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giovedì 21 gennaio 2016

La Messa tridentina Le origini apostolico-patristiche di Suor Maria Francesca Perillo


La Messa "tridentina" non è stata inventata da san Pio V né dal Concilio di Trento, ma risale ai tempi apostolici. La Liturgia, infatti, non è l'espressione d'un sentimento del fedele, ma è la preghiera ufficiale della Chiesa; è Dogma pregato. Essa racchiude qualcosa di eterno non costruito da mano umana. «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20).


Introduzione

Con l'espressione "Messa tridentina" o "Messa di san Pio V", si suole indicare la celebrazione del rito secondo il cosiddetto Vetus Ordo, ossia anteriore alla riforma liturgica post-conciliare. Si tratta di due espressioni improprie, poiché, se è vero che il papa san Pio V promulgò un Messale a seguito del Concilio di Trento in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima, precisamente al papa san Gregorio Magno. Da quest'ultimo pontefice viene anche il nome, più corretto ma non esauriente, di rito gregoriano. Non esauriente perché da san Gregorio Magno, come vedremo, il rito risale ai tempi apostolici per riannodarsi infine all'Ultima Cena e al Sacrificio cruento di Nostro Signore Gesù Cristo, di cui ogni Messa è costante ripresentazione ed incruenta attualizzazione.

È stato giustamente osservato che la Messa, come pure il Breviario antico, non ha autore poiché di gran parte dei suoi testi non si può dire quando abbiano avuto origine e quando abbiano trovato una collocazione definitiva. Ciascuno perciò «percepiva che essa era qualcosa di eterno enon costruito da mano umana» (M. Mosebach). È certo, infatti, che il Messale Romano - come afferma il beato Ildefonso Schuster - rappresenta nel suo complesso «l'opera più elevata e importante della letteratura ecclesiastica, quella che riflette più fedelmente la vita della Chiesa, il poema sacro al quale han posto mano cielo e terra».

« Il nostro Canone - afferma Adrien Fortescue - è intatto, come tutto lo schema della Messa. Il nostro Messale è ancora quello di san Pio V. Dobbiamo ringraziare che la sua commissione sia stata così scrupolosa da mantenere o restaurare l'antica tradizione romana. Essenzialmente il Messale di san Pio V è il Sacramentario Gregoriano, modellato sul libro gelasiano che a sua volta dipende dalla collezione leonina. Troviamo le preghiere del nostro Canone nel trattato De Sacramentis e riferimenti al Canone stesso nel IV secolo. Così la nostra Messa va indietro, senza cambiamenti essenziali, all'epoca nella quale per la prima volta si sviluppò dalla Liturgia più antica. [...] nonostante i problemi irrisolti, nonostante i cambiamenti successivi, non esiste nella Cristianità un altro rito così venerabile come il nostro».

Prima di addentrarci nello specifico del tema, ci par opportuno ricordare e riaffermare alcuni principi fondamentali della sacra Liturgia che sembrano esser caduti nell'oblio con conseguenze così aberranti da ridurre le sacre Sinassi a celebrazioni «etsi Deus non daretur». Il che significa de facto la morte della Liturgia.

Il primo principio è che la Liturgia non è, non è mai stata né potrà mai essere, l'espressione del sentimento del fedele nei confronti del suo Creatore. Essa è invece l'adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti di Dio, ch'egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti divini. È il cosiddetto ius divinum, ossia il diritto di Dio ad essere adorato come Egli ha stabilito. La Liturgia non è una qualsiasi preghiera che il fedele rivolge spontaneamente a Dio, bensì "la" preghiera ufficiale della Chiesa: non v'è in essa nulla da inventare, né da innovare, né da adattare. «La Liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità» (enciclica Ecclesia de Eucharistia n. 52). Essa non è «l'espressione della coscienza di una comunità, del resto sparsa e mutevole».

In forza di ciò, la Liturgia cattolica non è e non può essere "creativa". Non lo può essere per la semplice ragione che non è un prodotto umano, ma opera di Dio, come ha ribadito a più riprese il Santo Padre. È interessante evidenziare a questo riguardo come già nel I secolo la Liturgia - benché ancora allo stato primitivo - avesse un proprio ordine che i cristiani ritenevano risalente a Cristo stesso. Il Fortescue nota che fin dal suo nascere la preghiera dei primi cristiani non è mai consistita in incontri organizzati a proprio piacimento.

