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Il presepe. Storia, fede e segno di contraddizione – di Clemente Sparaco


Il presepe contestato

Sono ormai anni che si contesta l’opportunità del presepe nei luoghi pubblici, sostenendo, come per i crocifissi, che vanno rimossi per non discriminare le diverse sensibilità religiose o civili. E’ successo in Italia per iniziativa di alcuni Presidi, che lo hanno interdetto dalle scuole. E’ successo in Francia, a Nantes, dove il Tribunale amministrativo ne ha vietato la presenza negli uffici pubblici, in quanto “emblemi religiosi” incompatibili con il “principio di neutralità del servizio pubblico”.

Queste motivazioni cercano di darsi una dignità teorica, ma non esplicitano le ragioni profonde che animano il rifiuto.
Fra storia e fede

Il presepe (dal latino praesaepe = greppia, mangiatoia) è una rappresentazione della nascita di Gesù derivata da tradizioni medievali. A Napoli un presepe è menzionato in un documento del 1025 relativo alla Chiesa di S. Maria del presepe. A Greccio nel 1223 San Francesco d’Assisi ne realizzò uno con personaggi viventi, come racconta il cronista Tommaso da Celano.

Nel presepe si fondono fede e storia, simbolo e rappresentazione, consuetudini e tradizioni, mistica e religiosità popolare. C’è il richiamo ai racconti evangelici (i 180 versetti di Matteo e Luca, detti vangelidell’infanzia), ma anche a testi apocrifi, come il protovangelo di Giacomo (cui si deve la tradizione della nascita di Gesù in una grotta e la presenza dell’asino e del bue a riscaldarlo). C’è una sedimentazione di simboli che rimontano al Vecchio e al Nuovo Testamento: la mangiatoia, l’adorazione dei pastori, gli angeli nel cielo, il bue e l’asinello, i magi etc….

Tuttavia, quei racconti non sono cronaca di avvenimenti, ma predicazione del Cristo risorto. Ne rappresentano una sorta di anticipo o prefigurazione profetica nello stile del midrash ebraico. Ciò non significa che riferiscano fatti non storici, ma che il valore simbolico che vi attribuiscono è prioritario. Prova ne sia che fanno riferimento a personalità della storia ufficiale, come il Battista ed Erode, testimoniando di fatti, luoghi e tempi ben definiti, a partire dalla stessa data del 25 dicembre. Essa non ricalcherebbe, infatti, la data pagana del sole invitto, ma corrisponderebbe alla data effettiva della nascita di Gesù (lo ha sostenuto già nel 1958 un professore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Shemarjahu Talmon, ricostruendo le turnazioni sacerdotali al Tempio, in base al Libro dei Giubilei ritrovato a Qumran).

Il Presepe è anche tradizione popolare. Ad esempio, il presepe napoletano è una rappresentazione del Natale ambientata nella Napoli del Settecento, che si caratterizza per il dettagliato realismo dei particolari. Non è un solo un simbolo religioso, ma luogo metastorico in cui s’identifica un’intera comunità. Vi convengono personaggi popolari, osterie e commercianti, case tipiche dei borghi agricoli, messi assieme con un anacronismo che potrebbe sembrare ingenuo. Perché l’anacronismo non è un tradimento di quello che il presepe intende rappresentare, sottintendendo la volontà di rendere presente l’evento della natività di Gesù, di farne memoria. In tal caso, esso interpreta correttamente i vangeli dell’infanzia, il cui intento è di indicare – come ha sostenuto J. Bowker – “il modo in cui Dio si inserisce nella storia umana, imprimendole una svolta di redenzione e rinnovamento”.

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Il presepe segno di contraddizione

Viviamo una condizione di generale disorientamento. Essa è il punto d’arrivo d’un lungo percorso destrutturante, che ci ha portati, in primis, a non custodire più la memoria del passato. L’Europa, che ha rinnegato le proprie radici, ha ridotto, infatti, i simboli a simulacri e ha cancellato tradizioni e valori. La nostra memoria – ha scritto il sociologo-filosofo Zygmunt Bauman – “somiglia sempre più al nastro di una videocassetta, cancellato ogni volta che si vuole registrare un nuovo avvenimento”.

Ma l’esistenza senza la dimensione della memoria si riduce ad un presente intemporale e vacuo, senza futuro e senza speranza.

Ci muoviamo, pertanto, come in labirinto, in un intrico di vie da percorrere, entro le maglie di una rete, di un reticolo di connessioni simili a quello del web, della “ragnatela” di Internet. I fatti, i personaggi del passato e del presente formano un aggregato di notizie senza spessore e senza connotazione storica, un grappolo di accadimenti nel tempo che non costituiscono un evento. Appiattita la verticalità della vita al livello del momento e dell’episodio, il nostro orizzonte è ormai di un’immanenza totale. Pertanto, l’attesa messianica di una redenzione è stata sostituita da un desiderio di novità inessenziale e fine a se stesso.

A fronte di tutto questo si capisce il senso del rifiuto del presepe, che più in profondità è disperazione circa la possibilità che qualcosa di effettivamente nuovo possa accadere. E’ incapacità di liberarsi di una routine tanto accomodante nell’ordine del quotidiano, quanto vuota di occasioni per riflettere sul senso dell’esistenza. E’ ancora incapacità di rompere la compressione del nostro io, quell’autocompiacimento di noi stessi e della nostra presunta libertà che nasce da un colossale fraintendimento.

Il presepe è allora segno di contraddizione, né più e né meno della croce e di tutto quanto riguarda l’evento Cristo. “Sempre di nuovo – ha scritto J. Ratzinger nel suo L’infanzia di Gesù -, Dio stesso viene visto come il limite della nostra libertà, un limite da eliminare affinché l’uomo possa essere totalmente se stesso. Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo ed alla sua superbia”. Perché la nostra vita è, sì fragile e precaria, ma è redenta da un disegno di amore infinito.

fonte Riscossa Cristiana

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