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AMORIS LAETITIA: UN DOCUMENTO DAVVERO TERRIFICANTE di don Mauro Tranquillo

Natura del documento
L’esortazione post-sinodale testé pubblicata da Papa Bergoglio non va considerata, per sua stessa ammissione, un atto paragonabile al Magistero cattolico, né supremo né “ordinario”. La ragione non sta solamente nella generale assenza di queste caratteristiche (che è presunta in tutti gli atti conciliari e postconciliari), ma in quanto il documento dice di se stesso, al di là di ogni più o meno discutibile catalogazione dei livelli di esercizio del Magistero.



Infatti abbiamo al n. 4 di Amoris laetitia l’esplicita esclusione di ogni caratteristica anche vagamente “magisteriale”: «L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolgacontributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà». Un testo quindi che si definisce dialogico, pastorale e parenetico, non certo interessato a imporre una qualche conclusione dottrinale. Questo però non significa, come fa in qualche modo il Cardinal Burke, diminuire la gravità del testo, ma solo mettere al riparo l’infallibilità della Chiesa. Gli errori contenuti nel testo sono comunque resi pubblici con enorme scandalo di tutti i cattolici, che finiscono per pensare ed agire non secondo la dottrina della Chiesa ma secondo le conclusioni di Bergoglio. Non basta minimizzare la portata dottrinale del testo, se poi non si denuncia la gravità del contenuto.

Un’ ulteriore negazione dell’intento di intervenire magisterialmente a dirimere una disputa dottrinale si può trovare all’inizio del n. 3, che citeremo qui appresso per sottolinearne altri aspetti problematici.
Modernismo teologico del testo

Appare invece chiaro –ed è questa la vera gravità dell’Esortazione, molto più che certe conclusioni pratiche – il carattere strettamente modernistico della lettera. Si prospetta infatti in termini espliciti che il modo di conoscere la volontà di Dio non deriva dalla dottrina già rivelata, ma da una rilettura dell’esperienza cristiana variegata nei luoghi e nel tempo, non necessariamente risolta dal Magistero, e sostanzialmente sempre aperta: «Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa(cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”» (n. 3). Bergoglio ci dice quindi che lo Spirito deve ancora rivelare la verità completa, e che è la vita della Chiesa e non il Magistero che sola può dirci come agire. Concetti più volte espressi da Bergoglio e da Kasper, che si rifanno direttamente al modernismo teologico e filosofico condannato da Pascendi.

Con tale premessa si può modificare la fede a piacimento, sulla scia degli elementi già adattati al mondo moderno con il Vaticano II: libertà religiosa, ecumenismo, collegialità, nuova liturgia etc. Non sarebbe stato coerente fermarsi proprio davanti al matrimonio, il cui concetto è così cambiato nella coscienza collettiva da meritare un’inculturazione dei “princìpi” al nuovo ordine di cose. Per questo le voci stupite di coloro che si accorgono che si sta predicando una nuova dottrina dovrebbero risalire ai princìpi di questa situazione, princìpi logici (il modernismo come teologia) e cronologici (il Concilio e Papi del postconcilio).

Venendo al merito delle innovazioni, ci concentreremo sul capitolo ottavo, certamente il più noto e problematico, in attesa di esaminare più attentamente la strana esegesi biblica della prima parte, o l’affermazione del n. 75 per cui il fatto che gli sposi siano i ministri del sacramento è solamente “secondo la tradizione latina della Chiesa” e non una verità insegnata dal Magistero (una strizzata d’occhio agli scismatici orientali); così come eviteremo di commentare il ridicolo di un Papa che disquisisce sulla “dimensione erotica dell’amore” (n. 150 ss.); o le problematiche affermazioni sull’uguaglianza tra stato di verginità e stato matrimoniale (n. 159 ss.), e sulla “paternità responsabile” (n. 167); o il discorso sui “metodi naturali” presentati come leciti senza spiegare a quali gravi condizioni (n. 222), anzi citando il già problematico passaggio di Gaudium et spes 50.
La dottrina cattolica sui divorziati che vivono in concubinato