Lo dimostra con evidenza solare la prima lettera di san Clemente ai Corinti in cui si legge:

«1. Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci comanda di compiere nei tempi fissati.
2. Egli ci prescrisse di fare le offerte e le liturgie, e non a caso o senz'ordine, ma in circostanze ed ore stabilite.
3. Egli stesso con la sua sovrana volontà determina dove e da chi vuole siano compiute, perché ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua volontà.
4. Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati. Seguono le leggi del Signore e non errano.
5. Al gran sacerdote sono conferiti particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai leviti incombono propri servizi [Gli Ordini minori aboliti da Paolo VI, Ministeria quaedam -ndr]. Il laico è legato ai precetti laici» (cap. XL).

Sin dal I secolo v'è dunque nel Culto Divino un ordine ben stabilito ed una gerarchia che si ritengono provenire dal Signore.

In secondo luogo la Liturgia si àncora nella Tradizione, che è fonte della Rivelazione al pari della Sacra Scrittura. «La Liturgia - afferma il grande liturgista dom Guéranger - è la medesima Tradizione al suo più alto grado di potenza e solennità»; è «il pensiero più santo della sapienza della Chiesa per il fatto di essere esercitata dalla Chiesa in unione diretta con Dio nella confessione (di fede), nella preghiera e nella lode». La Liturgia, in altri termini, è il Dogma pregato.

I nemici della Chiesa conoscono a fondo questo principio. Essi sanno bene che il popolo di Dio è istruito, anzitutto, dalle e nelle sacre Sinassi. Demolite quelle, è demolita la Fede.

Con sguardo profetico dom Guéranger aveva compreso che l'odio della Liturgia cattolica è un comune denominatore dei vari novatoressuccedutisi nel corso dei secoli, i quali per attaccare il Dogma cattolico iniziano la loro feroce opera di distruzione dalla Liturgia. «Il primo carattere dell'eresia antiliturgica - scrive - è l'odio della Tradizione nelle formule del culto divino. Non si può contestare la presenza di tale specifico carattere in tutti gli eretici, da Vigilanzio fino a Calvino, e il motivo è facile da spiegare. Ogni settario che vuole introdurre una nuova dottrina si trova necessariamente in presenza della Liturgia, che è la Tradizione alla sua più alta potenza, e non potrà trovare riposo prima di aver messo a tacere questa voce, prima di avere strappato queste pagine che danno ricetto alla fede dei secoli trascorsi. Infatti, in che modo si sono stabiliti e mantenuti nelle masse il luteranesimo, il calvinismo, l'anglicanesimo? Per ottenere questo non si è dovuto far altro che sostituire nuovi libri e nuove formule ai libri e alle formule antiche, e tutto è stato consumato».

La Tradizione è anteriore alla Sacra Scrittura e abbraccia un campo assai più vasto. Essa è una fonte della Rivelazione distinta dalle Sacre Scritture, fonte che merita la medesima fede (così il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I). San Vincenzo di Lérins (†450 ca) riteneva come genuina tradizione apostolica ciò che soddisfaceva contemporaneamente a tutte e tre le seguenti condizioni: Quod semper, quod ab omnibus, quod ubique, ossia ciò che è stato creduto in ogni tempo, da tutti i fedeli e in ogni luogo.

La Tradizione è presente nella Liturgia, che contiene le preghiere e i riti del culto pubblico e dei Sacramenti. Non a caso sin dai primi decenni del 400 si trova citata la massima "legem credendi lex statuat supplicandi", e cioè la preghiera liturgica (lex supplicandi) sia fonte (statuat) di cognizione teologica (legem credendi).


Questa massima millenaria - sulla quale torneremo - indica la vitale importanza e la grandissima utilità di mantenere inalterata e in uso la Liturgia tradizionale, e in particolare quella della Santa Messa, a salvaguardia della Fede. Indica anche che, con buona pace della creatività e dei presbiteri e dei fedeli, la creazione di nuove liturgie può facilmente corrompere la Fede (e difatti la corrompe) insinuando riti e preghiere privi di quel rigore teologico che ne garantisce un'interpretazione univoca e ortodossa.

In questo senso l'ostracismo al Messale di san Pio V, sintesi ed espressione d'una tradizione millenaria che rimonta - attraverso diversi stadi - ai tempi apostolici. Costituisce ancor oggi un evidente segno di quell'odio alla Tradizione che da sempre ha caratterizzato la mente dei novatores d'ogni epoca.

