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Caro papa Francesco «extra Ecclesiam nulla salus»,torna a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, e l’osservanza dei comandamenti.

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Tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, raccomandare l’osservanza dei comandamenti, precisare il concetto di misericordia collegandolo alla giustizia, ricordare le conseguenze del peccato originale, ribadire che la legge divina universale ha valore oggettivo, riaffermare il primato del cattolicesimo e sottolineare che «extra Ecclesiam nulla salus», ripensare il dialogo ecumenico con i luterani aiutandoli a ritrovare la piena comunione con il romano pontefice, limitare gli interventi pubblici improvvisati, limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio.

Questi alcuni dei punti al centro di tre messaggi che un teologo italiano ha inviato di recente a papa Francesco, assieme a un’attestazione di stima e di affetto filiale per il pontefice.

Il teologo naturalmente non nasconde le sue perplessità circa il magistero di Francesco, ma, anziché scegliere la strada della polemica o della contrapposizione, ha preferito imboccare quella del suggerimento propositivo.

I tre messaggi sono stati inviati a Santa Marta, residenza del papa, tra la fine di giugno e l’inizio di questo mese di luglio. Ha fatto da tramite un religioso amico del teologo, un uomo di Chiesa che Francesco apprezza e che ha la possibilità di incontrare spesso il pontefice, a cadenza fissa, parlando con lui di tutto in modo aperto.

Sono in grado qui di riportare i contenuti delle tre lettere inviate al papa. Proponendoli ai lettori del mio blog non li sposo totalmente (per esempio, ho più di una perplessità circa ciò che il mittente sostiene a proposito di uso legittimo della forza). Non di meno giudico il contributo del teologo di grande importanza sia sotto il profilo delle questioni affrontate, perché aiuta il dibattito su questo pontificato a uscire da una certa indeterminatezza, sia sotto il profilo della strategia, perché fa capire che, pur in presenza di sensibilità diverse, c’è sempre la possibilità di collaborare con sincerità per il bene della Chiesa, a salvaguardia della fede e soprattutto per la gloria di Dio.



