«Chiesa povera per i poveri»: cosa vuol dire la frase di papa Francesco che lo rende popolare fin dall’inizio del suo pontificato e gli attirò anche le simpatie di tanti laici da sempre insofferenti alla Chiesa? Ma davvero la Chiesa dovrebbe privarsi di tutte le sue ricchezze per essere più vicina ai poveri? Le cose non stanno così.Che aiuto può dare al povero uno più povero di lui? Parafrasando il Vangelo, due ciechi finiscono in un fosso e due poveri muoiono di fame.Che sia chiaro che il Papa intendesse “vicinanza” ai poveri la Chiesa con i suoi Vescovi cardinali clero e popolo di Dio lo ha sempre fatto dagli albori del cristianesimo.(tra i quali ci sono anche gli impoveriti spiritualmente, che sono anche di più) e, perciò, aiuto concreto. Ora, mettiamo pure da parte l’aspetto spirituale, che poi è anche l’unico motivo per cui la Chiesa fa quel che fa. E proviamo a immaginare che il sogno di certuni si realizzi e la Chiesa sparisca. Chi dovrebbe gestire, sfamare, recuperare, accogliere l’enorme massa di poveri, clochard, tossici, drop-out ed emarginati che lo Stato si ritroverebbe sulle spalle? I cattolici lo fanno gratis et amore Dei. Lo Stato non avrebbe le risorse, né per stipendiare chi dovrebbe farlo né i milioni di poliziotti necessari a reprimere le rivolte continue che ne scaturirebbero.Quando il beato Paolo VI vendette la tiara pontificia.
Il ricavato andò ai poveri e l’oggetto in un museo di Washington. Risultato (concreto): i poveri mangiarono un giorno. E l’indomani riebbero fame. La tiara, prima visibile gratuitamente a tutti, ora se vuoi vederla devi prendere l’aereo e pagare l’ingresso al museo. Ma chi odia Cristo e i suoi a prescindere si comporta come l’ultimo elencato da Carlo Cipolla. L’indefesso impegno per amare Cristo produce i Santi, che fanno il bene di se stessi e degli altri. L’indefesso e insonne impegno per odiarLo è un boomerang. Non è l’amore a essere cieco, è l’odio.
È necessario fare una chiarificazione: bisogna distinguere tra miseria e povertà. La miseria è una situazione di vita pessima, da non augurare a nessuno, perché si tratta della peggiore piaga, in quanto uno diventa dipendente da tutto e da tutti. La miseria logora non solamente la dignità umana, ma anche le capacità intellettive, rendendo la persona incapace, anche a livello mentale, di mettere in atto azioni e potenzialità per uscirne. Insomma, la miseria conduce ad un degrado progressivo della persona a tutti i livelli. Oggi bisogna parlare di miseria economica che colpisce ancora molto il Sud del mondo; e i responsabili sono gli stati, no il clero e la sua gerarchia, ma anche di miseria relazionale che dilaga soprattutto nel mondo occidentale, generando gli stessi effetti degradanti dall’altra miseria.
Il problema del rapporto tra ricchezza e fede cristiana si presentò molto presto alla chiesa delle origini. Clemente di Alessandria (150-215) scrisse una omelia, Quale ricco si salverà? [Q.d.s.], per rispondere ai dubbi e alle domande che i ricchi cristiani gli ponevano sulla possibilità di conciliare ricchezza e fede, avendo presenti le parole di Gesù nell’episodio del ricco in Mc 10,17-31, che, se interpretate in modo letterale, appaiono categoriche e senza alternative nella esclusione dei ricchi. Spesso in modo semplicistico si sintetizza il contenuto di quest’opera affermando che Clemente sostenga in essa soltanto la libertà dai rigidi legami al danaro e al possesso interpretata come libertà interiore. In realtà la sua argomentazione è molto più complessa, e non può essere così banalizzata. Se è vero che Clemente parte da una prospettiva di fede e non da una ideologica, politica o sociologica per cui attesta anche riguardo al problema delle ricchezze il primato del rapporto con Dio, egli, lungi dallo spiritualizzare il problema, fa scaturire da presupposti spirituali scelte estremamente concrete. È evidente che, dovendo parlare ai ricchi di salvezza, questa trovi la sua radice prima ancora che nelle scelte pratiche nella novità dell’annuncio di Gesù, nella conoscenza di Dio e della sua grazia (Q.d.s. 7;8) perché questo genera la novità di vita (Q.d.s. 12). Prima ancora che vendere e dare tutto ai