Origine divina della Liturgia

Nella sua celebre opera Le Istituzioni Liturgiche, il venerabile dom Prosper Guéranger, esimio liturgista e abate di Solesmes, afferma essere la Liturgia qualcosa di così eccellente che per trovarne l'origine bisogna risalire fino a Dio stesso: poiché Dio, nella contemplazione delle sue perfezioni infinite, si loda e si glorifica senza posa, amandosi d'un amore eterno. Ma questi medesimi atti, compiuti nell'Essenza divina, hanno avuto manifestazione visibile e propriamente liturgica solo quando una delle tre divine Persone, avendo preso la natura umana, ha potuto rendere i suoi doveri di religione alla gloriosa Trinità.

«Dio - afferma dom Guéranger - ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio affinché Questi lo istruisse nel compimento dell'opera liturgica. Dopo essere stata annunziata e prefigurata per quaranta secoli, una preghiera divina è stata offerta, un sacrificio divino è stato compiuto, e, ancora adesso e per l'eternità, l'Agnello immolato sin dall'inizio del mondo si offre sull'altare sublime del cielo e rende in una maniera infinita all'ineffabile Trinità tutti i doveri di religione, a nome dei membri di cui egli è il Capo».

Bisogna però considerare che - anche prima dell'Incarnazione del Verbo - il mondo non è mai stato senza Liturgia: poiché, come la Chiesa risale al principio del mondo, secondo la dottrina di sant'Agostino, la Liturgia risale a questo medesimo principio.

Nell'Antico Testamento la Liturgia è esercitata dai primi uomini nel principale e più augusto dei suoi atti, il sacrificio. Basti pensare ai sacrifici di Caino ed Abele, a quello di Noè, che lo perpetua dopo il diluvio. Abramo, Isacco, Giacobbe, offrono sacrifici di animali e innalzano pietre per l'altare che adombrano l'altare e il Sacrificio futuro. Poi Melchisedech, avvolto nel mistero d'un Re-Pontefice, tenendo nelle sue mani il pane ed il vino offre un olocausto pacifico, anch'esso figura del Sacrificio di Cristo.

Durante tutta quest'epoca primitiva, le tradizioni liturgiche non sono fluttuanti ed arbitrarie, ma precise e determinate. È evidente che esse non sono invenzione d'uomo, ma imposte da Dio stesso; difatti il Signore loda Abramo poiché aveva osservato non solo le sue leggi e i suoi precetti, ma anche le sue cerimonie.

Quando venne la pienezza dei tempi, il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi: Egli venne non per distruggere, ma compiere e perfezionare anche le tradizioni liturgiche. «Dopo la sua nascita, fu circonciso, offerto al tempio, riscattato. Dall'età di dodici anni, adempì la visita al Tempio, e, più tardi, lo si vide frequentemente venire ad offrire la sua preghiera. Compì la sua missione con il digiuno di quaranta giorni; santificò il sabato; consacrò con il suo esempio la preghiera notturna. Nell'Ultima Cena, in cui celebrò la grande Azione liturgica, e provvide al suo compimento futuro fino alla fine dei secoli, iniziò con la lavanda dei piedi, che i Padri hanno chiamato un mistero, e finì con un inno solenne, prima di uscire per andare al monte degli Ulivi. Poche ore dopo, la sua vita mortale, la quale non era che un grande atto liturgico, si concluse nell'effusione del Sangue sull'altare della croce; il velo dell'antico tempio, squarciandosi, aprì come un passaggio ai nuovi misteri, proclamò un nuovo tabernacolo, un'arca d'alleanza eterna, e da allora in poi la Liturgia cominciò il suo periodo completo in quanto al culto della terra» (P. Guéranger). (continua)

L'opera di Gesù Cristo

È necessario e fondamentale - nell'ambito dello studio della sacra Liturgia - stabilire se il Signore Gesù abbia fissato - almeno implicitamente - le grandi linee del sistema liturgico che si riferiscono alla sostanza del Culto cristiano.

