(di Fabio Cancelli fonte corrispondenza romana)
Si era agli inizi del Pontificato del Papa latino-americano e sociologi, psicologi e operatori pastorali vari si affaccendavano a spiegare, statistiche alla mano, quello che si impose come «effetto Francesco». Cioè, si tentava di dimostrare che non solo il cambio di pontificato era completamente in continuità con quello di Benedetto XVI, ma che addirittura cresceva la domanda circa i sacramenti e la partecipazione alle Messe domenicali.
Si poteva star sereni perché la Chiesa andava a gonfie vele. Non sappiamo quanto gonfie fossero già allora quelle vele, ma sta di fatto che quel cosiddetto «effetto Francesco» finì presto col significare tutt’altro. Gli analisti della prima ora ci dicevano che Francesco era un gesuita conservatore e che nella sua Argentina peronista aveva alzato più volte la voce per domare sentimenti e aperture da teologia della liberazione. Fu certamente anche così, ma sicuramente non per dire che la teologia della liberazione fosse intrinsecamente sbagliata e fuorviante, ma per riportare quegli sconsiderati gesuiti ribelli a un pensiero più moderato, meno progressista.
Per Francesco, infatti, esistono due teologie della liberazione, una buona e una cattiva. Quella cattiva sarebbe l’applicazione del marxismo alla teologia, che finisce inesorabilmente nel conflitto armato e nella lotta di classe; quella buona, invece, una genuina “teologia del popolo”, che prende quanto di meglio vi è dalla teologia della liberazione, per esprimere il desiderio di stare dalla parte dei deboli e di lottare con loro, contro ogni forma di schiavitù e di predominio.
Nella sua ultima intervista a El País, proprio questo Francesco ha dichiarato a proposito della teologia della liberazione: «È stata una cosa positiva in America Latina. È stata condannata dal Vaticano la parte che ha optato per l’analisi marxista della realtà». Quanto a dire, le intenzioni erano buone ma poi le applicazioni, spesso o meglio sempre, sono scadute nell’ideologia comunista. È tipico del personaggio dare un giudizio separando le buone intenzioni dai risultati, così che la realtà appare non in bianco o nero, ma con tante sfumature di grigio.
Un altro esempio, è il giudizio che Francesco dà della Rivoluzione luterana. Lutero, a suo parere, non voleva dividere la Chiesa ma riformarne i costumi. Così anche in ambito ecumenico, saremmo già uniti idealmente a tutti i seguaci della Riforma, perché insieme ci sforziamo di camminare verso il traguardo dell’unità, anche se bisogna ancora risolvere qualche problemino riguardante la dottrina, che meglio si direbbe teoria cristiana. Così egli separa abilmente le buone intenzioni dei Riformatori, di allora e di oggi, dai risultati e dalle divisioni avutesi. Queste sono – quasi sempre – un disastro, ma quelle erano buone.
Questa teologia delle buone intenzioni permette a Francesco di stare in mezzo, per così dire, tra il bianco e il nero: si apprezza Lutero e si criticano le divisioni. Ma è questa la verità? Un Lutero tradito? Una teologia della liberazione tradita? No, il vero problema è che una realtà non si giudica dalle intenzioni, ma dai fatti. Non bastano le intenzioni, per quanto buone e belle, a darci la verità su un evento o per giudicare la moralità di una situazione.
Altrimenti si arriva ad un altro impiccio gravissimo: tra il bianco del sacramento del matrimonio e il nero del divorzio, c’è l’etica della situazione, che permette, in determinate circostanze e dopo un lungo discernimento, di scegliere il grigio, cioè di accostarsi alla Comunione. Così sembra di stare in mezzo, di non apparire né conservatori né progressisti riguardo alla teoria della fede. Di stare con il popolo, di essere dalla parte dei poveri. Con i reietti esclusi dalla gerarchia: i divorziati risposati. Purtroppo però le buone intenzioni non salvano nessuno. Anzi, di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno.
Presto l’«effetto Francesco» ha incalzato i credenti, che sempre più smarriti si chiedono cosa veramente sta succedendo nella Chiesa. Alla tentazione continuista di dire che tutto ciò che dice e fa Francesco proviene dallo Spirito Santo, si accompagna anche quella del sedevacantismo, una risposta che sembra la più convincente nello smarrimento presente. Se il ministero petrino è la roccia salda su cui Cristo ha stabilito la sua Chiesa, perché in questo Papa la roccia si è sgretolata? Due sembrano essere le soluzioni: o Pietro è la roccia e conferma nella verità i suoi fratelli, o, visto che tra una sfumatura e l’altra favorisce dottrine eretiche, questo Papa non è Pietro. O, in modo più soft, non è validamente eletto (anche se questo è tutto da provare, con testimonianze di dominio pubblico).
