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La pena di morte è contraria al Vangelo?


Cosa pensare delle recenti affermazioni di

Papa Francesco sulla pena di morte?

di Don Jean-Michel Gleize

L’11 ottobre 2017, rivolgendosi ai partecipanti all’incontro organizzato dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Papa Francesco ha dichiarato che la pena di morte sarebbe «inumana», che «ferisce la dignità personale», che è anche «contraria al Vangelo».

Tutti i filosofi, i teologi e i papi che hanno sostenuto la legittimità della pena di morte, prima dell’attuale Sommo Pontefice, avrebbero tradito il Vangelo?

La pena di morte secondo Francesco
«Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante» (1). Così si è espresso ultimamente Papa Francesco, in occasione del XXV anniversario della pubblicazione del nuovo Catechismo. La riflessione non è nuova: il discorso di ottobre 2017 non fa che riprendere, riassumendole, le idee già largamente sviluppate dal Sommo Pontefice in una lettera del 2015 (2), la quale rinvia a due altri documenti del 2014 (3).
Francesco ritiene che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, abbia già condannato la pena di morte con la Lettera Enciclica Evangelium vitae (n° 56), così come nel Catechismo della Chiesa cattolica (n° 2267) (4). Nella condanna della pena di morte il papa include anche quella dell’ergastolo, che secondo lui è «una pena di morte mascherata» (5). Per questo motivo, il recente discorso dell’ottobre 2017 non intende promuovere una revisione del nuovo Catechismo del 1992, ma sottolinea soltanto che questa riprovazione della pena di morte dovrebbe trovare nel Catechismo di Giovanni Paolo II «uno spazio più adeguato e coerente» con il fine della dottrina, che dev’essere individuato ne «l’amore che non finisce». Un’eventuale revisione dovrebbe essere volta a far avanzare la dottrina pur conservandola, ma in modo tale da poter «tralasciare prese di posizione in difesa di argomenti che appaiono ormai decisamente contrari a una nuova comprensione della verità cristiana». Tali posizioni e argomenti conobbero il loro momento di gloria durante il periodo anteriore al Concilio Vaticano II, ma sono ormai contrari alla «mutata consapevolezza del popolo cristiano, il quale rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana».

I principali argomenti impiegati dal Papa per giustificare quest’evoluzione della coscienza (6), possono ridursi a quattro.

Prima di tutto: «la vita umana è sacra perché fin dall’inizio, dal primo istante del concepimento, è frutto dell’azione creatrice di Dio, e da quel momento, l’uomo, la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso, è oggetto di un amore personale da parte di Dio […] La vita, soprattutto quella umana, appartiene solo a Dio. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante».

La prova fornita a sostegno di questa tesi è che Dio non ha voluto punire Caino per il suo fratricidio privandolo della vita. Da questo punto di vista, la pena di morte apparirebbe logicamente contraria al quinto comandamento.
In secondo luogo, infliggere la morte a un colpevole non potrebbe equivalere a una giusta pena, per due ragioni.

Prima di tutto, perché la pena di morte non può essere considerata una «legittima difesa» da parte della società, per analogia con la legittima difesa personale; infatti, «quando si applica la pena di morte, si uccidono persone non per aggressioni attuali, ma per dei danni commessi nel passato», ed è per questo che la legittima difesa qui sarebbe senza oggetto, poiché si applicherebbe «a persone la cui capacità di recare danno non è attuale, ma già resa neutra, e che si trovano private della propria libertà».

Infine, perché la pena di morte non si può giustificare neanche come atto volto a ristabilire l’ordine leso dall’ingiustizia, in quanto «non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano». […] La pena di morte «non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta».
In terzo luogo, la pena di morte è contraria alla misericordia divina. «Con l’applicazione della pena capitale, si nega al condannato la possibilità della riparazione o della correzione del danno causato; la possibilità della confessione, con la quale l’uomo esprime la sua conversione interiore; e della contrizione, portico del pentimento e dell’espiazione, per giungere all’incontro con l’amore misericordioso e risanatore di Dio».