Venendo dunque al capitolo ottavo, e alla questione dei “divorziati risposati e conviventi”, come del resto di altre analoghe convivenze illecite, facciamo prima rapidamente il punto degli aspetti del problema secondo la dottrina cattolica. Due persone che convivono senza matrimonio si trovano in peccato mortale finché non si separino per due motivi: 1) si trovano nell’occasione prossima non necessaria e abituale (dovuta alla convivenza) di peccare contro il sesto comandamento 2) danno scandalo, ossia cattivo esempio, alla società, anche solo facendo pensare come lecito ciò che non lo è. Lo scandalo è peccato contro la carità, contro il bene del prossimo, e va rettamente inteso. Non è una sensazione di disgusto davanti a qualcosa, come si intende volgarmente oggi. Al contrario lo scandalo si aggrava quando non provoca più reazioni: significa che il cattivo comportamento è percepito ormai come normale. La convivenza fuori da legittimo matrimonio rimane scandalo anche oggi che pare normale, anzi lo è a maggior ragione.

Per uscire dallo stato di peccato mortale, occorre quindi interrompere la convivenza, separarsi. Il problema nasce quando due persone (che non possono contrarre matrimonio tra loro) hanno avuto figli dalla convivenza illegittima e non possono separarsi senza grave danno dei medesimi. In questo caso l’occasione prossima di peccato può diventare “necessaria”, cioè inevitabile; deve essere resa almeno più remota, per esempio dormendo separati o prendendo serie precauzioni. Ovviamente dovrà esserci ferma volontà di vivere castamente (“come fratello e sorella”). Si capisce però che anche in questo caso rimane il problema dello scandalo. Due conviventi che non possono separarsi e che accettano di vivere castamente non vivono di fatto più nel peccato, quindi lo scandalo non è più fondato su un’azione davvero cattiva, ma su un’azione che per ignoranza viene vista come tale dall’esterno.

Tale scandalo è definito dalla scienza morale “scandalo dei piccoli”, e deve essere evitato solo quando lo si può senza grave incomodo (la carità infatti, diversamente dalla giustizia, non obbliga con grave incomodo). Da questi princìpi derivava l’atteggiamento che la Chiesa e la teologia morale imponevano in questi casi: se la separazione è veramente impossibile per il bene dei figli, se c’è la volontà di vivere castamente e se si prendono i mezzi per farlo, lo scandalo dei piccoli può essere tollerato e si può permettere ai due di continuare a vivere insieme, almeno finché dura la necessità. Veniva però richiesto di ricevere i sacramenti solo in privato, ovviamente per la necessità di non cadere in un altro caso di scandalo, in questo caso facilmente evitabile.
La nuova dottrina di Francesco nel capitolo ottavo

Cosa rimane di questa dottrina nell’esortazione di Francesco? Innanzitutto proprio la categoria morale dello “scandalo”, così importante in questa questione, è totalmente evacuata (un accenno in termini sibillini a questa categoria c’è solo nel n. 300, senza che se ne concluda nulla, come elemento di riflessione in coscienza). Il problema dell’illecita convivenza deve essere valutato pastoralmente caso per caso, a quanto dice Francesco, senza poter applicare princìpi universali, che sarebbero altrimenti «pietre che si lanciano contro la vita delle persone», cose da «cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite» (n. 305). Le circostanze attenuanti non vengono solo dall’ignoranza (difficilmente scusabile in tali casi, e che comunque dovrebbe essere rischiarata dal pastore), ma anche dalla «grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale”», «pur conoscendo bene la norma» (n. 301, che cita Giovanni Paolo II). In tali casi «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (ibidem).

Fermo restando quanto c’è di totalmente imperscrutabile nella coscienza, non si capisce come chi vive irregolarmente pur conoscendo la norma morale possa non essere considerato privo della grazia, almeno comunque in una condizione di pubblico peccatore per quel che riguarda il foro esterno. Per il Papa invece tutti coloro che vivono in situazioni matrimoniali irregolari non sono solo “membra vive” della Chiesa, come ha detto il Sinodo (cf. n. 299), ma devono in tutti i modi essere integrati nella vita della comunità, anche chi «ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa». Seppure questi non possa predicare o fare catechismo, certamente si dice che deve essere inserito nella vita della comunità anche con ruoli di responsabilità e secondo sue iniziative.

