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Mons. Marcel Lefebvre: un profeta del XX secolo

In un clima ecclesiale dominato dai “profeti“ del rinnovamento conciliare, si contrappone alla marea montante un Vescovo che dichiaratamente non guarda al futuro, ma al passato. Ma il futuro della Chiesa tende sempre più a rispecchiarsi in lui che negli araldi del nuovo, perché la Tradizione è la Chiesa stessa, la sua eterna giovinezza e, dunque, inevitabilemnte il suo futuro.

Appare senz’altro curioso il concetto di profezia emerso dai documenti del Concilio Vaticano II. Mentre infatti, da una parte, assistiamo ad una enfatizzazione di questo elemento, fino ad insistere fortemente su tale funzione attribuita ad ogni battezzato , dall’altra, specialmente nel famoso discorso di apertura di Giovanni XXIII, notiamo una severa stigmatizzazione dei cosiddetti «profeti di sventura» che il Pontefice così descrive: «Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali con- 1 Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, 12: AAS 57 (1965), 16. Vedi anche Catechismo della Chiesa Cattolica n. 785. dizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo»2 . In realtà, secondo la definizione sia letterale che teologica, i profeti sono coloro che parlano in nome di Dio. Nell’Antico Testamento - ma anche, in una accezione più ampia, per ciò che riguarda molti santi cristiani - costoro annunziano sia le sventure, sia la Salvezza venuta all’uomo tramite l’Incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, sia le piaghe d’Egitto, sia la vittoria della nuova Eva, Maria, sul ser- pente diabolico. Non è, dunque, impor- tante che la profezia contenga buone noti- zie o punizioni celesti, ciò che è davvero fondamentale è che sia vera e rispecchi, in ogni sua parte, la Verità rivelata. Secondo i canoni del sopracitato discorso, del resto, sarebbe fin troppo facile arruolare fra i deprecati «profeti di sventura» addirittura la Madonna di Fatima che annunciò, nei suoi messaggi ai tre pastorelli, la Seconda Guerra mondiale e le terribili persecuzioni del comunismo ateo. Ma, di fatto, il post-concilio capovolse l’idea tradizionale rispetto all’ispirazione dello Spirito Santo. 
2 Giovanni XXIII, Solenne allocutio di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962
«Dagli anni Sessanta in poi, dentro la Chiesa, chiunque si sia alzato a con- testare l’autorità e la gerarchia è stato accolto come profeta da un popolo di Dio entusiasticamente inclinato al tumulto. Se a concetti come “profezia” e “popolo di Dio” si aggiungono quelli di “carisma”, “comunione” e “segni dei tempi” si completa l’abbecedario attorno al quale ha proliferato la deriva anti-romana che, dopo il Concilio, ha investito il corpo ecclesiale»3 . Vorrei dunque esaminare se, ed in che senso, si possa parlare di “profezia” nella vita e nell’opera di Mons. Marcel Lefebvre (1905-1991). Proverò a proporre alcuni sintetici spunti di riflessione basati anzitutto sugli avvenimenti accaduti nel periodo post-conciliare e, ancor di più, nei venti anni successivi alla scomparsa del Vescovo francese, fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Prenderò in esame, senza alcuna pretesa di esaustività, essenzialmente tre aspetti del suo Magistero episcopale. In ognuno di questi ambiti, senza tema di poter essere smentito, a distanza di due decenni dalla morte, ogni osser- vatore intellettualmente onesto non potrà negare che Mons. Lefebvre aveva ragione, mentre la quasi totalità degli ecclesiastici e dei commentatori catto- lici del tempo presero, magari in buona fede, dei grandi abbagli. La crisi Nei primi anni successivi alla chiu- sura del Concilio Vaticano II scoppiò, all’interno della Chiesa, una crisi senza 3 A. Gnocchi - M. Palmaro, La bella Addormentata, ed. Vallecchi 2011, pag. 101. L’Arcivescovo di Torino, Cardinale Michele Pellegrino (1903-1986), uno dei maggiori “profeti” del «rinnovamneto conciliare» precedenti. Migliaia di sacerdoti lasciarono il ministero, vi furono un crollo verticale delle vocazioni, un annacquamento delle regole negli ordini religiosi, una flessione sempre più accentuata della pratica domenicale fra i fedeli. Nonostante, però, l’evidenza della situazione, assolutamente drammatica, gli ecclesiastici di allora, e anche, in buona parte, quelli di oggi, pur non perdendo occasione per far riferimento ai «segni dei tempi», si mostrarono assolutamente ciechi ed incapaci di comprendere la realtà, anche esibendosi in discorsi del tipo: «Una volta i cristiani erano tali solo per abitudine. Oggi sono meno ma, grazie al Concilio, più con- vinti». Altri si lanciavano in discettazioni circa una supposta «crisi di crescenza» del mondo cattolico. I più, si limitavano semplicemente a chiudere