In quest’ordine di idee, la pena di morte implica inoltre «un trattamento crudele, disumano e degradante, come lo sono anche l’angoscia previa al momento dell’esecuzione e la terribile attesa tra l’emissione della sentenza e l’applicazione della pena».
In quarto luogo, «è impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone» (7), poiché «esistono mezzi per reprimere il crimine in modo efficace senza privare definitivamente della possibilità di redimersi chi lo ha commesso» (8).
Aggiungiamo infine il motivo per cui si può dire che la reclusione a vita è una pena di morte «nascosta» o «mascherata». Il Papa vi vede un attentato alla speranza: «La pena dell’ergastolo, come pure quelle che per la loro durata comportano l’impossibilità per il condannato di progettare un futuro in libertà, possono essere considerate come pene di morte occulte, poiché con esse non si priva il colpevole della libertà, ma si cerca di privarlo della speranza» [8a]. È per questo che da qualche tempo «nel Codice penale del Vaticano non c’è più l’ergastolo» (9).
Per riassumere, agli occhi di Papa Francesco la pena di morte è da ritenersi «inammissibile» in ragione del doppio argomento di autorità (essa è condannata dal nuovo Catechismo e dall’EnciclicaEvangelium vitae) e del quadruplice argomento di ragione: perché reca pregiudizio al carattere sacro della vita creata, perché è ingiusta e inefficace per ristabilire la giustizia, perché costituisce un ostacolo alla misericordia e perché altri mezzi di repressione sono già sufficienti.

La pena di morte secondo la dottrina cattolica tradizionale (10)
È un fatto del tutto evidente che, anche nelle società più cristiane, fu sempre ritenuto giusto – eccezion fatta per un certo numero di teorici perlopiù moderni – che l’autorità politica punisse alcuni crimini con la morte. Su questo punto, poi, i dati della Rivelazione confermano quelli naturali del senso comune.

Quando il Decalogo vieta di uccidere (11), sottintende «ingiustamente», poiché vediamo che anche il Vecchio Testamento prescrive a più riprese la pena di morte (12). Su questo punto, il Nuovo Testamento non ha abolito il Vecchio. San Paolo, parlando dell’autorità politica evoca la spada, strumento della pena di morte: «poiché essa [l’autorità] è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (13).

Nel De civitate Dei, Sant’Agostino commenta così i passi della Scrittura: «La stessa autorità divina che ha detto: “Tu non ucciderai”, ha stabilito certe eccezioni al divieto di uccidere l’uomo. Dio ha ordinato allora, sia con la legge generale sia per precetto privato e temporaneo, che si applichi la pena di morte. Ora, questi il cui ministero gli è dato dall’autorità, non è veramente omicida, ma è solo uno strumento, come la spada con cui egli colpisce. Quindi, coloro che su ordine di Dio hanno fatto la guerra o coloro che hanno punito dei criminali nell’esercizio del potere pubblico, conformemente alle leggi divine, e cioè conformemente alla decisione della più giusta delle ragioni, costoro non hanno per niente violato il “Tu non ucciderai”» (14).
Anche Papa Innocenzo III non fa che difendere una verità biblica e tradizionale quando agli eretici che vogliono rientrare nella Chiesa propone una professione di fede dove si dichiara, tra altre verità, che «il potere secolare può, senza peccato mortale, esercitare il giudizio di sangue, posto che esso castighi per giustizia e non per odio, con saggezza e non con precipitazione» (15).

Allo stesso modo, Leone X condanna l’affermazione di Lutero secondo la quale: «bruciare gli eretici è contrario alla volontà dello Spirito Santo» (16).

Leone XIII, quando condanna il duello, riconosce il diritto dell’autorità pubblica di infliggere la pena di morte (17).

