Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

lunedì 14 marzo 2016

STORIA DEL TEMPO DI PASSIONE di dom Prosper Guéranger




La santa Chiesa, dopo aver presentato alla meditazione dei fedeli, nelle prime quattro settimane di Quaresima, il digiuno di Cristo sulla montagna, consacra ora le altre due settimane che ci separano dalla festa di Pasqua alla commemorazione dei dolori del Redentore, non permettendo che i suoi figli arrivino al giorno dell’immolazione del divino Agnello, senza aver prima disposte le loro anime alla compassione dei patimenti da lui sofferti in loro vece.

I più antichi documenti della Liturgia, i Sacramentari e gli Antifonari di tutte le Chiese, col tono delle loro preghiere, la scelta delle letture ed il senso d’ogni sacra formula, ci avvertono che la Passione di Cristo, a partire da oggi, forma l’unico pensiero della cristianità. Fino alla Domenica delle Palme potranno ancora aver luogo, nel corso della settimana, le feste dei Santi; ma nessuna solennità, a qualsiasi classe appartenga, avrà la precedenza sulla Domenica di Passione.

Non abbiamo dettagli storici intorno alla prima settimana di questa quindicina; ma le sue osservanze non differirono mai dalle quattro settimane che la precedettero (1), rimandiamo quindi il lettore al capitolo seguente, dove tratteremo di alcune mistiche particolarità del tempo di Passione in genere. Per contrario, la seconda settimana ci fornirà un’abbondante materia di storici dettagli, non essendovi periodo dell’Anno Liturgico che più di questo impegni i fedeli ed offra loro motivo di così vive manifestazioni di pietà.



Nomi che si davano all’ultima settimana.

L’ultima settimana era già in venerazione nel III secolo, come attesta san Dionigi, vescovo in quel periodo d’Alessandria

(1) Non riteniamo qui opportuno addentrarci nelle discussioni puramente archeologiche sollevate sulla parola Mediana, con la quale viene designata la Domenica di Passione in alcuni antichi documenti della Liturgia e del Diritto ecclesiastico.

(Lettera a Basilide, c. 1). Nel secolo appresso fu chiamata la grande Settimana, come ci consta da un’Omelia di san Giovanni Crisostomo (30.a Omelia sul Genesi): “Non perché, dice il santo Dottore, conti più giorni delle altre, o i giorni constino d’un maggior numero di ore, ma perché sono grandi i misteri che in essa si celebrano”. La vediamo anche segnalata col nome di Settimana penosa, sia per le pene sofferte da Nostro Signor Gesù Cristo che per le fatiche imposte dalla sua celebrazione; Settimana d’indulgenza, perché vi si accoglievano i peccatori alla penitenza; finalmente Settimana santa, per la santità dei misteri che si commemoravano. Da noi per lo più viene chiamata con questo nome, il quale divenne così appropriato, che fu attribuito a ciascuno dei giorni che la compongono, di modo che abbiamo Lunedì Santo, Martedì Santo, ecc.

Rigore del digiuno.

Una volta aumentava la severità del digiuno quaresimale negli ultimi giorni, che formavano il supremo sforzo della penitenza cristiana. Poi, la Chiesa indulgendo a poco a poco alla debolezza delle presenti generazioni, cominciò a mitigare tali rigori, ed oggi in Occidente non esiste più nessuna restrizione che distingua questa settimana dalle precedenti; mentre nelle Chiese d’Oriente rimaste fedeli alle antiche tradizioni, continuano ad osservare una rigorosa astinenza, la quale, dalla Domenica di Quinquagesima e per tutto questo lungo periodo, prende il nome diSerofagia, essendo solo permesso di mangiare asciutto.
Anticamente il digiuno si spingeva anche oltre i limiti delle forze umane; infatti sappiamo da Epifanio (Esposizione della Fede, x, Heres, xxii) che v’erano dei cristiani che lo prolungavano dal Lunedì mattina fino al canto del gallo del giorno di Pasqua (2). Indubbiamente, solo una piccola parte dei fedeli potevano fare un tale sforzo; gli altri si limitavano a non prendere niente per due, tre, quattro giorni consecutivi; ma la comune usanza consisteva nello stare senza mangiare dalla sera del Giovedì Santo fino al mattino di Pasqua (3). Esempi d’un tale rigore non sono rari, anche ai giorni nostri, presso i cristiani d’Oriente ed in Russia: magari le opere di
Lunghezza delle veglie.