gli occhi, tra- volti dalla declamazione retorica sulla «nuova Pentecoste» o cullati in una fidei- stica e irrazionale fiducia nel futuro. Non mancarono, infine, e conti- nuano a non mancare, coloro che impu- tavano la crisi, non allo smantellamento sistematico di dottrina, catechismo e liturgia, ma alla non sufficiente messa in pratica dello spirito, naturalmente “profetico”, del Concilio. Ma tutti questi “profeti” oggi, tranne qualche sparuta pattuglia di irriducibili, ormai anziani, non osano quasi più far sentire la propria voce. Paiono soltanto vecchi tromboni sfiatati, che nessuno più ascolta e che riescono, sempre più faticosamente, a farsi sentire da qualche nostalgico, grazie al mega- fono dei grandi organi di informazione ecclesiali, sempre devotissimi al fascino archeologico dei “dinosauri”. Cosa diceva, invece, nei medesimi anni, Mons. Marcel Lefebvre? Per dare una risposta ci baseremo essenzialmente su un documento assai significativo, una lettera inviata dal presule francese al Card. Alfredo Ottaviani (1890-1979), prefetto del Sant’Uffizio. La missiva risale al 1966, quando il Concilio cioè era stato appena chiuso ed ancora non si erano evidenziati i fenomeni più gravi degli anni successivi. «Oso dire che il male attuale mi sembra molto più grave della negazione o messa in dubbio di una verità della nostra fede. Esso si manifesta, attualmente, con una confusione estrema delle idee, con la disgregazione delle istituzioni della Chiesa, istituzioni religiose, seminari, scuole cattoliche, insomma di ciò che è stato il sostegno permanente della Chiesa, ma altro non è che la continuazione logica delle eresie e degli errori che minano la Chiesa da alcuni secoli, specialmente a partire dal liberalismo del secolo scorso, che si è sforzato, ad ogni costo, di conciliare la Chiesa e le idee sfociate nella Rivoluzione. La Chiesa ha fatto dei progressi nella misura in cui si è opposta a tali idee, che vanno contro la sana filosofia e la teologia; al contrario, ogni compromesso con queste idee sov- versive ha provocato un allineamento della Chiesa al diritto comune e il rischio di renderla schiava delle società civili». Sono parole sicuramente molto diverse. Già in quel tempo infatti l’Arci- vescovo francese può osservare alcune linee di tendenza inequivocabili all’in- terno della Chiesa, analizza tali orienta- menti con estrema lucidità e ne identifica, senza grande difficoltà, le cause prossime e remote. E per tutto il resto della sua vita egli non cesserà mai di denunciare e condannare le deviazioni dottrinali di molti uomini di Chiesa, mostrando, nel contempo, le conseguenze disastrose che avrebbero portato. «Bisogna dunque concludere, costretti dall’evidenza dei fatti, che il Concilio ha favorito in maniera inconce- pibile la diffusione degli errori liberali. La fede, la morale, la disciplina eccle- siastica sono scosse dalle fondamenta, secondo le predizioni di tutti i Papi»4 . Certamente, nella lettura di Mons. Lefebvre, il fenomeno storico ed eccle- siale del Concilio Vaticano II, con i suoi documenti e le vicende che lo con- traddistinsero, non è separabile dagli avvenimenti successivi. Il Concilio, in altre parole, non rappresenta certa- mente l’unica causa della crisi, ma non si può negare che abbia notevolmente contribuito alla sua deflagrazione negli ultimi decenni del XX secolo. «Si può e si deve disgraziatamente affermare che, in linea quasi generale, quando il Concilio ha fatto delle inno- vazioni, ha scosso la certezza delle verità insegnate dal Magistero autentico della Chiesa come appartenenti definitiva- mente al tesoro della Tradizione. Sia, che si tratti della trasmissione della giurisdi- zione dei vescovi, delle due fonti della Rivelazione, dell’ispirazione scritturale, della necessità della Grazia per la giusti- ficazione, della necessità del battesimo cattolico, della vita della Grazia presso 4 Mons. Marcel Lefebvre, Lettera al Card. Ottaviani, 1966. 14 La Tradizione Cattolica gli eretici, gli scismatici e i pagani, dei fini del matrimonio, della libertà religiosa, dei novissimi, ecc. Su questi punti fondamenti la dottrina tradizionale era chiara e insegnata unanimemente nelle università cattoliche. Invece, molti testi del Concilio permettono ormai di dubi- tare di queste verità»5 . La Messa Esiste, però, fra i molti altri, un ulteriore punto in cui la profezia di Mons. Marcel Lefebvre si mostrò asso- lutamente lucida e precisa. La cosiddetta riforma liturgica del 1969 fu infatti quasi universalmente salutata come un evento che avrebbe finalmente riportato grandi masse di fedeli nelle chiese e riavvicinato il «popolo di Dio» alla frequenza religiosa almeno festiva. Arrivava la «actuosa partecipatio», l’astruso latinorum andava in soffitta ed