Sulle orme dell'Aquinate, il quale afferma che «per suam passionem Christus initiavit ritum christianæ religionis», si può subito osservare che fu Cristo ad inaugurare il Culto cristiano iniziandolo incruento nell'Ultima Cena per consumarlo nel sangue sul Calvario. «A Lui dobbiamo, non solo l'istituzione della grazia propria dei sette Sacramenti, come ebbe a definire il Tridentino, ma anche il rito esteriore dei tre più importanti di essi, il Battesimo, l'Eucaristia, la Penitenza. Del Battesimo precisò la materia e la forma [...]. Dell'Eucaristia fissò pure la materia - il pane ed il vino - e la forma nelle parole consacratorie da lui pronunciate durante l'ultima Cena: "Hoc est corpus meum... hic est sanguis meus". [...] Inoltre, siccome l'Eucaristia doveva essere il sacrificio della nuova Legge e per conseguenza l'atto liturgico più importante, volle ancora stabilire le sostanziali modalità con le quali doveva esser celebrata». In base alla narrazione dei Sinottici si desume che il Signore Gesù:

- Istituì l'Eucaristia gratias agens, cioè pronunciando un formula eucaristica o di ringraziamento, servendosi probabilmente delle consuete eulogie giudaiche proprie del rituale di Pasqua ma integrate per quell'eccezionale circostanza; e prescrisse che il suo atto fosse ripetuto.

- Impose agli Apostoli che, nel rinnovare quanto Egli aveva fatto, lo commemorassero: «Hoc facite in meam commemorationem», ovvero, come precisa meglio san Paolo, proclamassero la sua morte: «Mortem Domini annuntiabitis donec veniat» (1Cor, 11,26).

- Volle che l'oblazione sacrificale commemorativa che gli Apostoli dovevano perpetuare mantenesse, come Egli aveva fatto, la forma conviviale. Si trattava dunque d'un banchetto sacrificale al quale i credenti partecipavano con la manducazione della mistica Vittima.

È lecito chiedersi, a questo punto, se Gesù Cristo, durante la sua vita terrena, abbia dato altre norme liturgiche. Possiamo rispondere affermativamente, malgrado la difficoltà a stabilire con esattezza quali di esse effettivamente rimontino fino a Lui. Infatti:

- gli Atti osservano che Gesù, nel tempo intercorso fra la Risurrezione e l'Ascensione, si fece vedere molte volte agli Apostoli «loquens de regno Dei». Ora, una delle tradizioni più antiche della Chiesa vuole che in quei frequenti convegni, Egli, fra l'altro, abbia fissato anche molte particolarità del Culto. Non aveva Egli detto prima di morire: «Ho molte cose da dirvi che ora non potete sostenere?».

Eusebio riferisce che sant'Elena edificò sul monte degli Olivi una piccola chiesa in una specie di caverna, dove, secondo un'antica tradizione, «discipuli et apostoli, [ ..] arcanis mysteriis initiati fuerunt».

Il Testamentum Domini (V sec.), nel «giorno stesso della Risurrezione, induce gli Apostoli a chiedere al Signore «quoniam canone, ille (scil. qui Ecclesiæ præest) debeat constituere et ordinare Ecclesiam [...], quomodo sint mysteria Ecclesiæ tractanda» (con quale regola colui che è a capo della Chiesa deve costituire ed ordinare la Chiesa [...] in che modo debbano essere trattati i misteri della Chiesa); e Gesù risponde spiegando loro in dettaglio, le varie parti della Liturgia.

Questa tradizione è pure accolta da san Leone il quale afferma che «quei giorni che vi furono tra la Risurrezione e l'Ascensione non passarono oziosamente, ma in essi furono confermati i Sacramenti e furono rivelati grandi misteri».

E Sisto V la ricorda nella bolla Immensa: «Quella norma di credere e di pregare che Cristo ha insegnato ai suoi discepoli durante uno spazio di quaranta giorni, non c'è nessuno dei cattolici che ignori che Egli l'ha affidata per loro tramite alla sua Chiesa perché fosse custodita e sviluppata».

- San Clemente papa, discepolo degli Apostoli (†99), scrivendo alla Comunità di Corinto, accenna - come abbiamo già riportato - a positive prescrizioni del Signore circa l'ordine da seguirsi nelle offerte, nella gerarchia e nei tempi della Liturgia.

- San Giustino, dopo aver descritto tutto l'ordine della sinassi eucaristica, asserisce che questa viene celebrata in Domenica, perché in tal giorno Nostro Signore, « apostolis et discipulis visus, ea docuit, quae vobis quoque consideranda tradidimus».

Vuol dire dunque che le parti principali della Messa si facevano allorarimontare al Magistero di Cristo nel giorno della sua Risurrezione. Concediamo volentieri che l'asserzione sia generica; ma tanto Giustino quanto l'Anonimo del Testamentum Domini riflettono evidentemente una tradizione diffusa, antica e nient'affatto inverosimile. Del resto, l'uniformità stessa che nel campo liturgico si riscontra presso le Comunità cristiane dei primi due secoli, suppone un principio d'autorità, un metodo d'azione, cioè una organizzazione primitiva che dovette far capo più che agli Apostoli a Cristo medesimo».