La conclusione è che o Benedetto XVI è ancora il Papa regnante ma a riposo, o la sede è del tutto vacante, in attesa che qualcuno si accomodi. In realtà il problema è più sottile, perché, secondo la teologia. è possibile che un Papa validamente eletto cada in errore e perfino in eresia. La tesi di scuola di un Papa eretico, oggi sembra non essere più un’ipotesi di lavoro. Ad ogni buon modo, il diventare eretico di un Papa non contraddice la sua infallibilità, perché ovviamente lo diventerebbe non ex cathedra – sarebbe una contraddizione in termini – ma solo quando, appunto, rifiutando il suo carisma petrino di confermare infallibilmente i suoi fratelli nella fede, si barcamena come privato maestro in sentieri pericolosi e modernisti.
Qui il Papa si toglierebbe l’anello del Pescatore e indosserebbe il suo sombrero. E se confermasse esplicitamente l’eresia, non sarebbe più papa, ipso facto. Sedevacantismo a parte, questo Papa ha sgretolato tante certezze. Quella certezza che Pietro fosse sempre la Pietra della Chiesa e che l’eresia fosse solo un caso di scuola, è oggi drammaticamente venuta meno.
Un «effetto Francesco» c’è, è indubitabile, ma cosa vorrà insegnare ai cattolici, ora smarriti proprio a causa del Papa? Francesco, se si vuole vedere la realtà nella sua crudezza, appare come un castigo per la Chiesa. Ma come si sa, Dio castiga non per perdere ma per correggere, per insegnarci qualcosa che avevamo dimenticato. E allora proprio in questa logica della divina Provvidenza, che guida sempre la Chiesa e ogni fedele alla salvezza eterna, dobbiamo imparare a leggere in modo sapiente questo cosiddetto effetto.
Proviamo a pensare a quel pane che si nasconde sotto la neve, a quel richiamo amoroso e paterno che accompagna le percosse giuste e misericordiose di Dio. Assistendo giornalmente allo sgretolarsi della roccia di Pietro, possiamo imparare in modo nuovo e più convinto di prima perché Gesù ha istituito il Papato. Non per ragioni di potere, non per fini politici e ideologicamente militanti, ma per un semplice motivo: confermare i suoi fratelli nella fede.
Dopo anni di contestazione liberale e radicale del Papato, dopo tentativi ecumenici di ridisegnare il ministero del successore di Pietro, ora, in realtà, capiamo che staccarsi dalle parole di Gesù non provoca un balzo in avanti, ma un affossamento. La Chiesa è semplicemente il corpo mistico del Signore, il suo unico corpo salvifico. Pietro è per la Chiesa e non la Chiesa per Pietro. Dovevamo finalmente capire che la Chiesa è più grande di Pietro, lo precede nella sua istituzione, al servizio della quale Gesù ha voluto uno che lo rappresentasse. Ma se Pietro venisse meno al suo compito, non viene meno la Chiesa: il suo Sposo vigila perché il suo talamo rimanga inviolato. Sì, diciamolo a tutti i denigratori del Papato, di ieri e di oggi: Pietro è il servo della Chiesa e non la Chiesa serva di Pietro, e attraverso di lui serva delle ideologie del momento, assoggettata a tutti i venti di dottrine e alle mode passeggere.
Dobbiamo anche imparare che il Papa non ha un potere illimitato e autocratico. Il suo “potere” è un munus, un servizio alla verità del Vangelo, mediante l’obbedienza alla verità. Il Papa è sì al di sopra della legge, ma mai contro la legge. È al di sopra in qualità di supremo legislatore, ma non in qualità di giudice arbitrario. Il Papa è al di sopra della legge emanata in quanto la può modificare, ma il suo stesso ministero petrino è legiferato dai canoni e viene non da sé stesso ma da Cristo. «Prima sede a nemine iudicatur» vuole semplicemente esprimere che la Sede di Pietro è vicaria sulla terra della primazia di Cristo.
Se per motivi altri, Pietro si distanzia dalla primazia di verità di Cristo, la sua Sede è più sedia che santa. Il potere di Pietro, che è servizio e non arbitrio, è istituito da Cristo nel “ministero petrino” e si consolida con la fedeltà di Pietro al suo mandato di Roccia della fede. Il potere di Pietro perciò non è di natura politica, da consolidare con i consensi popolari. Francesco, avendo messo da parte il suo munus specifico di Pontefice, sembra che voglia farsi “portare” non dal diritto ma dal popolo.
Probabilmente per quella teologia della liberazione o del popolo che dir si voglia. In modo molto interessante, padre Spadaro, commentando la recente Pasquinata di Roma, diceva che il tentativo nascosto era di staccare Francesco dalla gente. Che Francesco voglia imporsi come leader mondialista è indubitabile. Il popolo però, la plebs sancta, dimostra di essere refrattario a chi, usando il suo potere e la sua immagine di Papa, pretende di giudicare la Chiesa. La migliore risposta che questo popolo darà a Francesco è riscoprire la mano dolce di Dio che percuote la Chiesa. La Chiesa ha bisogno del Papa. Ma soprattutto il Papa ha bisogno della Chiesa.
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