Una delle caratteristiche dell’antica Settimana Santa furono le veglie prolungate in chiesa durante la notte; come quella del Giovedì Santo, nella quale, celebrati i divini misteri in memoria dell’Ultima Cena del Signore, il popolo perseverava a lungo nella preghiera (san Giovanni Crisostomo, 30.a Omelia sul Genesi). La notte tra il Venerdì e il Sabato era quasi tutta una veglia, per onorare la sepoltura di Gesù Cristo (san Cirillo di Gerusalemme, Catech. xviii); ma la più lunga era quella del Sabato, che durava fino al mattino di Pasqua. Vi prendeva parte tutto il popolo, che assisteva all’ultima preparazione dei Catecumeni; quindi rimaneva testimone dell’amministrazione del santo Battesimo. L’assemblea si ritirava solo dopo la celebrazione del santo Sacrificio, che terminava al levar del sole.

Sospensione del lavoro.

Durante la Settimana Santa, per lungo andare di secoli fu richiesto dai fedeli la sospensione delle opere servili; ed alla legge della Chiesa si univa quella civile a far sospendere il lavoro ed il traffico degli affari, ed esprimere così, in una maniera imponente, il lutto dell’intera cristianità. Il pensiero del sacrificio e della morte di Cristo era il pensiero di tutti; ognuno sospendeva gli ordinari rapporti; tutta la vita morale era completamente assorbita dagli uffici divini e dalla preghiera, mentre le forze del corpo erano impegnate nel digiuno e nell’astinenza. È facile immaginare quale impressione doveva produrre nel resto dell’anno una così solenne interruzione di tutto ciò che costituiva l’assillo degli uomini nelle cose della loro vita. Tenuta presente la durezza con la quale li aveva trattati la Quaresima per cinque intere settimane, si comprende benissimo con quale gioia accoglievano poi la festa della Pasqua, e come insieme col rinnovamento dell’anima dovevano sentire un grande sollievo nel corpo.

Vacanza dei tribunali.

In altra parte accennammo alle disposizioni del Codice Teodosiano che prescriveva di soprassedere a tutti i processi e citazioni
quaranta giorni prima della Pasqua. La legge di Graziano e di Teodosio, emanata a tal proposito nel 380, fu allargata da Teodosio nel 389 e fatta propria dei giorni in cui siamo da un nuovo decreto che interdiceva, sette giorni prima della festa di Pasqua e sette giorni dopo, anche le patrocinazioni. Nelle Omelie di san Giovanni Crisostomo e nei sermoni di sant’Agostino si riscontrano parecchie allusioni a questa legge allora recente; in essa si dichiarava che allora, in ciascun giorno di detta quindicina, vigeva nei tribunali il privilegio della Domenica.

Il perdono dei regnanti.