La Liturgia al tempo degli Apostoli

Se dunque il Signore ha tracciato le linee fondamentali del Culto liturgico cristiano, è da credere che, per quanto Egli non ha definito, abbia lasciato grande libertà all'iniziativa illuminata degli Apostoli, che aveva investito della sua stessa divina missione ed ai quali aveva impartito le necessarie facoltà costituendoli non solo propagatori della Parola evangelica, ma anche ministri e dispensatori dei Misteri. Il potere liturgico era fondato e dichiarato perpetuo per vigilare alla custodia del deposito dei Sacramenti e delle altre osservanze rituali che il Pontefice supremo aveva istituito.

Gli Apostoli continuano dunque a stabilire e promulgare un insieme di riti. Ecco perché il Concilio di Trento, trattando nella sua 22ma sessione delle cerimonie auguste del Santo Sacrificio della Messa, dichiara che bisogna rapportare all'istituzione apostolica le benedizioni mistiche, i ceri accesi, le incensazioni, gli abiti sacri, e generalmente tutti i particolari atti a rivelare la maestà di questo grande Atto, e a portare l'anima dei fedeli alla contemplazione delle cose sublimi nascoste in questo profondo Mistero, per mezzo di questi segni visibili di religione e di pietà.

«Questo sacro Concilio osserva dom Guéranger - non era arrivato a produrre quest'affermazione per qualche congiuntura incerta, dedotta da premesse vaghe: esso parlava come parlavano i primi secoli. Esso invocava la tradizione primitiva, ossia apostolica, così come l'aveva eloquentemente invocata Tertulliano, sin dal III secolo [...]. Anche san Basilio segnala la tradizione apostolica come fonte delle stesse osservanze, alle quali aggiunge, come esempio, le seguenti: pregare verso l'oriente, consacrare l'Eucaristia nel mezzo di una formula di invocazione che non si trova registrata né in san Paolo, né nel Vangelo; benedire l'acqua battesimale e l'olio dell'unzione, ecc. E non solo san Basilio e Tertulliano, ma tutta l'antichità, senza eccezione, confessa espressamente questa grande regola di sant'Agostino, divenuta banale a forza d'essere ripetuta: "È molto ragionevole credere che una prassi conservata da tutta la Chiesa e non istituita dai Concili, ma sempre conservata, non può averla tramandata che l'autorità degli Apostoli"» (Guéranger).

Ma se gli Apostoli devono essere incontestabilmente considerati come i creatori di tutte le forme liturgiche universali, essi hanno pure dovuto adattare il rito, nelle sue parti mobili, ai costumi dei Paesi, al genio dei popoli, per facilitare la diffusione del Vangelo: da qui le differenze che regnano tra alcune Liturgie d'Oriente, che sono l'opera più o meno diretta di uno o più Apostoli, e la Liturgia d'Occidente, di cui una, quella di Roma, deve riconoscere san Pietro quale suo principale autore.

È certo che il Principe degli Apostoli, colui che aveva ricevuto da Cristo medesimo il "potere delle chiavi", non ha potuto essere estraneo all'istituzione o regolamento delle forme generali di Liturgia che i suoi fratelli portavano in tutto il mondo. «Dal momento in cui noi ammettiamo il suo potere di capo, dobbiamo ammettere, di conseguenza, la sua influenza principale in ciò come in tutto il resto, e riconoscere, con sant'Isidoro, che si deve far risalire a san Pietro, come istitutore, ogni ordine liturgico che si osserva universalmente in tutta la Chiesa. In secondo luogo, quanto alla Liturgia particolare della Chiesa di Roma, il solo buon senso ci fa comprendere che questo Apostolo non ha potuto dimorare a Roma, in quei lunghi anni, senza preoccuparsi di una materia così importante, senza stabilire, nella lingua latina e per il servizio di questa Chiesa, che egli rendeva per libera scelta madre e maestra di tutte le altre, una forma che, in considerazione delle varianti che necessitava la differenza dei costumi, del genio e delle abitudini, si confacesse almeno a quelle che egli aveva istituite e praticate a Gerusalemme, ad Antiochia, nel Ponto e nella Galazia» (Guéranger).

