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« Credo nella Scienza » …o nel consenso emotivo? Moralità del “credere” ai dati scientifici




 di Don Stefano Carusi


fonte Disputationes theologicae

« Io credo nella scienza », « bisogna credere nella scienza », ecco le frasi che risuonano oggi ad ogni pie’ sospinto per richiedere o giustificare il proprio aprioristico assenso ad un insieme di dati “scientifici”, compresi quelli che talvolta non possono essere conosciuti se non da pochissimi esperti e forse con certezza nemmeno da loro.
Di fatto oggi si assiste, su uno sfondo di interessi stratosferici, alla fusione di una supposta “Fede nella Scienza” con l’emotività sapientemente condotta dalle briglie dei Media, cui si tributa a sua volta un cieco assenso. Ed è proprio quello stesso consenso mediatico, che non risparmia il ricorso all’irrazionalità isterica, ad invocare incessantemente la copertura della “scienza” in cui « si deve credere ». Gli stessi che sofisticamente ci avevano insegnato fino a poco tempo fa che la “Scienza” (quella con la maiuscola) esclude ogni credo, men che meno in Dio, ci dicono oggi che bisogna « credere nella scienza » ed alcuni ecclesiastici sono persino giunti, nell’asservimento imperante ai poteri mondani, a dire che è grave peccato non obbedire alle tesi correnti “della scienza”.


Come è possibile che lo scientismo di matrice razionalista si stia sposando così bene con l’emotività d’ispirazione immanentista e quindi assai poco “razionale”?
La ragione profonda di questo matrimonio sta nella morte della filosofia del reale, quella del buon senso su cui si fonda la metafisica classica, e nello scientismo che, in fondo fin dalla sua nascita, ha bisogno per sopravvivere dell’immanentismo, ovvero di una fervida attività dell’io, creatore di realtà, che si sostituisce alla metafisica reinventando il reale, magari ricorrendo alla matematica laddove la matematica non ha molto da dire.
E’ così che i connotati dello scientismo diventano quelli di una vera e propria religione, religione rivelata in più, non certo da Dio, ma dagli organi che “rivelano” il pensiero corretto, esigendo l’assenso e creando il consenso. Questo processo, che a rigor di logica è antiscientifico, merita un lungo approfondimento, in quest’articolo concentriamo per il momento l’attenzione sull’asserzione ormai quasi dogmatica « io credo nella scienza » e sui suoi risvolti morali.

« Io credo…

Prima di tutto « io credo ». Cosa significa “credere”? Restando a livello naturale e senza voler entrare nel discorso sulla fede infusa che non è il nostro oggetto, si può affermare che “credere” vuol dire sottomettere l’intelligenza ad un oggetto non evidente in sé oppure evidente in sé, ma non a colui che crede.

