Lumen gentium
Questa dottrina è stata innovata, il 21 novembre 1964, dalla Costituzione su “La Chiesa” del Concilio Vaticano II Lumen gentium, n. 22. In essa si ripete parzialmente la dottrina tradizionale, che non riporto qui e tralascio tra parentesi quadre, ma si introducono anche delle novità, che riporto e poi commento in nota.
La Lumen gentium, n. 22 a-b, recita: “Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono un unico Collegio apostolico, allo stesso modo (pari ratione) il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra loro uniti. […]. Ecco il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale, i concili ecumenici comprovano apertamente tale natura collegiale dell’Episcopato. Tale natura è suggerita anche dall’antico uso di far partecipare più Vescovi alla consacrazione di un futuro Vescovo. Uno è costituito membro del Corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale. […]. L’ordine dei Vescovi, che succede al Collegio degli Apostoli nel magistero e nell’impero […] è pure soggetto di suprema (cioè, la più alta, che non ha eguali, ndr) e piena (totale o assoluta, cui non manca nulla nel suo genere e che può tutto da sola, ndr) potestà su tutta la Chiesa (subiectum supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam)”.
La Nota explicativa praevia
Siccome il testo di Lumen gentium poneva dei seri problemi quanto alla sua ortodossia, Paolo VI fece aggiungere una Nota praevia (che invece fu messa dopo il testo, ossia era insieme “previa” e “posteriore”). La Nota praevia tuttavia non cancella le ambiguità e gli errori del testo di Lumen gentium ed anche in essa permane qualche ambiguità. Vediamole.
“Il Collegio non si intende in senso strettamente giuridico, ma è un ceto stabile. […] Uno diventa membro del Collegio in virtù della consacrazione episcopale, e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio. […]. Il parallelismo tra Pietro e gli Apostoli da una parte, e il Sommo Pontefice e i Vescovi dall’altra, non implica la trasmissione del potere straordinario degli Apostoli ai Vescovi. […]. Infatti deve accedere la canonica o giuridica determinazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Il Collegio dei Vescovi è anch’esso soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale. Il Collegio necessariamente e sempre cointende col suo capo […]. Il Romano Pontefice è il capo del Collegio e può fare da solo alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi”.
Come si vede la Collegialità (Lumen gentium, n. 22) è imparentata, anche se in maniera più sfumata o mitigata (grazie alla Nota praevia, che da una parte ha ribadito la sottomissione del Corpo episcopale al Papa, ma dall’altra ha mantenuto l’ambiguità del duplice soggetto adeguato, necessario e permanente del supremo potere di magistero e giurisdizione nella Chiesa universale), al conciliarismo o gallicanesimo mitigato, il quale tende ad assegnare al Concilio ecumenico una potestà suprema sulla Chiesa universale eguale a quella del Papa (cum Petro sed non sub Petro).
La Collegialità episcopale di Lumen gentium, grazie alla Nota praevia, non arriva a tanto, però fa pur sempre del Corpo dei Vescovi, “col Papa e sotto il Papa” (Nota praevia), un “ceto stabile e necessario” avente “potestà suprema di giurisdizione e di magistero sulla Chiesa universale”, ma per la sola o antecedente consacrazione episcopale (novità che intacca il Primato di Pietro), senza ribadire che la giurisdizione – secondo la dottrina tradizionale – viene da Dio tramite il Papa al Vescovo e poi il nominato viene consacrato. La dottrina tradizionale ha sempre parlato di episcopato monarchico o di episcopato subordinato, ossia sottomesso a Pietro come il corpo al capo, mentre con Lumen gentium si inizia a parlare di episcopato collegiale.
Durante il Concilio Vaticano II la dottrina della Collegialità episcopale, che attribuiva al Corpo dei Vescovi, del quale il singolo entra a far parte con la sola o antecedente consacrazione episcopale unito al suo capo (Nota praevia) il Papa, un potere e una responsabilità stabile sulla Chiesa intera e non solo sulla singola diocesi del Vescovo, era ritenuta – da vari Cardinali e Vescovi, tra cui Siri, Staffa, Carli, Parente – «recante detrimento al potere primaziale del Papa ed essi contestavano che avesse solide basi nella S. Scrittura» (H. Jedin, Breve storia dei concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 240).