Bisogna tuttavia tener conto che la formazione della Liturgia attraverso gli Apostoli si è compiuta progressivamente. San Paolo, nella sua prima Lettera ai Corinti, ci mostra questa nuova Chiesa già in possesso dei Misteri del Corpo e del Sangue del Signore; tuttavia - con le parole « Caetera cum venero disponam» - dimostra di voler dare disposizioni più precise quanto alle cose sacre. «Tale è il senso che i santi Dottori hanno costantemente dato a queste parole che terminano il passo di questa Lettera dove si parla dell'Eucaristia: san Girolamo, nel suo commento succinto su questo passo, si spiega così: "Caetera de ipsius Mysterii Sacramento". Sant'Agostino sviluppa ulteriormente questo pensiero nella sua lettera ad Januarium: "Queste parole - dice - danno ad intendere che, allo stesso modo che egli aveva in questa lettera, fatto allusione agli usi della Chiesa universale (sulla materia e l'essenza del Sacrificio), egli istituì subito (a Corinto) questi riti in cui la diversità dei costumi non ha affatto ostacolato l'universalità"».

Attingendo dagli Atti e dalle Lettere degli Apostoli, come pure dalle testimonianze della tradizione dei primi cinque secoli, si possono - a grandi linee - ricostruire questi riti generali che, per la loro stessa generalità, devono essere ritenuti apostolici, secondo la regola di sant'Agostino sopra citata.

Il Sacrificio eucaristico nell'Evo apostolico

Dal racconto degli Atti degli Apostoli si desume l'esistenza di un rituale, semplice sì, ma fisso, e sostanzialmente completo, seguito uniformemente dagli Apostoli e dai loro collaboratori nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo, della Cresima, degli Ordini sacri, dell'Olio per gli infermi. Né si possono ignorare alcune antiche e preziose tradizioni, esistenti in talune chiese fondate dagli Apostoli, secondo le quali la Liturgia ivi vigente era un patrimonio ricevuto dagli stessi Apostoli. Tale la Liturgia di san Marco per la chiesa d'Alessandria; di san Giacomo per quella d'Antiochia, di san Pietro per la Romana. E sant'Ireneo, che per mezzo di san Policarpo si riannoda alla tradizione efesina di san Giovanni evangelista, accennando all'istituzione della Santissima Eucaristia, dichiara che la forma dell'oblazione del Santo Sacrificio, la Chiesa l'ebbe dagli Apostoli: « E parimenti... [Cristo] ha affermato che il calice è il suo sangue e ha insegnato il nuovo sacrificio [del nuovo Testamento] che la Chiesa, ricevendolo dagli Apostoli, offre a Dio in tutto il mondo» (citato da M. Righetti in Manuale di storia liturgica). Non diversamente si esprime san Giustino nella sua famosa Apologia (1,66): «Il Cristo ha prescritto di offrire; lo hanno prescritto a loro volta gli Apostoli, e noi facciamo a riguardo dell'Eucarestia ciò che abbiamo appreso dalla loro tradizione».

È evidente che, in campo liturgico, la prima preoccupazione degli Apostoli fu quella di regolare la celebrazione della divina Eucaristia. Non a caso la Frazione del Pane compare dalla prima pagina degli Atti degli Apostoli, e san Paolo, nella prima lettera ai Corinti, insegna il valore liturgico di quest'atto.

Ma il culto e l'amore che i santi Apostoli portavano a Colui con il quale questa Frazione del Pane li metteva in rapporto, li obbligava, secondo l'eloquente nota di san Proclo di Costantinopoli, di circondarlo di un insieme di riti e di preghiere sacre che non poteva compiersi che in un tempo abbastanza lungo: e questo santo Vescovo non fa che seguire in ciò il sentimento del suo glorioso predecessore, san Giovanni Crisostomo. Innanzitutto questa celebrazione, per quanto era possibile, aveva luogo in una sala dignitosa e ornata; poiché il Salvatore l'aveva celebrata così, nell'Ultima Cena, caenaculum grande, stratum» (Guéranger). Il luogo della celebrazione era costituito da un altare: già non era più una tavola. L'autore dellaLettera agli Ebrei lo dice con enfasi: «Altare habemus», abbiamo un altare (Eb 13,10).