In questi giorni di misericordia i prìncipi cristiani non solo interrompevano il corso dell’umana giustizia, ma volevano anche onorare in modo sensibile la paterna bontà di Dio, il quale si degnò perdonare al mondo colpevole in vista dei meriti del Figliuolo suo immolato. Dopo aver rotti i lacci del peccato che imprigionavano i peccatori pentiti, la Chiesa stava per riaprire loro il suo seno; ed i prìncipi cristiani ci tenevano ad imitare la loro Madre, ordinando l’apertura delle carceri e la liberazione degl’infelici che gemevano sotto il peso delle sentenze inferte dai tribunali terreni, fatta eccezione di quei criminali che coi loro delitti avevano leso troppo gravemente la famiglia o la società. Anche a tale riguardo il nome del grande Teodosio fu illustrato da chiara fama. Come c’informa san Giovanni Crisostomo (6.a Omelia del popolo d’Antiochia), quest’imperatore mandava nelle varie città ordinanze di condono, autorizzando il rilascio dei prigionieri e accordando la vita ai condannati a morte, per santificare i giorni che precedevano la festa di pasqua. Gli ultimi imperatori convertirono in legge tale disposizione, e san Leone ne prende atto, in uno dei suoi sermoni: “Gl’imperatori romani, egli attesta, già da tempo osservavano questa santa istituzione, per onorare la Passione e la Risurrezione del Signore, per la quale si vede diminuire il fasto della loro potenza, mitigare la severità delle leggi e fare grazia alla maggior parte dei colpevoli, mostrando con tale clemenza d’imitare la bontà celeste nei giorni in cui ha voluto salvare il mondo. Che anche il popolo cristiano, da parte sua, abbia a cuore d’imitare i prìncipi, e l’esempio dato dal sovrano porti i sudditi ad una scambievole indulgenza, non dovendo mai il diritto privato essere più severo di quello pubblico. Rimettete, perciò, gli altrui torti, sciogliete i legami, perdonate le offese, soffocate i risentimenti, affinché, da parte di Dio e da parte nostra, tutto contribuisca a ristabilire in noi quell’innocenza di vita che conviene all’augusta solennità che attendiamo” (Discorso 40, sulla Quaresima).
Ma non solo è decretata l’amnistia cristiana nel Codice Teodosiano: ne troviamo tracce anche in solenni documenti di diritto pubblico dei nostri padri. Sotto la prima dinastia dei re di Francia, sant’Eligio vescovo di Noyon, in un sermone pronunciato il Giovedì Santo s’esprimeva così: “In questi giorni in cui la Chiesa indulge ai penitenti ed assolve i peccatori, i magistrati lascino da parte la severità e perdonino ai rei. In tutto il mondo s’aprono le carceri, i prìncipi fanno grazia ai delinquenti, i padroni perdonano agli schiavi” (Discorso 10). Sotto la seconda dinastia sappiamo dai “Capitolari” di Carlo Magno che i vescovi avevano il diritto d’esigere dai giudici per amore di Gesù Cristo, come ivi è detto, la liberazione dei prigionieri nei giorni precedenti la Pasqua, e d’interdire ai magistrati l’entrata in chiesa, se si rifiutavano d’obbedire (Capitolari, l. 6). Secondo i “Capitolari”, questo privilegio s’estendeva anche alle feste di Natale e di Pentecoste. Infine, sotto la terza dinastia, troviamo l’esempio di Carlo VI il quale, avendo dovuto reprimere una rivolta degl’insorti di Rouen, più tardi ordinò la liberazione dei prigionieri, perché si era nella Settimana penosa, e molto vicini alla Pasqua.

Un ultimo vestigio di questa misericordiosa legislazione si conservò fino alla fine nel costume parlamentare parigino. Dopo molti secoli il Parlamento non conosce più queste lunghe vacanze cristiane, che una volta s’estendevano a tutta la Quaresima; le camere si chiudevano solo il Mercoledì Santo, per riaprirsi dopo la Domenica Quasimodo. Il Martedì Santo, ultimo giorno di seduta, il Parlamento si recava alle carceri del Palazzo ed uno dei Grandi Presidenti, di solito l’ultimo investito, apriva la seduta con la camera; s’interrogavano i detenuti, e senz’alcun giudizio, si mettevano in libertà quelli la cui causa era favorevole, o chi non era un criminale di prim’ordine.

La vera uguaglianza e fraternità.

Le rivoluzioni che si succedettero per più di cent’anni ebbero il vantato successo di secolarizzare la Francia, cioè di cancellare dai pubblici costumi e dalla legislazione tutto ciò che traeva ispirazione dal sentimento soprannaturale del cristianesimo. E poi si misero a predicare agli uomini, su tutti i toni, ch’erano uguali fra loro. Sarebbe stato superfluo cercare di convincere di questa verità i popoli cristiani nei secoli di fede, quando, all’avvicinarsi dei grandi anniversari che rappresentavano così al vivo la giustizia e la misericordia divina, si vedevano i regnanti abdicare, per così dire, al loro scettro, per lasciare a Dio il castigo dei colpevoli, e sedersi al banchetto pasquale della fraternità, vicini ad uomini che fino a qualche giorno prima avevano tenuto in catene nel nome della società. Il pensiero di Dio, di fronte al quale tutti gli uomini sono peccatori, di quel Dio, dal quale soltanto proviene la giustizia ed il perdono, dominava quei giorni tutte le nazioni; veramente si potevano datare le ferie della grande Settimana alla maniera di certi diplomi di quell’epoca di fede: “Sotto il regno di Nostro Signor Gesù Cristo”: Regnante Domino Nostro Jesu Christo.
Forse, tramontati i giorni della santa cristiana uguaglianza, ripugnava ai sudditi riprendere il giogo della sottomissione ai governanti o questi pensavano di approfittare dell’occasione per redigere la carta dei diritti dell’uomo? Niente affatto: lo stesso pensiero che aveva umiliato dinanzi alla Croce del Salvatore i fasci della legale giustizia, rivelava al popolo il dovere d’obbedire ai potenti stabiliti da Dio. Dio era la ragione del potere e, nello stesso tempo, della sottomissione; e le dinastie si potevano succedere, senza che per questo scemasse nei cuori il rispetto dell’autorità. Oggi la santa Liturgia non esercita più quest’influsso sulla società; la religione si rifugia come un segreto in fondo alle anime fedeli; le istituzioni politiche non sono diventate altro che l’espressione della superbia umana che vuole comandare o si rifiuta d’obbedire.