Sedici proposte

Sarebbe bene che il Papa parlasse di alcuni contenuti di fede, a integrazione dei temi che egli già sta trattando nella sua predicazione.
Bisogna tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, che serve a distoglierci dal peccato ricordando le sue conseguenze, senza abbandonare la confidenza.
Ma questa confidenza dev’essere motivata dall’osservanza dei comandamenti e dalle opere buone, anche se è vero che queste a loro volta sono effetto della grazia. Dio ci giustifica, ma noi abbiamo il dovere di essere giusti. Dio ci salva solo se osserviamo i suoi comandamenti (Mt 19,17). E’ vero che noi possiamo convertirci a Lui, se Egli si converte a noi; ma vale anche l’inverso: Egli si converte a noi, se noi ci convertiamo a Lui, come dice il Concilio di Trento. Non possiamo infatti presumere di salvarci senza meriti.
Occorre quindi ricordare che Dio, nel suo sapiente giudizio, non usa sempre nei nostri confronti la misericordia, ma anche la severità. Egli perdona il peccato del peccatore pentito, ma castiga il peccatore ribelle, affinché rifletta e si converta.
Non bisogna credere che un Dio che castiga sarebbe un Dio crudele senza misericordia. Dio castiga paternamente, per il nostro bene e non usa la misericordia full-time, in modo indiscriminato, ma con saggezza e discernimento, solo a tempo e a luogo, sempre a fin di bene. Se Dio non fa misericordia, manifesta la sua bontà nella giustizia. E se non fa misericordia è solo perché l’uomo nel suo orgoglio la rifiuta.
Occorre ricordare le conseguenze del peccato originale. Il permanere della malizia degli uomini giustifica in certi casi l’uso della forza e della coercizione. Le operazioni belliche non sono quindi sempre effetto dell’odio e della violenza, ma possono essere giustificate anche nel nome della giustizia o della libertà, e quindi nel nome di Dio, vindice degli oppressi. Dio non vuole la violenza, ma la vittoria sui suoi nemici. Egli farà giustizia nella vita futura dei delitti restati impuniti in questa vita.
L’ostilità della natura nei nostri confronti è una delle conseguenze del peccato originale e può essere anche castigo salutare dei nostri peccati. Se così non fosse, si cadrebbe nell’errore di ammettere una natura cattiva indipendente da Dio, il che non ha senso.
Occorre ricordare il senso cristiano della sofferenza. Cristo con la sua Croce ha trasformato in mezzo di riparazione e di salvezza il castigo del peccato: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di Lui»
(Is 53,5). «Satisfecit pro nobis», come dice il Concilio di Trento. La santa messa è appunto l’attualizzazione incruenta di questo Sacrificio redentore. La sofferenza degli innocenti dev’essere associata alla Croce del Signore.
Il peccato mortale causa la perdita della grazia, che dev’essere riacquistata col pentimento e le opere della penitenza. Non può essere in grazia né fruire della divina misericordia chi si trova in peccato mortale e non vuole uscire da questo stato.
Occorre ricordare che il peccato mortale non espiato merita l’inferno. Occorre dire anche che l’esistenza di dannati nell’inferno ci avverte che non dobbiamo prendere alla leggera il peccato con la scusa che Dio perdona, ma ricordarci della nostra parte di responsabilità nell’opera della nostra salvezza. Se infatti Dio vuole tutti salvi e dà a tutti i mezzi per salvarsi, tuttavia non si salva chi non corrisponde liberamente all’opera della grazia.
La legge morale naturale e la legge divina evangelica sono norme oggettive, universali, immutabili, ed indispensabili, benché possano essere sempre meglio conosciute nel corso della storia. Non ammettono eccezioni, ma devono essere sempre applicate in modi diversi a seconda delle situazioni e dei vari casi. Per esempio, la norma divina dell’indissolubilità del matrimonio. Invece il Papa, in forza del potere delle chiavi, può mutare la legge ecclesiastica, per esempio, quella riguardante la proibizione della Comunione ai divorziati risposati.
Bisogna ricordare l’importanza del dogma come interpretazione infallibile ed assolutamente vera, fatta dalla Chiesa, della Parola di Dio, morale o teoretica, contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, e per conseguenza occorre ricordare il nostro dovere di riconoscere e respingere le eresie, secondo gli avvertimenti della Chiesa.
Il buon pastore ha comprensione e pietà per le debolezze umane, ma dev’essere esigente e severo contro la malizia, l’arroganza e l’empietà. Egli propone con chiarezza la norma morale nella sua elevatezza ed assolutezza, senza sconti, ma poi deve aiutare il prossimo con pazienza, fermezza e dolcezza nella graduale realizzazione del fine da raggiungere. Nessuno è tenuto all’impossibile, ma deve fare tutto quello che può chiedendo aiuto a Dio. Occorre evitare la rigidezza nella pastorale, ma essere duttili e flessibili, senza cadere nel permissivismo. Occorre invece essere fermi e ben fondati nella fedeltà alla legge di Dio, così da costruire sulla roccia.
L’opera più grande di Dio per l’uomo non è la misericordia, ma la glorificazione dell’uomo come figlio di Dio. In paradiso Dio non esercita più la misericordia, dato che non ci sono più miserie da togliere. E lo stesso dicasi dei beati. Il Papa dovrebbe parlare di più della vita eterna e del fine ultimo dell’uomo. La sua pastorale è troppo racchiusa nei doveri di questo mondo.
Il vertice della nostra carità non è la misericordia, ma la contemplazione del mistero trinitario. In paradiso non c’è più bisogno della misericordia, ma tutta la nostra vita si riassume nella beata visione di Dio. Il nostro problema fondamentale non è il problema della salvezza, ma vedere Dio.
Dio non è necessitato dalla sua essenza divina a far misericordia, come se il suo esercizio completasse la sua essenza, ma agisce per un liberissimo atto – «liberrimo consilio» dice il Concilio Vaticano I
– di amore gratuito. Dio è perfetto e felice anche senza il mondo. Siamo noi che non possiamo neppure esistere senza di Lui. Gesù Cristo certamente è Dio. Ma la natura umana di Cristo non completa la natura divina, non le è necessaria, ma si aggiunge ad essa rimanendole distinta, in quanto assunta dal Verbo in unità di Persona.
Occorre ricordare il primato del cattolicesimo sulle altre religioni e che solo nella Chiesa c’è salvezza, come insegna il Concilio di Firenze, benché l’appartenenza alla Chiesa possa essere inconscia.