Pio XII, infine, con notevole precisione dichiara: «Anche quando si tratta dell’esecuzione di un condannato a morte, lo Stato non dispone del diritto dell’individuo alla vita. In questo caso è riservato al potere pubblico privare il condannato del bene della vita in espiazione della sua colpa, dato che col suo crimine si è spossessato egli stesso del suo diritto alla vita» (18).
San Tommaso (19) ritiene che si possa perfettamente legittimare la pena di morte, anche nel diritto naturale, senza fare appello ai dati della Rivelazione soprannaturale. Questa legittimazione deriva da due princìpi, assolutamente necessari l’uno all’altro. Il primo (20) è la necessità del bene comune. Così com’è possibile, per salvare il corpo, amputare un membro in cancrena che minaccia l’insieme dell’organismo, allo stesso modo si potrà, per il bene di tutti, amputare dal corpo sociale uno dei suoi membri particolari qualora questi costituisca un pericolo per tutti; pericolo che può essere anche solo che altri crimini dello stesso genere vengano “autorizzati” dal suo esempio, se questo non viene sufficientemente punito. Questo primo principio, però, sufficiente per l’amputazione di un membro del corpo fisico, incontra nella sua applicazione al corpo sociale una difficoltà che lo porrebbe in difetto, se non si facesse intervenire un altro principio che lo completa. Nel corpo fisico, infatti, solo la persona è soggetto di diritto, mentre le diverse membra del suo corpo gli appartengono, senza che abbiano il minimo diritto particolare. È vero che di questo diritto la persona non può farne in assoluto quello che vuole, ma perché il suo diritto è partecipato da quello di Dio e riguarda soltanto l’uso delle membra nel rispetto delle loro finalità naturali. Cionondimeno, però, pur nel quadro di questa limitazione essenziale, la persona è padrona di tutto, mentre le membra non lo sono di niente. Al contrario, nel corpo sociale, quelli che si designano analogicamente come «membri» della società, sono delle persone che su se stesse e sulla loro vita corporale possiedono un diritto anteriore al diritto che anche la società ha. Esse non fanno parte della società, che è un tutto ordinato, esattamente nello stesso modo in cui le membra fanno parte del corpo, che invece è un tutto fisico, poiché «l’uomo fa parte della comunità politica secondo tutto quello che egli è» (21). Il bene in questione, che è la loro vita, appartiene – dopo di Dio – prima di tutto a esse, e non prima di tutto allo Stato. Ne deriva che il diritto dello Stato non può prevalere sul loro diritto personale. Bisogna dunque far intervenire un altro principio (22), secondo il quale, con il crimine l’uomo decade dalla sua dignità personale: «Con il peccato l’uomo si allontana dall’ordine prescritto dalla ragione; è per questo che egli decade dalla dignità umana che consiste nel nascere libero e nell’esistere per sé; in questo modo egli cade nella servitù che è quella delle bestie, così che si può disporre di lui secondo quanto è utile agli altri». Facendo uso della sua libertà per agire contro la natura e contro Dio, egli in realtà esce dai limiti entro i quali il suo diritto si esercita autenticamente. Merita quindi un castigo che sia dello stesso ordine di quei beni di cui ha usato malamente. Da quel momento, compete non solo a Dio, ma anche all’autorità umana privarlo non tanto del diritto alla vita – dato che questo diritto non dipende dall’autorità e che il criminale l’ha già perso in ragione del suo crimine – ma del bene della vita corporale, sulla quale egli non può più rivendicare il suo diritto personale. Questo è ciò che dice esattamente Pio XII, riprendendo la riflessione di San Tommaso: «è riservato al potere pubblico privare il condannato del bene della vita in espiazione della sua colpa, dato che col suo crimine si è spossessato egli stesso del suo diritto alla vita».
La dottrina della Chiesa, confermata dai lumi della ragione teologica, stabilisce né più né meno che, in ragione della legge naturale, l’autorità pubblica ha il diritto di infliggere la pena di morte. Questo non significa che la stessa legge naturale esiga l’esercizio di questo diritto da parte dell’autorità, e ancor meno che essa determini in quali casi questo diritto si debba imporre. In altre parole, nel concreto la pena di morte sarà sempre, nel quadro di una legislazione, una determinazione del diritto positivo umano, della legge civile, e quindi soggetta a modifica, a evoluzione o a limitazione. È dunque possibile, e non sarebbe illegittimo, sostenere che questo genere di pena non è opportuna in un dato contesto, e così reclamarne l’abolizione sul piano della legge umana civile; ma resta il fatto che l’autorità pubblica conserva sempre il diritto di mantenere o ripristinare la pena di qualora ne avverta il bisogno. E se l’opportunità richiedesse di non esercitarla, competerebbe alla stessa autorità la valutazione di tale opportunità.

