrici” di Bultmann.
 UN AFFASCINANTE ENIGMA 
Ma analizziamo adesso con più precisione come è fatto questo controverso frammento papiraceo. OʼCallaghan era rimasto subito molto colpito da una rara ed intrigante combinazione di lettere alla linea 4: nu/nu/eta/sigma (-nnes-). I primi editori del papiro pensarono che questa combinazione di lettere facesse parte della parola greca egénnēsen che significa “generò” e che fosse quindi da attribuire ad una delle tante genealogie che costellano lʼAntico Testamento. Il problema è che un tale testo, il quale dovrebbe permettere lʼinserimento al suo interno e lʼidentificazione anche delle altre lettere preservate sul 7Q5, non esiste in tutta la restante letteratura greca, e non solo quella biblica. Non cʼè insomma un solo testo che si adatti alle parole che si possono leggere sul nostro papiro! OʼCallaghan, incuriositosi, si sforzò di trovare tutte le parole greche che contenessero al loro interno la suddetta sequenza di lettere. Dopo aver escluso tutte le parole che non avrebbero potuto adattarsi al contesto, ebbe la brillante idea di provare con il nome greco del famoso lago di Galilea: Gennesaret. Ed è qui che iniziano i problemi di padre OʼCallaghan in quanto esiste una sola occorrenza di questo termine nella versione greca delllʼAntico Testamento, la cosiddetta versione dei Settanta: il libro deuterocanonico di 1 Maccabei 11, 67 (in cui si descrive la ribellione del popolo ebraico, capeggiato dalla famiglia dei Maccabei, contro lʼoccupazione del sovrano ellenistico). In tutti gli altri passi lo si nomina chiamandolo Chenereth o Chenara. Tuttavia il 7Q5 resistette anche allʼidentificazione con il passo di 1 Maccabei, nessuna delle lettere del papiro infatti coincideva con questo passo delle Scritture. Nonostante lo scetticismo, non rimaneva che tentare con il Nuovo Testamento. Con grande stupore 7Q5 si adattò perfettamente a due versetti del Vangelo secondo san Marco: il 52 e il 53 del sesto capitolo. «Ed erano tutti stupiti dentro di sé, perché non avevano capito il miracolo dei pani; il loro cuore era insensibile. Compiuta la traversata, giunsero alla terra di Gennesaret ed attraccarono lì». Dopo lʼannuncio di questa scoperta numerose sono state le voci che in coro si sono levate dal mondo accademico per “condannare” le teorie di OʼCallaghan, il quale ha tuttavia trovato supporto in studiosi di prima categoria come Orsolina Montevecchi, Professoressa Emerita di Papirologia presso lʼUniversità Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Presidentessa Onoraria dellʼInternational Papyrologistsʼ Association, e lʼanglicano Carsten Peter Thiede, professore universitario e papirologo di fama internazionale. Ma quali sono le maggiori difficoltà per lʼidentificazione di questo papiro sollevate dai detrattori di OʼCallaghan? La prima dipende dalla sticometria di 7Q5. Cosa significa? Che tutti i papiri letterari, come i papiri biblici, erano scritti da scribi professionisti i quali facevano uso di calligrafie molto regolari. Questo significa che la larghezza del foglio di papiro determinava in maniera piuttosto precisa il numero di lettere che potevano essere scritte su ogni riga. Nel caso del nostro papiro si è calcolata una media di circa ventun lettere per linea, lettera più lettera meno. Questo calcolo si fonda su basi scientifiche proprio perché ricorre alla precisione con cui questi manoscritti venivano stilati. Se le cose stanno così ed applichiamo il conto alle lettere presenti sul frammento papiraceo appare evidente che non cʼè spazio per tre parole greche presenti in Mc 6, 53. Si tratta di epí tén gén, cioè “sulla terra”. Ovviamente lʼaggiunta di un così alto numero di lettere comprometterebbe la regolarità e lʼuniformità del testo. Molti studiosi hanno fatto ricorso a questa argomentazione per screditare il lavoro di OʼCallaghan. In realtà questo indizio, che a prima vista sembra inficiare lʼidentificazione proposta, porta in sé unʼulteriore conferma della storicità dei Vangeli. Lʼunica ragione per cui le parole epí tén gén sono presenti nei nostri Vangeli - editi per altro a partire da manoscritti del secondo, terzo e addirittura quarto secolo d.C. - è lʼevento cataclismatico della rivolta giudaica contro i Romani, che terminò con la distruzione di Qumran nel 68 d.C., di Gerusalemme e del suo tempio nel 70, e di Masada nel 73/74. Tra le altre città razziate dai Romani cʼè quella di Gennesaret, o Kinneret, recentemente scoperta dagli archeologi proprio nella regione indicata dal Vangelo di san Marco. La particolare espressione epi ten gen ... eis Gennesaret (“sulla terra ... verso Gennesaret”) divenne necessaria dopo la distruzione dellʼarea abitata che aveva lo stesso nome del lago, così da evitare confusione. Prima della distruzione (70 d.C.) queste tre parole sarebbero risultate un puro pleonasmo, tanto più che la località di Gennesaret era a distanza di una giornata di viaggio da Cafarnao, dove Gesù e i suoi discepoli avevano vissuto per un certo tempo. In un papiro anteriore al 70 a.C. non solo non dovremmo stupirci della mancanza di questa parole ma addirittura dovremmo aspettarci la loro assenza! La seconda difficoltà è di tipo linguistico. Nella prima riga dopo il kai (“e”) iniziale ci aspetteremmo il verbo diaperásantes (“avendo compiuto la traversata”). Tuttavia invece della d (delta) si trova una t (tau). Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un apparente incongruenza che, ad unʼanalisi attenta, porta invece a corroborare ulteriormente la tesi di OʼCallaghan. Bisogna forse ammettere un semplice errore ortografico, o vi è una spiegazione più plausibile? La risposta ci viene direttamente da Gerusalemme, sede della prima comunità cristiana. Quando Erode il Grande ricostruì il Tempio, fece piazzare sul secondo muro unʼiscrizione che proibiva, sotto pena di morte, lʼentrata ai non-giudei. Lʼiscrizione viene menzionata dallo storico Flavio Giuseppe: «Nessuno straniero deve oltrepassare la balaustra e lʼargine attorno al santuario. Chiunque venga colto [nel trasgredire a questʼordine] dovrà biasimare sé stesso per la morte che ne seguirà». Due copie letterali di questa pietra sono state trovate dagli archeologi e si trovano oggi una ad Istanbul e lʼaltra al Museo Rockfeller di New York. La grafia è sconvolgente: alla linea 1 la parola greca medena (“nessuno”) è scritta methena; e alla linea 3 al posto di dryphakton (“balaustra”) troviamo tryphakton. Ovviamente lo scriba aveva delle difficoltà nel percepire la differenza tra la d e la t. La dizione tryphakton si adatta perfettamente al nostro caso in cui cʼè uno scambio tra le stesse consonanti proprio ad inizio di parola. Non si tratta dunque di un errore accidentale, ma dovuto ad unʼerrata pronuncia della lingua greca nelle zone di area siro-palestinese. Resta da analizzare lʼultimo e più controverso fattore. Alla linea 2 ci dovrebbe essere autón (“il loro” riferito allʼespressione evangelica «ma il loro cuore era insensibile») ma si fatica a distinguere il tratto conclusivo della n (nu) e molti studiosi hanno proposto di leggere autói (“a lui”) che ovviamente escluderebbe la possibilità di identificare il papiro con il Vangelo di Marco, non supportandone questa lettura. Lʼultima analisi al microscopio elettronico cui questo papiro è stato sottoposto, però sembra confermare la presenza del tratto di inchiostro che completa la n di autón. Si tratta insomma di una vera e propria presa di posizione ideologica anche perché, come il Prof. Thiede evidenzia nel suo libro The Jesus Papyrus, nel campo della papirologia non bisogna mai abbandonare il buon senso. Spesso vengono proposte identificazioni, accettate unanimemente dalla comunità scientifica, di frammenti papiracei che presentano letture molto più incerte di 7Q5. Il professor Harald Riesenfeld dellʼUniversità di Uppsala, luterano convertitosi al cattolicesimo, disse in unʼintervista rilasciata a “Il Sabato”: «Certo, la fede non è fondata né originata da questa scoperta scientifica. Ma con quel ragionamento si oppone la ragione dellʼuomo alla fede quasi che la fede potesse sussistere anche nellʼassurdità completa. Dio invece è entrato nella storia proprio rivolgendosi alla ragione dellʼuomo e questo continua a verificarsi nella Chiesa». 
“NON CʼÈ PEGGIOR SORDO...” 
Si rimane esterrefatti di fronte alle affermazioni di personaggi di spicco della Chiesa Cattolica, come il Card. Walter Kasper che vede nei Vangeli «una tendenza ad amplificare e moltiplicare i miracoli» e «le loro proporzioni». Il presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dellʼUnità dei Cristiani sostiene inoltre che «alcuni racconti miracolosi si sono dimostrati, allʼindagine della storia delle forme, come proiezioni dellʼesperienza pasquale sulla vita terrena di Gesù», e che insomma «molte storie miracolose riferiteci dai Vangeli devono essere considerate leggendarie». A fronte di queste eresie, condannate dal Concilio Vaticano I, il Prof. Thiede spiega: «È importante trovare degli argomenti storici, archeologici, letterari, per spiegare allʼuomo di oggi che la sua fede si fonda su un avvenimento accaduto nella storia reale dellʼuomo. E documentare attraverso qualche papiro di Qumran che i primi cristiani erano persone reali, che il Vangelo, le lettere di Paolo sono documenti reali, scritti quando queste cose sono accadute, è un primo passo per comprendere la storicità delle parole e delle azioni di Gesù Cristo. Così che, quando si guarda insieme il Gesù della fede e quello della storia, ci si accorge di guardare due aspetti dello stesso uomo concreto. E si può avere unʼimmagine più completa dellʼuomo più importante della storia, lʼunico che ha proclamato di essere Dio». Nel 1994 lʼultima parola allʼinterno di questo infinito dibattito sembra essere stata quella di una della più grandi personalità della papirologia del secolo scorso, Orsolina Montevecchi, che ha riassunto il risultato della sua analisi in una singola inequivocabile frase: «Non credo possano esserci dubbi circa lʼidentificazione del 7Q5». Una conferma insomma allʼassoluta storicità dei Vangeli, come san Luca volle sottolineare nel prologo del suo Vangelo: «Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiutisi in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati testimoni oculari, e son divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, fin dalle loro origini, narrarle per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto». 

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