poveri, la cosa che manca al ricco di Mc 10,17-31 è l’aderire alla persona di Gesù, “dimorare nella grazia di colui che procura la vita eterna” (Q.d.s. 10), ma questo comporta conseguenze pratiche. La prima di queste conseguenze sarà un distacco interiore: distaccare il cuore dalle ricchezze, senza che ciò obblighi a disfarsene materialmente del tutto. Anzi per Clemente la ricchezza può anche essere un bene perché consente di aiutare chi ha bisogno, cosa che non si potrebbe fare se nessuno possedesse dei beni; Zaccheo e il buon samaritano ne sono l’esempio lampante (Q.d.s. 13). Questa visione tutta teologica ed interiore offre l’occasione per parlare anche della povertà. Se infatti l’essere ricchi non è considerato un male, a condizione che sia senza avidità e passione, il divenire poveri può essere un male perché reca con sé la carenza delle cose necessarie (Q.d.s. 12). Inoltre la povertà senza libertà dalle passioni o per “ottenere inutile fama e gloria effimera” come in certe filosofie e “senza conoscere Dio e la giustizia di Dio” non dà la vita (Q.d.s. 11). Chi si limitasse a questi presupposti teologici del problema, farebbe passare il pensiero di Clemente per pura teologia intimistica che non gli appartiene assolutamente. In realtà Clemente offre delle coordinate molto concrete che compariranno nuovamente in seguito in molti altri Padri. Anzitutto Clemente sostiene che “ogni sostanza che ciascuno trattiene per sé come fosse un bene privato e non mette in comune con chi si trova nel bisogno, diventa qualcosa di iniquo” (Q.d.s. 31). Il ricco inoltre non deve aspettare che il bisognoso bussi alla sua porta per condividere con lui i suoi beni, ma lo deve “cercare” (Q.d.s. 31): “se è necessario percorri tutta la terra” (Q.d.s. 32). Il povero non è, per Clemente come per altri Padri, oggetto di elemosina, ma soggetto di diritti lesi cui è urgente fare giustizia. L’impegno attivo di condivisione nasce infatti dal fatto che non è il povero “che ha ricevuto l’ordine di ricevere, bensì sei tu [il ricco] che hai avuto quello di dare” (Q.d.s. 32). Questa generosità inoltre non deve fare discriminazioni, ma a imitazione di quella di Dio (Q.d.s. 31) va rivolta, distribuendo “senza lamentele, senza distinzioni, né reticenze” (Q.d.s. 31), a chiunque: “Non voler giudicare chi è degno e chi non lo è” (Q.d.s. 33). Così, al contrario, chi si sente padrone dei propri beni e li gestisce in modo non solidale, non può considerarsi cristiano. Anzi, secondo Clemente, il ricco che, fattosi cristiano, continua “a trattenere per se e a nascondere i beni di questo mondo” e li nega agli altri è “omicida: seme di Caino, discepolo del diavolo, non ha il cuore di Dio, non ha la speranza di cose più grandi; è sterile, è secco; non è un tralcio della vigna celeste che vive in eterno” (Q.d.s. 37). I Padri che in seguito riprenderanno l’argomento (Origene, Basilio Magno, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Cirillo di Alessandria fra i padri greci, Cipriano, Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano, Agostino fra i latini), pur nelle loro specificità, concorderanno con Clemente almeno su tre punti da tutti considerati irrinunciabili: la bontà dei beni in sé, l’uguaglianza degli uomini, il dovere di condividere fino a sollevare la condizione del povero. Basilio Magno poi puntualizza ancor meglio alcune delle coordinate clementine. Anzitutto stigmatizza quello spiritualismo devoto che si coniuga facilmente con la mancanza di solidarietà: “So di molti, che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e sospirano, che praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non sganciano un soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non per questo li si ammetterà nel regno dei cieli!” (Basilo, Hom. VII, in divites, [H.VII i.d.] 3). Precisa poi che: “È in questo modo che si diviene ricchi: in virtù del solo fatto di essersi impadroniti per primi di ciò che è di tutti” (Basilio, Hom. VI, de avarizia [H.VI d.a.], 7). Basilio sottolinea perciò che i beni della terra provengono da Dio, sono sua proprietà e gli uomini ne sono solo “gli amministratori”, non i padroni che possono farne ciò che vogliono (Basilio, H.VI d.a., 2): “Devi pensare che ciò che tieni tra le mani è cosa altrui” (Basilio, H.VI d.a., 2). Perciò chi accumula ricchezze in forma egoistica e non solidale è un “ladro” (Basilio, H.VI d.a., 7) e “manca di carità” (Basilo, H.VII i.d., 1), cioè dell’amore di Dio. L’attuazione della condivisione infine, se non costringe necessariamente a diventare poveri, è evidente tuttavia che non permette neppure di restare ricchi: “Se ciascuno prendesse per sé solo ciò che basta per le sue necessità, lasciando ciò che resta a disposizione di quanti ne hanno bisogno, forse nessuno sarebbe ricco, ma neppure vi sarebbe qualcuno povero” (Basilio, H.VI d.a., 7). Il fatto è che spesso si crede di aver bisogno delle ricchezze per venire incontro alle proprie “necessità”, secondo quella mentalità tipica della società consumistica che Basilio aveva già smascherata nel IV secolo: “Quando possiedi una bella somma, già vai desiderandone un’altra uguale. Appena l’hai ottenuta, ecco che subito vai bramando di raddoppiarla. E così via: ogni volta, ciò che aggiungi non sazia il tuo desiderio di possesso, ma semplicemente accende di nuovo la tua avidità” (Basilio, H.VII i.d., 2). È necessario dunque non solo condividere i beni, ma cambiare stile di vita perché questo sia possibile.
Non come BERGOGLIO che vive in un Albergo a 5 ***** e ha tutto Quello che vuole perchè lui povero non va a vivere con i poveri immigrati Room fuori de Vaticano? GESÙ viveva co gli apostoli assistiti da donne ricche la sua veste la TUNICA però era PREZIOSA ma chi l'ha ordinato prete !
RispondiEliminaPovertà, misericordia, carità, tenerezza, tutti validi strumenti per erodere la dottrina, per distruggere la Chiesa, come l’abbiamo conosciuta, trasformandola in una sorta di setta evangelica. Per appiattirla sul mondo e le sue esigenze, per adeguarla alla mentalità dominante fra i fedeli che non amano essere “educati” o “guidati”, che sono assetati non di istanze superiori, ma di analogie dal basso. E’ una strategia vecchia come il cucco, la stessa – per dire – adottata da Giuseppe II d’Austria quando commissionò a Mozart “Le Nozze di Figaro”. Aristocratici e servitori uniti da brame, desideri, bassezze morali capaci di colmare ogni distanza sociale. È la medesima strategia di Francesco, Papa di una Chiesa in piena apostasia. Il gesto “popolare” come cavallo di Troia della dottrina, della struttura, dei contenuti etici e teologici del Cattolicesimo. Tutto svuotato attraverso il continuo ricorso a questi quattro principi: povertà, misericordia, carità, tenerezza (e semplicità ossia celebrazione dell’informalità). Non c’è nulla di severo, nessuna condanna.Ecco, la Chiesa si autodemolisce. Resta l’appiccicosa e melensa lagna della misericordia e della tenerezza. Lagna perché alla misericordia si dà il senso di una porta sempre aperta, di una lettura consumistica della pietà e della pazienza divina che annienta il senso stesso del peccato e della redenzione. Si evocano solo il candore e l’assenza di pretese. Concetti che arrestano ogni accusa, perché come fai ad accusare qualcuno che si mostra candido e tenero, indifeso, autentico, veramente cristiano, povero, umile, praticamente un santo… Ma quando un “santo” non è affatto scomodo, non è un punto interrogativo per il mondo, non una pietra d’inciampo per il potere e la sua voce (i media), non un fastidioso pungolo per non credenti e cattolici pigri, non un temibile nemico per vecchi volponi di curia, bensì l’esatto contrario, allora c’è da chiedersi se questa “santità” non sia piuttosto un instrumentum regni funzionale proprio a quel “potere” che dovrebbe essere ostile ad ogni forma di santità, uno strumento strategico, insomma, ben pianificato dal collegio cardinalizio, ma viziato da una vetustà ideologica di fondo.
EliminaCome si allontana ogni dissenso, ogni critica, per demolire il Cattolicesimo dall’interno? Semplicemente riproponendo le solite amenità degli anni ’60. Amenità che ritroverete comodamente in uno straordinario Guareschi, quello di “Don Camillo e don Chichì”. Anche in quel caso il prete “innovatore” si chiamava Francesco (la povertà francescana era un must dell’ideologia conciliare).