Tuttavia, quelli che avanzano i loro argomenti in favore della soppressione della pena di morte, solitamente hanno il torto di voler provare che essa sarebbe contraria al diritto naturale o quanto meno – quando non hanno un’idea molto chiara di cosa sia questo diritto, il che è frequente – che sarebbe contraria a ciò che essi chiamano dignità della persona umana o valore incondizionato della vita.

Questi argomenti non sono quelli giusti: la pena di morte è conforme al diritto naturale. Altra cosa è la determinazione positiva di questo diritto, che avviene attraverso la legge civile. Sebbene non sia illegittimo reclamare l’abolizione della pena di morte, sarebbe falso e condannabile farlo in nome del diritto naturale; o in nome del Vangelo e della carità, che non possono rinnegare questo diritto naturale alla pena di morte.

Che pensare della visione di Francesco?
Essa non può appellarsi agli insegnamenti di Giovanni Paolo II. Infatti, questi distingue tra la legittimità di principio della pena di morte e l’opportunità del suo esercizio nel contesto delle società moderne. Il n° 56 di Evangelium vitae dice precisamente:

«È chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».

Quanto al n° 2267 del nuovo Catechismo (peraltro citato in Evangelium vitae), vi si dice né più né meno che «se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana».

Certo, non saremo noi a dire che questo insegnamento di Giovanni Paolo II si fa eco, in maniera totalmente soddisfacente, della Tradizione della Chiesa. L’eco è quantomeno indebolito, poiché la distinzione tra la legittimità di principio e l’opportunità dell’esercizio, se è presente, resta solo implicita e non viene detto che la pena di morte trae la sua legittimità dal diritto naturale, in ragione del doppio principio ricordato da San Tommaso d’Aquino. Ma qui si tratta solo di un’insufficienza, che non autorizza per niente l’impiego che ne fa da Papa Francesco.
Quanto ai quattro argomenti di ragione, alla luce dei principi ricordati da San Tommaso e ripresi da Pio XII essi si rivelano inefficaci e sofistici.

Il primo si basa sulla dignità inalienabile della persona e sul carattere sacro e inviolabile della vita umana, il che significa dimenticare che col peccato l’uomo perde la sua dignità e il suo diritto alla vita. Significa omettere la distinzione essenziale che esiste tra la dignità ontologica, irrevocabile, e la dignità morale, che l’uomo perde quando fa un cattivo uso della sua libertà. «Se è un male in sé», dice San Tommaso, «uccidere un uomo che conserva la sua dignità, può essere un bene mettere a morte un peccatore, così come si abbatte una bestia; si può anche dire con Aristotele che un uomo cattivo è peggio di una bestia e più nocivo» (23). Quanto al carattere inviolabile della vita umana, significa dimenticare che, come ricorda Pio XII, l’uomo criminale, col suo crimine, si è già «spossessato del suo diritto alla vita».
Il secondo argomento parte dal presupposto che la pena di morte non può essere una legittima difesa né può ristabilire l’ordine leso dall’ingiustizia. Questo significa confondere la pena di morte e la legittima difesa. Ogni legittima difesa implica una pena di morte, ma la pena di morte non si riduce a una legittima difesa, nel senso stretto della reazione di un aggredito nei confronti del suo aggressore, nel caso di un’aggressione attuale. La pena è il castigo meritato dal peccatore. D’altra parte, essa può rivelarsi non solo difensiva, ma anche preventiva e dissuasiva.