Il tema specifico dei divorziati che vivono una nuova unione è abbordato esplicitamente al n. 298. Si parla ovviamente del caso più spinoso, quello di chi non può separarsi, per via della necessità di educare i figli. Per questi non solo si spiega che non esistono «semplici ricette», ma addirittura nella nota 329 si dice che la proposta di “vivere come fratello e sorella” può comportare un rischio di infedeltà e un pericolo per il bene dei figli, «se mancano alcune espressioni di intimità», riprendendo i termini diGaudium et spes, che però parla dei legittimi coniugi! Quindi a chi deve continuare una convivenza di per sé illecita per una necessità reale, non è affatto richiesta in modo assoluto la castità, ma viene problematicamente posta la questione delle “espressioni d’intimità” tipicamente coniugali.

In queste situazioni per due volte è insinuata la possibilità di ricevere i sacramenti. La prima nel n. 300, dove si dice che era impossibile che il Sinodo operasse un cambiamento normativo generale in una materia dove domina l’individuale e il particolare, le infinità di situazioni inestricabili della vita. Molto ci sarebbe da dire su questa impostazione morale, ma per ora ci limiteremo ad esaminare le conclusioni cui porta. Un esame con il sacerdote della propria situazione non può escludere nessuna soluzione: «poiché “il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi». Su cosa devono esaminarsi allora i divorziati conviventi insieme al sacerdote? Vengono elencate una serie di questioni sulla propria responsabilità nella fine del precedente matrimonio e sulle sue conseguenze, ma casualmente non una parola viene detta sulla conservazione della castità nella nuova situazione come criterio per sapere se uno è ancora in grazia di Dio. Poiché appunto viene prospettato che si possa essere “senza colpa”, non si può arrivare a una conclusione generale nemmeno per quel che riguarda la «disciplina sacramentale» (nota 336).

L’importante è che si conservino discrezione, umiltà e riservatezza e amore per la Chiesa, per evitare non certo lo scandalo nel senso classico, ma solo «il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori». Non il rischio di far apparire come lecita un’unione irregolare quindi, ma solo quello di apparire parziali.

Più esplicito ancora è il numero 305: «a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa», compreso (dice la nota 351) «anche l’aiuto dei sacramenti».
Conclusioni

In breve, mettendo insieme i pezzi e le allusioni, l’esortazione dice che:

1) è impossibile dare norme generali, comprese quelle sull’ammissione ai sacramenti di chi vive in situazioni oggettivamente irregolari.

2) Tali situazioni, quando non possono essere interrotte, non necessariamente costituiscono uno stato di peccato: a) perché è sostanzialmente evacuato il problema dello scandalo; b) perché anche chi conosce una norma morale potrebbe essere scusato dalla sua applicazione perché non ne vede il valore per se stesso in quella circostanza; c) perché la castità in tali situazioni, oltre a non essere sempre una cosa buona –per il pericolo di “infedeltà” al concubino -, non è elencata tra i criteri per vedere se uno è in stato di grazia nonostante la sua situazione.

3) In questi casi si può ipotizzare lo stato di grazia e anche amministrare i sacramenti, dopo una seria valutazione singolare.

Che tale documento non appartenga al Magistero, come dice il numero 4, non ne può diminuire la gravità, perché è lanciato come una pietra addosso al clero e ai fedeli, aprendo le porte al peccato con la falsa misericordia di questo giubileo, incapace di dire la verità per compiacere il mondo. Con buona pace del Cardinale Burke, che pensa che se un atto non è magisteriale diventi irrilevante, o che si debba fare attenzioni solo a “cattive interpretazioni”, come dice il conservatore Brandmüller. La linea di difesa dei conservatori è sempre la stessa: rimanere seduti. Occorre invece combattere e denunciare l’ennesimo scandalo, proprio in nome del vero Magistero e della dottrina costante della Chiesa, perché il peccato e l’errore non si diffondano ulteriormente, e non si creino situazioni anche più inestricabili. Occorre denunciare il vergognoso asservimento di Francesco alle imposizioni dei poteri del nuovo ordine mondiale, che certamente non vogliono saperne della famiglia e della società cattolica.

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