Questi dunque i sedici punti al centro della prima lettera. E qui ecco il testo della seconda, inviata qualche giorno dopo.



Altri nodi centrali

Nel caso che il Santo Padre si degnasse di considerare benevolmente le mie proposte, mi permetterei di aggiungerne altre, che vorrebbero cogliere i nodi centrali della questione della predicazione del Papa e ai quali potrebbero ridursi le proposte precedenti.

Il nodo numero uno, principio di tutti gli altri, secondo me, è il rapporto del Papa con i luterani e quindi la questione dell’ecumenismo. La coscienza delle verità di fede, che abbiamo in comune con loro, è ormai chiara. Tuttavia occorre fare un passo ulteriore.

Il Papa, da padre buono, che vuole attorno a sé e con sé tutti i suoi figli, dovrebbe adesso, con coraggio e decisione, sulle orme di grandi santi come san Leone Magno, san Gregorio VII, sant’Ignazio di Loyola, san Domenico di Guzman, san Giovanni di Colonia, il beato Marco d’Aviano, san Pietro Canisio, san Roberto Bellarmino, san Francesco di Sales, porsi alla ricerca della pecorella smarrita e alla guida della seconda fase di quanto l’«Unitatis redintegratio» prescrive a noi cattolici: aiutare i fratelli separati ad entrare nella piena comunione col Romano Pontefice, togliendo quegli «ostacoli» e quelle «carenze», cioè quelle eresie già a suo tempo segnalate da Leone X e dal Concilio di Trento, che appunto impediscono a questi fratelli di essere in piena comunione con noi.

L’Europa potrà ritrovare le sue radici cristiane e tornare a svolgere la sua missione evangelizzatrice irradiante da Roma, solo quando essa, con i suoi «due polmoni», come disse Papa san Giovanni Paolo II, tornerà ad essere unita attorno al Romano Pontefice. L’Europa fa bene ad accogliere l’immigrazione islamica, me deve operare per la conversione a Cristo degli islamici.

Se il Papa non dà il via a questa seconda fase dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, i luterani in particolare penseranno di essere a posto, e così i cattolici si sentiranno attratti dall’etica luterana, meno esigente e prona a questo mondo. La Chiesa, invece di allargare i suoi confini, li restringerà.

Per imboccare questa via, il Santo Padre dovrebbe chiarire che i modernisti, e soprattutto Karl Rahner, hanno frainteso in senso lassista e relativista il vero significato dell’ecumenismo e più in generale delle dottrine del Concilio, come già aveva fatto notare Papa Benedetto XVI, affermando che il vero progresso non sta nella rottura ma nella continuità. Il Concilio non ha mutato i dogmi della fede, ma ce li ha fatti capire meglio. La fedeltà deve sposarsi col rinnovamento.

D’altra parte, il Santo Padre dovrebbe riconoscere ai lefebvriani di aver ragione nel sostenere che è dovere del Successore di Pietro insegnare infallibilmente e conservare fedelmente il deposito della fede e difenderlo dall’eresia, ma nel contempo dovrebbe ricordar loro che, come ha detto Papa Benedetto XVI, per essere in piena comunione con la Chiesa essi devono accettare le dottrine del Concilio, il quale conferma l’immutabile verità della fede, rendendola meglio comprensibile e meglio predicabile al mondo moderno.

Se il Concilio ha qualcosa di discutibile, come lo stesso Papa Benedetto ammise rivolgendosi ai lefebvriani, ciò riguarda una certa tendenza buonista della sua pastorale, un certo pacifismo utopista, che sembra supporre – come crede Rahner – che tutti siano orientati a Dio, tutti siano in buona fede e di buona volontà; il che non è purtroppo vero, dato che tutti risentiamo delle conseguenze del peccato originale e ci sono anche i «figli del diavolo» (I Gv 3,10).