Ecco come dom Guéranger - sulla base delle Lettere degli Apostoli e delle testimonianze patristiche - ricostruisce una Sacra Sinassi al tempo degli Apostoli. Una volta riuniti i fedeli nel luogo del Sacrificio, il Pontefice, nell'epoca apostolica, presiedeva innanzitutto alla lettura delle Epistole degli Apostoli, alla recita di qualche passo del santo Vangelo, che ha formato sin dall'origine la Messa dei Catecumeni; e non bisogna cercare altri istitutori di questo uso che gli Apostoli stessi. San Paolo lo conferma in più di un'occasione. Questa ingiunzione apostolica ebbe autorità di legge subito, poiché nella prima metà del II secolo, il grande apologista san Giustino attesta la fedeltà con cui la si seguiva, nella descrizione che egli ha dato della Messa del suo tempo (cf Apologia II). Tertulliano e san Cipriano confermano la sua testimonianza.

Quanto alla lettura del Vangelo, Eusebio insegna che il racconto delle azioni del Salvatore, scritto da san Marco, fu approvato da san Pietro per essere letto nelle Chiese: e san Paolo fa allusione a questo stesso uso, quando, designando san Luca, fedele compagno dei suoi pellegrinaggi apostolici, lo definisce come «il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo» (2Cor 8,18).

Il saluto al popolo con queste parole: «Il Signore sia con voi», era in uso sin dall'antica legge. Booz lo rivolge ai suoi mietitori (cf Rt 2,4) ed un profeta ad Asa, re di Giuda (cf 2Cr 15,2). «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20). Così la Chiesa mantiene questo uso degli Apostoli, come prova l'uniformità di questa pratica nelle antiche Liturgie d'Oriente e d'Occidente, secondo il chiaro insegnamento del primo concilio di Braga.

La Colletta, forma di preghiera che riassume i voti dell'assemblea, prima dell'oblazione stessa del Sacrificio, appartiene anch'essa all'istituzione primitiva, come dimostra la concordanza di tutte le Liturgie. La conclusione di questa orazione e di tutte le altre Liturgie con queste parole: «Nei secoli dei secoli», è universale, sin dai primi giorni della Chiesa. Quanto all'uso di rispondere Amen, non v'è dubbio che risalga ai tempi apostolici. San Paolo stesso ne fa allusione, nella sua prima epistola ai Corinti (cf 14,16).

Nella preparazione della materia del Sacrificio, ha luogo l'unione dell'acqua con il vino che deve essere consacrato. Quest'uso d'un così profondo simbolismo, secondo san Cipriano, risale fino alla tradizione stessa del Signore. Le incensazioni che accompagnano l'oblazione sono state riconosciute essere di istituzione apostolica dal Concilio di Trento.

Lo stesso san Cipriano ci dice che fin dalla nascita della Chiesa, l'Atto del Sacrificio era preceduto da un Prefazio; che il sacerdote gridava: Sursum corda, a cui il popolo rispondeva: Habemus ad Dominum. E san Cirillo, parlando ai catecumeni della Chiesa di Gerusalemme, Chiesa più d'ogni altra di fondazione apostolica, spiega loro l'altra acclamazione: «Gratias agamus Domino Deo nostro! Dignum et iustum est»!

Segue il Trisagio: «Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus»! Il profeta Isaia, nell'Antico Testamento, lo sentì cantare ai piedi del trono di Jahvè; nel Nuovo, il profeta di Pathmos lo ripete così come l'aveva sentito risuonare presso l'altare dell'Agnello. Questo grido d'amore e di ammirazione, rivelato alla terra, doveva trovare un'eco duratura nella Chiesa cristiana. Tutte le Liturgie lo riconoscono, e si può ben garantire che il Sacrificio eucaristico non è mai stato offerto senza che esso vi fosse proferito.

Quindi si apre il Canone. « E chi oserà non riconoscere la sua origine apostolica?», si chiede dom Guéranger. Gli Apostoli non potevano lasciare mutevole ed arbitraria questa parte principale della Liturgia sacra. Se hanno regolamentato molte cose secondarie, tanto più avranno determinato le parole e i riti del più temibile e fondamentale di tutti i misteri cristiani. « È dalla tradizione apostolica - dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo - che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone».

Dopo la consacrazione, mentre i doni santificati stanno sull'altare, trova la sua collocazione l'Orazione domenicale, poiché, dice san Girolamo: « È dopo l'insegnamento di Cristo stesso, che gli Apostoli hanno osato dire ogni giorno con fede, offrendo il sacrificio del suo corpo: Padre nostro che sei nei cieli».

Il Sacrificatore procede immediatamente alla Frazione dell'Ostia, facendosi in ciò imitatore non solo degli Apostoli, ma di Cristo stesso, che prese il pane, lo benedì e lo spezzò prima di distribuirlo.