Quanto alla giustizia, essa consiste precisamente nel rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto, e non solo nel riparare un danno materiale. La morte di un criminale non ripara materialmente il suo crimine (essa non risuscita le sue vittime), ma fa giustizia, perché, quando colui che pecca portando pregiudizio all’ordine sociale accorda alla sua volontà un bene a cui essa non ha diritto, egli compensa così: vedendosi negato quello verso cui la sua volontà si rivolgerebbe per moto spontaneo: «Colui che col peccato ha seguito indebitamente la sua volontà, soffre qualcosa di contrario ad essa» (24). La privazione della vita costituisce in questo caso una giusta riparazione ed essa è richiesta dal bene comune dell’ordine sociale.
Il terzo argomento dimentica che la misericordia consiste nel rimettere la colpa commessa, ma non la pena. Il perdono sacramentale, d’altronde, è accompagnato da una penitenza e cioè da una pena volontariamente accettata. La pena di morte può esserne una e dare al condannato l’occasione per riscattarsi. Esempi di questo genere di situazione sono sufficientemente conosciuti, a cominciare da quello del buon ladrone.
Il quarto argomento potrebbe eventualmente portare a concludere che la pena di morte non è più opportuna, ma non che non è legittima.

Che dire di più?
Innanzitutto, la visione del Papa attuale rappresenta un’empietà nei confronti di tutta la Tradizione della Chiesa, accusata di aver odiosamente tradito il Vangelo. In secondo luogo, misconosce la gravità del peccato, che fa decadere la persona dalla dignità umana morale e merita un castigo proporzionato. Terzo, trascura il primato del bene comune della società e della Chiesa, bene che invece è migliore di tutti i beni particolari. Quarta, confonde la legittimità di principio con l’opportunità di fatto e così fa dipendere il valore delle cose dall’evoluzione della coscienza del popolo cristiano. Quinto e ultimo, si allontana perfino dalla linea seguita fin qui dai suoi predecessori dopo il Vaticano II.
Purtroppo per i cattolici di oggi si tratta di uno scandalo in più, dopo che è stata messa in questione la morale del matrimonio e si è proposta la riabilitazione di Lutero.



NOTE







4 – Lettera del 23 ottobre 2014.

5 – Lettera del 23 ottobre 2014 e Lettera del 20 marzo 2015.

6 – Sono specificati nella Lettera del 20 marzo 2015.

7 – Discorso del 23 ottobre 2014.

8 – Lettera del 20 marzo 2015.

[8a] – Lettera del 20 marzo 2015.

9 – Discorso del 23 ottobre 2014.

10 – Michel-Marie Labourdette, Cours de théologie morale, « La justice », pp. 100-105 (su 2a2ae, questione 64, articolo 2), Toulouse, 1960-1961; Charles Journet, L’Eglise du Verbe Incarné, t. I « La Hiérarchie apostolique », Desclée, 1955 (2a edizione rivista e aumentata), pp. 356-358.

11 – Esodo, XX, 13.

12 – Levitico, XX, 2; XX, 9-10; XX, 27; XXIV, 16-17.

13 – Romani, XIII, 4.

14 – Sant’Agostino, De Civitate Dei, libro I, capitolo 21, Migne, t. XLI, col. 35.

15 – Innocenzo III (1198-1215), Lettera Ejus exemplo, indirizzata all’arcivescovo di Tarragona, del 18 dicembre 1208, DS 795.

16 – Leone X (1510-1522), Bolla Exsurge Domine, del 15 giugno 1520, DS 1483.

17 – Leone XIII (1878-1903), Lettera Pastoralis officii, ai vescovi di Germania e di Austria, del 12 settembre 1891, DS 3272. Il Papa dice in effetti che «le due leggi divine, quella che è stata proclamata alla luce della ragione naturale e quella che lo è stata dalle Scritture composte sotto ispirazione divina, vietano formalmente che qualcuno, al di fuori di una causa pubblica, ferisca o uccida un uomo».



19 – Summa Theologiae, 1a2ae, questione 94, articolo 5, ad 2; questione 100, articolo 8, ad 3; 2a2ae, questione 64, articolo 2.

20 – 2a2ae, questione 64, articolo 2, corpus.

21 – Summa Theologiae, 1a2ae, questione 21, articolo 4, ad 3.

22 – 2a2ae, questione 64, articolo 2, ad 3.

23 – 2a2ae, questione 64, articolo 2, ad 3.

24 – 2a2ae, questione 108, articolo 4, corpus.

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