La Chiesa, pertanto, fa bene ad aprirsi al dialogo con tutti, ma non può promettere misericordia e salvezza a chi non pratica la misericordia. Essa pertanto, mentre non deve cessare di predicare che a tutti è aperto l’ingresso nel regno dei cieli, deve recuperare una giusta severità con i prepotenti, gli ipocriti, i superbi, fedifraghi, gli impostori e gli empi, individuati con sapiente discernimento, senza per questo cadere negli eccessi del passato.

Senza cessare di predicare l’amore disinteressato, la Chiesa deve tornare ad incutere nei peccatori induriti – nei «corrotti», come dice il Papa – un salutare timor di Dio, che distoglie dal peccato e induce ad osservare le sue sante leggi. Pur alimentando in tutti la speranza, la Chiesa non deve temere di tornare a minacciare l’inferno, come ha fatto Nostro Signore, ai ribelli e agli impenitenti. Deve tornare a dire che, se tutti possono salvarsi, non tutti di fatto si salvano.

Certi nemici ostinati ed arroganti della verità, della giustizia e della pace non possono essere fermati col dialogo, ma solo con la severità. Né la Chiesa deve temere di promuovere, all’occorrenza, lo stesso uso della forza, proprio in nome di Dio, per farsi vindice degli oppressi e degli umiliati. Si ricordi del «Magnificat».

Dio non vuole la morte di nessuno, ma non tollera l’ingiustizia ed è il supremo Vindice di tutti i torti e di tutti gli scandali. Altrimenti gli oppressori continueranno a farsi beffe di Dio e ad essere oppressori e gli oppressi continueranno ad essere oppressi, tentati alla disperazione e a bestemmiare Dio.

Inoltre, il Papa ha da Cristo il supremo compito di favorire e promuovere all’interno della Chiesa l’unità, la concordia e la pace in un legittimo pluralismo. Una Chiesa che sia lacerata da discordie non può dare una testimonianza credibile del Vangelo. Occorre pertanto a mio giudizio che il Santo Padre si impegni maggiormente in questo nobilissimo compito di pacificazione, per il quale lo Spirito Santo gli ha donato un carisma speciale.

Inoltre il Papa nella Chiesa è il supremo moderatore nell’amministrazione della giustizia tra parti avverse, per cui al Papa si richiede una suprema imparzialità nel giudicare le controversie e un esemplare equilibrio nel risolverle. Pensiamo per esempio al contrasto fra i lefebvriani e i modernisti, che è sotto gli occhi di tutti da cinquant’anni. Ebbene, ormai da molti episodi risulta, purtroppo, che il Papa è troppo severo con i primi e troppo indulgente con i secondi.

È urgente, quindi, e quanto mai auspicabile, una convergenza nella verità e nella carità tra lefebvriani e modernisti attorno all’unico Padre e Pastore, i primi rinunciando alla polemica amara e offensiva, i secondi all’adulazione e alla falsificazione modernista della Parola di Dio. Gli uni e gli altri sono fatti per completarsi reciprocamente e fraternamente nell’unica verità e nella carità: i primi con l’apporto della tradizione, i secondi con quello del progresso, secondo la formula aurea «progresso nella continuità».

È bella e incoraggiante la lode che spesso il Santo Padre fa dei martiri. Bisogna però che Egli sia più chiaro nel ricordare che la loro perseveranza, resistenza e fortezza nascono dalla fedeltà assoluta all’immutabile verità e dalla radicazione irremovibile su quella roccia e su quel valore non negoziabile che è Cristo.

Se il cristiano è luce del mondo, tra tutti deve esserlo in un modo eminente il Vicario di Cristo. Bisogna pertanto che Egli, nella sua opera di promozione umana, indichi più chiaramente a tutta l’umanità e alle religioni il fine ultimo dell’uomo, che è quello di esser chiamato alla figliolanza divina in Cristo e alla visione beatifica.

La Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli, sostenga il Vicario del suo Figlio nella lotta vittoriosa contro le potenze del male.



Sulla comunicazione del papa

E infine ecco il testo della terza lettera, nella quale il teologo, rivolto all’amico religioso chiamato a fare da tramite, si dedica al modo in cui il papa si esprime.