Infatti alcuni Cardinali e Vescovi, durante il Vaticano II, fecero notare che la Collegialità episcopale ritiene che il Vescovo consacrato diventa per ciò stesso (per il solo potere d’ordine veniente dal Vescovo consacrante e senza prima il potere di giurisdizione, che viene dal Papa) membro del Corpo episcopale, avente quindi in forza della consacrazione anche la giurisdizione e che “assieme al Papa e mai senza” (Nota praevia) esso possiede la suprema potestà in maniera abituale, necessaria e non transeunte o temporanea sopra tutta la Chiesa (cfr. H. Jedin, Breve storia dei concili, cit., p. 243).
Per quanto riguarda la ‘Nota explicativa praevia’ (aggiunta “postuma” da Paolo VI alla dottrina della Collegialità espressa nella Lumen gentium, n. 22) essa nulla toglie alla dottrina della immediata origine divina, non tramite il Papa, dell’ufficio e del mandato episcopale, nonché della responsabilità abituale e permanente del Collegio episcopale sulla Chiesa universale e non sulla sola diocesi del singolo Vescovo (cfr. H. Jedin, Breve storia dei concili, cit., p. 265). Anche se si allontana dalla tesi formalmente ereticale del conciliarismo pure mitigato e non solo radicale, ribadendo che i Vescovi devono essere “col Papa e sotto il Papa”, mantiene l’ambiguità e la novità – in rottura con la Tradizione divino/apostolica e col Magistero costante ecclesiastico – del duplice soggetto stabile anche se non alla pari o non adeguato (Papa e Corpo dei Vescovi) della somma potestà di magistero e di imperio nella Chiesa universale.
Tra i progressisti il card. Franz König fu uno dei paladini principali (coadiuvato dai giovani teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger) della Collegialità vescovile contro il Primato petrino. Secondo lui i Vescovi non ricevono la giurisdizione dal Papa per missione canonica, ma direttamente dalla consacrazione vale a dire da Dio stesso, onde essi sono assieme al Papa il soggetto adeguato o alla pari del potere di giurisdizione; mentre per la dottrina cattolica il soggetto del magistero e dell’imperium è il Papa, che – se vuole – può associare a sé ad tempus e non alla pari il ‘Corpo dei vescovi’ sparsi nel mondo o riuniti in Concilio.
König già nel 1964 a Costanza dove si commemoravano i 550 anni del Concilio ivi svoltosi cercò di contrapporre il conciliarismo o l’episcopalismo di Costanza-Basilea: due errori condannati da Giovanni XXII, secondo i quali il Papa non è essenziale alla Chiesa e può essere giudicato dal Concilio, che è superiore a lui, onde l’organo supremo del regime ecclesiastico non è il Papato, ma il Concilio ecumenico, costituito anche da soli vescovi uniti in Concilio senza il Papa, i quali ricevono il potere direttamente da Dio e costituiscono l’autorità suprema della Chiesa, superiore al Papa; solo la Chiesa è infallibile e indefettibile, onde, se il Papa e i Vescovi errassero, resterebbe sempre qualche anima pia che manterrebbe la Fede e la sussistenza e continuità della Chiesa. Il precursore del Concilio di Costanza fu il Gersone e da Costanza/Basilea derivarono le eresie di Wyclif e Hus, condannate in maniera definitiva dal Vaticano I, DB 1830.
Secondo König Costanza/Basilea e Vaticano I sono i due estremi (‘tesi-antitesi’) che impoveriscono la Chiesa, la ‘sintesi’ di essi sarebbe il Vaticano II, che non ha espresso la dottrina della collegialità in maniera così radicale come a Costanza e neppure il Primato di Pietro e suoi successori, in maniera così stretta come nel 1870 al Vaticano I. Il Vaticano II era per lui una sorta di coincidentia oppositorum o di sintesi, che equilibrava Costanza (tesi) col Vaticano I (antitesi), per darci il Vaticano II.