Ma, prima di comunicarsi con la Vittima di carità, tutti devono salutarsi nel santo bacio. «L'invito dell'Apostolo - dice Origene - ha prodotto nelle Chiese l'uso che hanno i fratelli di scambiarsi il bacio quando la preghiera è arrivata alla fine».

Ecco quindi certificata l'origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese.

Certificata quindi l'origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese, da tale ricostruzione discendono alcune fondamentali conclusioni:

- la Liturgia istituita dagli Apostoli ha dovuto contenere necessariamente tutto quello che era essenziale alla celebrazione del Sacrificio cristiano e all'amministrazione dei Sacramenti, tanto sotto l'aspetto delle forme essenziali quanto sotto quello dei riti obbligatori per la decenza dei misteri, per l'esercizio del potere di Santificazione e di Benedizione che la Chiesa riceve da Cristo attraverso gli stessi Apostoli. Questo insieme liturgico ha dovuto comprendere tutto quello che si riconosce universale nelle forme del culto, nell'arco dei primi secoli, e di cui non si può designare l'autore o l'origine, secondo il su menzionato principio di sant'Agostino. Questo insieme primitivo di riti cristiani, già sufficientemente chiari e dettagliati, mostra come, sin dal suo sorgere, la Chiesa abbia avvertito la necessità di stabilire il culto con il quale doveva elevarsi il Sacrificio e la lode al Dio tre volte Santo.

- Eccezion fatta per un esiguo numero di allusioni negli Atti degli Apostoli e nelle loro Epistole, la Liturgia apostolica si trova interamente fuori dalla Scrittura, ed è di puro dominio della Tradizione. Sin dalle sue origini, dunque, la Liturgia è esistita più nella Tradizione che nella Scrittura. Ma ciò non deve meravigliare specie se si considera che la Liturgia si esercitava dagli Apostoli, e da coloro che essi avevano consacrato vescovi, sacerdoti o diaconi, molto tempo prima della redazione completa del Nuovo Testamento.

- I Padri del III e IV secolo assai di frequente, parlando di qualche rito o cerimonia in particolare, affermano che è d'origine o tradizione apostolica. Con tale espressione - che è scientificamente e storicamente inverificabile - i Padri volevano verosimilmente richiamarsi al periodo più antico della Chiesa dimostrando con ciò quanto fossero ancora vive, presso le varie Chiese, le memorie dell'attività liturgica degli Apostoli.

- In tutta l'antichità cristiana non si trova alcun indizio che accenni, come vogliono i Protestanti e certa corrente teologia, ad una diretta ingerenza delle Comunità nelle funzioni del Culto. La fissazione e la progressiva regolamentazione della Liturgia si mostra sempre compito esclusivo degli Apostoli e dei vescovi loro successori.

Alla fine del IV secolo si registrano queste pregnanti parole del papa san Siricio che rivelano tutta l'importanza dell'unità liturgica come fondamento dell'unità della Fede e del Dogma: «La regola apostolica - scrive - c'insegna che la confessione di fede dei vescovi cattolici deve essere una. Se v'è una sola fede, non vi sarà che una sola tradizione. Se v'è una sola tradizione, vi dovrà essere una sola disciplina in tutta la Chiesa». Di qui l'importanza dell'unità liturgica che è il dogma professato nelle formule sacre.

Risale proprio a questo periodo (430 ca.) il notissimo lemma, divenuto legge nella scienza liturgica: "lex orandi lex creclendi". Se esso è a tutti noto - forse non a tutti è noto l'autore e il complesso della citazione. Sembra che risalga al papa san Celestino il quale così scriveva ai vescovi della Gallia contro l'errore dei pelagiani: «Oltre ai decreti inviolabili della Sede apostolica che ci hanno insegnato la vera dottrina, consideriamo anche i misteri racchiusi nelle formule di preghiere sacerdotali che, stabilite dagli apostoli, sono ripetute nel mondo intero in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica cosicché la regola della fede deriva dalla regola della preghiera: ut legem credendi lex statuat supplicandi».

In conclusione, durante i primi tre secoli del Cristianesimo, v'era una sostanziale unità di riti. Si trattava naturalmente d'un'uniformità di sostanza più che di accidenti. Gradualmente i dettagli variabili vengono fissati ed entrano nella Tradizione della Chiesa, benché il rito rimanga ancora fluido, entro però delle linee ben stabilite.

(Fonte- Il settimanale di Padre Pio)

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