Eppure la società del IV secolo, che produsse quasi spontaneamente, per il solo spirito cristiano, le leggi misericordiose che abbiamo menzionate, era ancora mezzo pagana! Mentre la nostra fu fondata sul cristianesimo, che, solo, ha il merito d’aver civilizzato i nostri padri barbari; e noi chiamiamo progresso questo cammino a ritroso di tutte le garanzie di ordine, di pace e di moralità che avevano ispirato i legislatori? E quando rinascerà la fede dei padri, che sola può restaurare dalle basi le nazioni? Quando i saggi di questo mondo la finiranno con le loro utopie, che non hanno altro risultato che di assecondare quelle funeste passioni, che i misteri di Gesù Cristo, rinnovantisi in questi giorni, condannano così solennemente?

L’abolizione della schiavitù.

Se lo spirito di carità e il desiderio d’imitare la misericordia divina ottenevano dagl’imperatori cristiani la liberazione dei prigionieri,
essi non potevano nemmeno disinteressarsi della sorte degli schiavi, nei giorni in cui Gesù Cristo si degnò restituire col suo sangue la libertà a tutto il genere umano. La schiavitù, figlia del peccato ed istituzione fondamentale del mondo antico, era stata colpita a morte dalla predicazione del Vangelo; ma toccava ai singoli abolirla, a mano a mano, con l’applicazione del principio della fraternità cristiana. Come Gesù Cristo ed i suoi Apostoli non ne avevano richiesto l’abolizione di punto in bianco, così i prìncipi cristiani s’erano limitati a favorirla con le leggi. Ne abbiamo un esempio nel Codice di Giustiniano, che dopo aver interdetti i processi durante la grande Settimana e quella successiva, ingiunge la seguente disposizione: “È inoltre permesso concedere la libertà agli schiavi, e qualsiasi atto necessario alla loro liberazione non sarà ritenuto contravvenire alla legge” (Cod. l. 3, tit. xii, de feriis, Leg. 8). Del resto, con una simile caritatevole misura, Giustiniano non faceva altro che applicare alla quindicina di Pasqua la legge di misericordia apportata da Costantino all’indomani del trionfo della Chiesa, la quale proibiva ogni processo la domenica, salvo quello che mirava alla libertà degli schiavi.

Molto tempo prima della pace costantiniana, la Chiesa aveva provveduto agli schiavi nei giorni che si svolgevano i misteri della redenzione universale. I padroni cristiani dovevano lasciarli godere d’un completo riposo durante la sacra quindicina. La legge canonica introdotta nelle Costituzioni Apostoliche, che è una collezione compilata prima del IV secolo, è di questo tenore: “Durante la grande Settimana che precede il giorno di Pasqua, e per tutta la seguente, si lascino a riposo gli schiavi, perché la prima è la settimana della Passione del Signore, e la seconda quella della sua Risurrezione, durante le quali bisogna istruirli su tali misteri” (Costit. Apost., l. 8, c. xxxiii).
Le opere di carità.

Infine, ancora una caratteristica dei giorni ai quali ci avviciniamo, è una più abbondante elemosina ed una maggior frequenza delle opere di misericordia. San Giovanni Crisostomo ce l’attesta per il suo tempo, e ce lo fa notare nell’elogio che tesse di molti fedeli, i quali raddoppiavano le loro elargizioni verso i poveri, per avvicinarsi il più possibile alla munificenza divina che stava per prodigare senza misura i suoi benefici all’uomo peccatore.

da: P. GUÉRANGER, L’anno liturgico. - I. Avvento. Natale. Quaresima. Passione, trad. it. P. GRAZIANI, Alba, Edizioni Paoline, 1959, pp. 620-626.

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