Per fare qualche esempio possiamo pensare alla nostra data di nascita, mia madre ha evidenza che essa sia avvenuta il 3 gennaio, io no. Credo alla sua parola perché ella sa con certezza e non mi inganna.
Questa certezza viene detta “evidentia in attestante”. Ovvero mi fido di colui che attesta, il quale ha conoscenza diretta ed evidenza di quanto afferma. In ambito scientifico questo tipo di assenso è quello che viene da chi crede ad uno scienziato che ha fatto un esperimento il quale con certezza assoluta ha dato un risultato, risultato evidente e certo per lo scienziato, ma non per l’allievo che gli “crede”, perché “ha fede in lui”, in questo caso prudentemente.
Diverso è il caso in cui non ci sia nessuna prova certa nemmeno da parte dello scienziato che studia, in tal caso la certezza diminuisce, perché manca l’ “evidentia in attestante”. E’ il caso, ad esempio, di cosa ci sia al centro della terra, un dato che non è evidente a nessuno e non lo sarà per qualche tempo. Se affermo che c’è un nucleo incandescente lo faccio per fede, fede naturale in un’ipotesi scientifica che, presente in tutti i libri di scuola, è diventata “consenso”, forse anche credibile, ma che resta ipotesi per lo studioso che se l’è inventata e che ci crede non per “scienza” in senso stretto, come vedremo. Affermazione che rimane ipotesi per lo scienziato e per l’allievo che ha deciso di credergli. In questo caso, rispetto al caso precedente, gli atti di fede sono almeno due, il primo è quello dello scienziato alla propria teoria - sia essa fondata - il secondo è quello dell’allievo che a sua volta crede allo scienziato. Se poi c’è una catena d’intermediari gli atti di fede si moltiplicano. Se poi tutta una “comunità scientifica” ha deciso di credere all’ipotesi non dimostrata da nessuno, ci sono tanti atti di fede almeno quanti sono gli scienziati “credenti” al nucleo incandescente che nessuno ha mai visto, né perforato con esperimenti di carotaggio, ma solo ipotizzato in ragione di alcuni “effetti”.
Qui per completezza va ricordato anche un fenomeno che di scientifico ha ben poco, infatti la pretesa dello scientismo di dare risposte a tutto soffre di dover tacere su questioni fondamentali, quindi davanti ad alcuni misteri della natura non ancora chiariti preferisce aver fede in un’ipotesi e se necessario uniformare il consenso di fede. Un po’ come ammisero tempo fa alcuni scienziati: « Dobbiamo credere al darwinismo - anche se le prove sono scarse - perché altrimenti non resta che il creazionismo », ma siccome la Creazione è un’ “eresia” condannata dal loro dogma, non ci si può nemmeno riflettere…

Semplificando potremmo dire che quando non ho evidenza di un’ipotesi di studio, non ho visto, conosciuto, studiato e dimostrato personalmente la tal cosa, quando non ho quindi un accesso diretto alla veridicità del tal enunciato, posso scegliere di “crederci”. La cosa per me non è evidente, la mia intelligenza tuttavia, il più delle volte in ragione dell’autorevolezza e della veridicità conclamata di chi mi propone a credere la tal cosa, per un intervento della mia volontà, si sottomette e dice - senza averne evidenza o senza averlo dimostrato - « credo », « ti credo », « ci credo ». Si badi bene il credere di fede naturale, riponendo fede in quel tale teste che mi comunica una cosa a me non evidente è un processo non solo legittimo, ma necessario alla vita quotidiana e lodevole, se prudente, così come sarebbe assurdo verificare ogni volta con analisi chimiche ciò che compro dal panettiere: mi fido di lui che è degno di fiducia sia perché sa quel che ha messo nel pane, sia perché ha sempre agito bene e senza inganni. L’affidabilità del teste evidentemente è premessa fondamentale del credere in ogni ambito, compreso quello “scientifico”.

…nella scienza »

Cosa si intende per “scienza” ? Per Aristotele, che parte dalla cosiddetta “filosofia del senso comune” (cfr. “Per il rilancio della filosofia perenne”), la scienza è la conoscenza certa per mezzo della causa necessaria. Scienza significa conoscere le cause proprie delle cose. In un giudizio di scienza quindi propriamente detta non « si crede ». Non si crede perché o si ha percezione immediata ed evidente della verità o si ha una dimostrazione razionale che esclude ogni dubbio. Conosco attraverso le cause necessarie, so che quella cosa necessariamente è causa della tal cosa e non di un’altra. In questo caso si parla di scienza propriamente detta, non di fede. So, non credo. Pur non escludendo diversi livelli nel rigore della dimostrazione a seconda dei diversi campi, nell’aristotelismo il procedimento propriamente scientifico si ha quando da una cosa nota giungo alla conoscenza di una cosa che prima non mi era nota e conosco il rapporto di causa-effetto necessario fra le due cose.