La dottrina del duplice soggetto del supremo e totale potere di magistero e impero nella Chiesa (e quindi di un duplice Capo della Chiesa) era già stata condannata da papa Clemente VI (29 settembre 1325) nella Lettera Super quibusdam ad Mekhithar patriarca degli Armeni (DS 1050-1065, De primatu Romanae Sedis).
La dottrina sulla Collegialità venne confutata dalla rivista diretta da mons. Antonio Piolanti “Divinitas” (n. 1 del 1964) tramite due articoli, di mons. Dino Staffa e di mons. Ugo Emilio Lattanzi, i quali vennero fatti distribuire in Concilio sotto forma di estratti dal card. Ottaviani.
La Nota explicativa praevia fu dovuta, secondo Alberigo (che cita come fonti mons. Prignon, Suenens, mons. Charue, mons. Gerard Philips e mons. Carlo Colombo), al fatto che «da due mesi a questa parte Paolo VI ha subito una fortissima pressione da parte dell’estrema destra. Sembra che si sia arrivati al punto di minacciare di far saltare il Concilio nel caso passasse il testo votato sulla Collegialità. Lo si è accusato come dottore privato di inclinare verso l’eresia».
Il claretiano card. Arcadio Maria Larraona il 18 ottobre 1964 inviò una lettera a Paolo VI in cui fra l’altro scrisse: «sarebbe nuovo, inaudito e ben strano che una dottrina [Collegialità episcopale], la quale prima del Concilio era tenuta come meno seria e meno fondata, passasse improvvisamente […] a divenire certa o addirittura matura per essere inserita in una Costituzione conciliare. Questo sarebbe cosa contraria ad ogni norma ecclesiastica, sia in capo di definizioni infallibili pontificie sia di insegnamenti conciliari anche non infallibili. […]. Lo schema [sulla Collegialità] cambia il volto della Chiesa. Infatti: la Chiesa diventa, da monarchica, episcopale e collegiale; e ciò in virtù della sola consacrazione episcopale [non parlando della giurisdizione, che viene al Vescovo tramite il Papa]. Il Primato papale resta intaccato e svuotato. […]. Il Pontefice romano non è presentato come la Pietra sulla quale poggia tutta la Chiesa di Cristo (gerarchia e fedeli); non è descritto come Vicario in terra di Cristo; non è presentato come colui che solo ha il potere delle chiavi. […]. La Gerarchia di Giurisdizione, in quanto distinta dalla Gerarchia di Ordine, viene scardinata. Infatti, se si ammette che la consacrazione episcopale porta con sé la Potestà di Ordine (sacerdozio) ma anche, per diritto divino, tutte e due le Potestà di Giurisdizione (magistero e governo) non solo nella propria Diocesi, ma anche nella Chiesa universale, evidentemente la distinzione oggettiva e reale tra Potere d’Ordine e Potere di Giurisdizione diventa artificiosa, nominale, capricciosa e paurosamente vacillante. E tutto ciò – si badi bene – mentre tutte le fonti, le dichiarazioni dottrinali solenni, tridentine e posteriori, proclamano questa distinzione essere di diritto divino. […] La Chiesa avrebbe vissuto per molti secoli in diretta opposizione al diritto divino […]. Gli ortodossi e i in parte i protestanti avrebbero dunque avuto ragione nei loro attacchi contro il Primato».
Come si vede la dottrina della Collegialità episcopale fu tacciata di favorire l’eresia da numerosi e valentissimi Cardinali, Vescovi (Ottaviani, Siri, Parente, Staffa, Carli) e da famosi teologi (Lattanzi, Piolanti) già durante il Concilio Vaticano II e nel post-concilio sino ai recenti studi di mons. Brunero Gherardini (Cfr. “Divinitas”, n. 2/2011, p. 188 ss.).
Per quanto riguarda l’ecclesiologia conciliare di Lumen gentium, non ostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che «Dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte».
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