Carissimo Padre, approfittando della sua bontà e se non chiedo troppo, vorrei aggiungere altre proposte oltre a quelle che Le ho già fatto giungere.
Sarebbe bene che il Santo Padre limitasse i suoi interventi pubblici improvvisati o a braccio su temi che possono toccare la fede e la morale, specie in occasione di interviste. Ciò per due motivi:
a) Limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio, che può prestarsi all’equivoco o alla strumentalizzazione da parte dei media;
b) limitare l’espressione, come dottore privato, di idee estemporanee od opinioni non sufficientemente ponderate o fondate, che possono essere prese come pronunciamenti del magistero pontificio, col rischio inverso che il magistero possa esser preso con leggerezza.
Il Santo Padre o chi per lui, per esempio la Congregazione per la Dottrina della fede o teologi fedeli, qualificati ed esperti, dovrebbe vigilare maggiormente sulla purezza dottrinale, che dev’essere irreprensibile, integerrima ed esemplare, espressa da membri del collegio cardinalizio o dell’episcopato o da ufficiali della Santa Sede, che dovessero mancare in questa delicatissima materia, affinché il popolo di Dio non ne soffra scandalo e non rischi di essere allontanato dalla retta via della verità e della morale evangelica. Se il pastore è colpito, il gregge si disperde (cf Zc 13,7).
Il Santo Padre dovrebbe intrattenere un maggior dialogo col popolo di Dio, mancando il quale ne può risentire il prestigio del magistero pontificio e la saldezza della fede nei fedeli:
a) rispondendo a rispettose richieste di chiarimento, osservazioni od obiezioni legittime, in materia grave e provenienti da membri qualificati. Se non lo fa, può dare l’impressione che le critiche abbiano colto nel segno;
b) chiarendo equivoci, o dissipando malintesi sorti da interpretazioni false o tendenziose di larga risonanza di suoi pronunciamenti in materia grave, provenienti dai media o da ambienti seri e qualificati. Astenendosi dal far ciò, c’è il rischio che le dette interpretazioni appaiano valide;
Suggerimenti circa le attività ecumeniche del Papa.
a) Fa bene a promuovere l’ecumenismo della carità. Tuttavia l’«Unitatis redintegratio» fa comprendere chiaramente che il problema di fondo è quello della verità: i fratelli separati, per non restare separati, devono correggere i loro errori. La carità e l’unità si fondano sulla verità. Dal falso nasce il peccato e la divisione. Occorre evitare chiusure e rigidezze, saper cogliere le sfumature, essere accondiscendenti e flessibili. Ma non c’è una via di mezzo tra il vero e il falso (Mt 5,37; Ap 3,15);
b) far capire ai fratelli separati che la coesistenza pacifica e la collaborazione reciproca di cristiani di diverse confessioni sono sì ottima cosa, ma senza dar l’impressione che tale diversità possa essere omologata alla normale diversità-reciprocità intraecclesiale che intercorre, per esempio tra Gesuiti e Domenicani.
c) ricordare che esistono diversi gradi di comunione con la Chiesa e che chi non è in piena comunione deve raggiungerla. Nessuno deve stare sulla soglia e tutti sono invitati al banchetto, purché tutti abbiano l’abito di nozze (Mt 22, 1-14).
d) ricordare altresì che Cristo ha affidato a Pietro il compito di procurare l’unità del suo gregge nella verità e di chiamare a sé le pecore disperse. Altrimenti c’è il rischio che si diffonda l’indifferentismo.



Nel segno della libertà

Ecco, queste le tre lettere che il teologo ha consegnato all’amico religioso e quest’ultimo ha portato a Santa Marta, sottoponendole all’attenzione del papa. Il teologo mi ha chiesto di mantenere assoluta riservatezza sul nome del religioso. Mi ha lasciato libero, invece, di decidere se svelare o meno la sua identità. Al momento ho preferito non svelarla, perché penso che in questo modo il dibattito sulle proposte inviate al papa potrà svilupparsi più liberamente. Lo spero.

Aldo Maria Valli

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