Per la visione di alcuni moderni, ma sarebbe meglio dire per il positivismo scientista ottocentesco, ampiamente superato, ma duro a morire nella sua retorica, la scienza è solo la descrizione di fenomeni attraverso il cosiddetto “metodo scientifico”. Ovvero, volendo raggiungere l’oggettività delle affermazioni, una volta osservato un fenomeno si cerca di creare un modello matematico che descriva il funzionamento del fenomeno in certe condizioni, si passa poi a verificare il suddetto modello con degli esperimenti per verificarne la validità. E’ evidente che tale “conoscenza scientifica” non è oggetto di fede. Non ci credo, la dimostro. Nessuno contesta che sia vera, si contesta solo che visti i “limiti matematici” che si impone, sottovaluta troppo le capacità astrattive dell’intelligenza umana davanti ad altri tipi di conoscenza e, essendo “scienza da laboratorio”, ci si passi l’espressione, vale solo quando determinate precisissime condizioni possono essere riprodotte.

Vero è tuttavia che non tutte le scienze, pur restando vere scienze secondo la loro graduazione e in rapporto all’oggetto e metodo proprio, sono riconducibili sic et simpliciter all’evidenza della verità o alla dimostrazione razionale necessaria, come direbbe Aristotele, o al metodo scientifico sperimentale con la sua reversibilità di verifica, riproduzione in laboratorio, linearità e chiarezza del ricorso alla matematica, come direbbe lo scientista. Non solo la stessa fisica sperimentale moderna ci ricorda oggi che non possiamo conoscere direttamente molti fenomeni, ma solo descriverne approssimativamente gli effetti (si pensi alla descrizione del comportamento dell’elettrone), ma vi sono scienze come la medicina e la biologia sperimentali, per esempio, le quali non possono maneggiarsi solo con criteri di necessarietà delle conclusioni. Esse infatti non sono in grado di risalire alle “cause” di tutti gli “effetti” e spesso possono solo ipotizzare, senza poter “riprodurre il fenomeno” anche perché esso presenta spesso troppe “varianti”. Vi sono più spiegazioni plausibili, quindi quando ci si trova nella necessità di scegliere o di costruire un sistema di studio, può anche legittimamente intervenire nel processo di studio l’affermazione « io credo ». Può intervenire proprio perché non vi è scienza assoluta nel senso sopra descritto, ed è necessario anche ipotizzare in casi specifici l’assenso dell’ « io credo ». Ciò non è affatto raro in questo tipo di studi, poiché per poter procedere può anche essere necessario supporre una verità. Si tratta in tal caso di « un atteggiamento attivo della mente che formula a se stessa l’adesione data ad un enunciato, ove manchi l’uno o l’altro degli elementi richiesti perché si abbia sapere scientifico », ovverosia manca proprio « la certezza perfetta, che esclude il rischio d’errore » e manca « l’evidenza, capace d’imporsi a tutte le menti » (1).

Quindi ripetiamo quel che avviene: « la mente formula a se stessa l’adesione a tale enunciato », in altre parole “ci crede”, il processo quindi è interno a noi, non è un’inappellabile costatazione di fatti certi totalmente esterni all’io. Quindi tanto più è necessario sostenere che « si crede alla scienza » per difendere la data opinione, tanto più stiamo affermando che la tesi non gode affatto della certezza scientifica propriamente detta, ovvero quella della conoscenza attraverso le cause necessarie se si è aristotelici o della verifica col metodo scientifico se ci si vuole limitare al vecchio modello positivista. In ambo i casi dover dire « credo nella scienza » significa affermare che manca la certezza che si ha in altri campi della scienza.

L’assenso che si dà quindi in tal caso « esprime una scelta tra l’affermazione e la negazione possibili, o fra più enunciati possibili ». Diventa quindi forzatamente la scelta volontaria di un’opinione. Sottolineiamo che volontaria non significa arbitraria, ma che la sola intelligenza in questo caso non sta semplicemente constatando una verità evidente, ma deve intervenire la volontà, che, valutato un insieme di fattori, fa la sua libera scelta in un senso. E questo perché siamo nel campo della credenza-opinione, la quale « comporta per se stessa il rischio d’errore, in quanto insufficientemente fondata dal punto di vista sperimentale o razionale, e tale rischio è necessariamente riconosciuto da chi opina » (2). Bisogna quindi riconoscerlo, non mentire alla propria intelligenza e ammettere la natura non evidente dell’affermazione.

Moralità del “credere” ai dati scientifici

Si tratta quindi spesso, anche in ambito “scientifico”, di opinione del tale o tal’altro studioso, che - se è onesto - deve ammettere di aver fatto lui stesso per primo una scelta volontaria in favore di un’opinione, foss’anche la più probabile; opinione dello studioso che poi viene proposta a colui che, non avendo studiato direttamente l’ipotesi, potrà a sua volta (non essendo un dogma di fede infusa necessario all’eterna salvezza) scegliere se credere o meno, in base a criteri che riposano sulla competenza dello scopritore, sull’onestà intellettuale mostrata durante la sua vita ed anche sul suo disinteresse economico, sulla sua immunità da logiche di carriera, di prestigio o di ricatto, fattori tutti che ne accrescono la credibilità.

E ciò perché l’attendibilità del teste in questa materia è capitale. Quindi, non essendoci nessuna evidenza, per colui che, come Aristotele, sta con i piedi per terra e vuole fare una scelta moralmente buona è anche necessario - ed è veramente “scientifico” - chiedersi: il teste è interessato? Mi ha mostrato integralmente gli studi che lo hanno condotto a tali conclusioni? Se dovesse sostenere la tesi opposta verrebbe cacciato dall’università o dal suo lavoro? Sta proponendo come “certo” ciò che è in ancora “incerto”, quindi è intellettualmente disonesto? E’ possibile che alcuni scienziati, anche se numerosi, possano essere condizionabili, specie se sono in ballo interessi considerevoli, o succubi del potere? Ci sono mai state repressioni che possono aver condizionato la libertà dello scienziato? Il cosiddetto consenso della “comunità scientifica”, specie se lo studio è in fase embrionale, è reale a seguito di studi ineccepibili o è anche frutto di chi controlla il “consenso emotivo delle masse”?

Queste domande certo non possono entrare in un “modello matematico” o in un “indice di positività”, ma sono veramente scientifiche poiché la mia conoscenza attraverso le cause, se deve “credere” a un dato scientifico, deve anche interrogarsi sulla credibilità e quindi il disinteresse del teste. Solo in tal modo il mio atto di credere sarà prudente. Quanto detto - per chi è rimasto ancorato alla filosofia realista e non sogna un sapere scientifico che ha risposte a tutto e subito in forma d’algoritmo - è ancor più vero nei primi anni successivi ad una scoperta. Particolarmente nelle sperimentazioni in campo medico, ricordando che la nostra conoscenza del funzionamento del corpo umano ha dei limiti, non parliamo poi del sistema immunitario. Alcune scoperte acquistano se non scientificità assoluta, almeno maggiore credibilità quando sono state vagliate dal tempo. La mia “fede” non nella scienza - che non vuol dire niente - ma in quella specifica cura medica ormai assodata perché ha dato buoni frutti sul lungo termine, è diventata col tempo anche “fede ragionevole”. O anche “talmente ragionevole” che sarebbe addirittura imprudente non credervi in ragione delle tante conferme pervenute negli anni. Ma è vero anche il contrario : dal punto di vista morale potrebbe essere gravemente imprudente, e potrebbe anche essere peccato grave di credulità - se c’è piena avvertenza - dare il proprio assenso imprudentemente, ovvero senza le necessarie verifiche. Specie se abbiamo ruoli di scienziati, medici o governanti, con gravi responsabilità su chi ci ascolta o ci obbedisce.

Concludendo, posso credere a questo o a quello scienziato per ragioni fondate e non emotive o di comodo, ma affermare « credo nella Scienza » non vuol dire nulla. Non esiste un credo nella Scienza, esiste una possibilità di attribuire minore o maggiore credibilità a uno studioso o ad un altro in merito ad una specifica affermazione. Il resto è solo quell’emotività irrazionale intimamente connessa al suddetto scientismo positivista ottocentesco, che, avendo rinnegato la metafisica classica, quando manca di certezze cerca di imporle “a suon di maggioranze” reali o fittizie.

NOTE

1 - R. Jolivet, Psicologia, Brescia 1958, p. 569.
2 - Ibidem




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