ognuno avrebbe potuto capire tutto quello che avveniva sull’Altare, le musiche e i canti ritmati avrebbero attratto maggiormente i giovani, le preghiere divenivano più vicine alla sensibilità dell’uomo moderno, il prete guardava finalmente in faccia l’assemblea senza darle maleducatamente le spalle, la parola di Dio aumentava la sua presenza nella Messa, il sacerdote diventava «uno di noi» e non si manteneva, come una volta, lontano e vestito con ricchi ed anacronistici paramenti. Tutto era stato attentamente stu- diato da grandi esperti allo scopo di inco- raggiare sempre di più la partecipazione dei cattolici alle funzioni parrocchiali. Ecco come si esprime, ancora quest’anno, ad esempio, il “grande liturgista” benedettino p. Ildebrando Scicolone: «Oggi, grazie alla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, si partecipa più e meglio di prima: ascoltiamo e comprendiamo le letture, cantiamo, portiamo le offerte, facciamo la comunione; ma questa è la partecipazione rituale. Bisogna comprendere che attraverso il rito (per ritus et preces) dobbiamo esprimere anche la nostra partecipazione all’evento»6 . 5 Ibidem. 6 P. Ildebrando Scicolone osb: “L’Eucarestia fa la Chiesa: itinerario di catechesi liturgica”, Vicariato di Roma, Ufficio Liturgico, 2011. Questa certezza di favorire la partecipazione ai sacri riti attraverso gli stravolgimenti apportati al Messale Romano, affiora anche dalle parole del Santo Padre Paolo VI, pronunciate nel giorno in cui si avviava ufficialmente il processo di riforma liturgica: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perchè la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina. La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento, il Concilio lo ha suggerito e deliberato, e questo per rendere intelliggibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa»7 . Mons. Lefebvre si mantenne, invece, sempre fermamente ancorato alla Santa Messa di sempre. Ne difese vigorosamente l’integrità e la purezza. Sapeva benissimo - ed in tal senso ripeteva spesso l’adagio lex orandi lex credendi - che alterare questo tesoro avrebbe comportato, come in effetti avvenne, la perdita di aspetti essen- ziali della fede. Quando, inoltre, ci si allontana in qualche modo dalla fonte perenne della verità, per basarsi ultima- mente su elementi prettamente umani, alla fine vien meno anche l’interesse degli stessi uomini, che cercano in realtà la dimensione trascendente della vita. 7 Paolo VI, Discorso dell’Angelus di domenica 7 marzo 1965. Monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), il padre del Novus Ordo Missae 15 La Tradizione Cattolica Profilo profetico Padre Ildebrando Scicolone «Se la croce di Nostro Signore sparisse, se il Suo corpo e il Suo sangue non fossero più resi presenti, gli uomini finirebbero col ritrovarsi intorno a una tavola deserta e senza vita. Nulla più li unirebbe. Di qui, senza dubbio, quello scoraggiamento, quella noia, quella cupa tetraggine che cominciano a diffondersi ovunque. Di qui la crisi delle vocazioni, che non hanno più motivo. Di qui quella secolarizzazione e profanazione del sacerdote che non trova più la sua ragion d’essere. Di qui quell’appetito mondano. Per colpa di questa concezione protestante della Santa Messa, Gesù abbandona a poco a poco le chiese, così spesso profanate» . Come negare l’autentica profezia di queste poche parole, pronunciate nell’omelia del Corpus Domini nel 1969? Quando la liturgia diventa esclusivamente un fatto umano, finisce per annoiare e non attrae più, perché manca della sua dimensione verticale, della sacralità che permette all’uomo di salvarsi nel Sacrificio di Cristo. È ciò che purtroppo si è verificato negli anni successivi. Il Sacerdozio Così come per la frequenza domenicale dei fedeli, è senz’altro indubbio l’impressionante crollo delle vocazioni sacerdotali verificatosi nei cinque 8 Mons. Marcel Lefebvre, Vi trasmetto quello che ho ricevuto, Ed. Sugarco 2010. decenni che ormai ci separano dall’apertura del Concilio. Diventa quanto mai urgente interrogarsi sul perché di questa débâcle che ha colpito, soprattutto ma non solo, i paesi di più antica cristianiz- zazione come l’Europa e l’America. Per fornire una spiegazione credi- bile si sono invocate ragioni di natura squisitamente sociologica: la secolarizzazione del mondo contemporaneo, il materialismo dilagante, il consumismo ecc. È senz’altro probabile che tutti questi elementi abbiano contribuito alla crisi vocazionale ma, altrettanto onestamente, bisogna riconoscere che tale spiegazione non appare esaustiva sul piano squisitamente storico. Altre religioni, come, ad esempio, l’Islam, pare che non abbiano particolarmente sofferto di questi processi sociali ed inoltre, per rimanere in ambito cattolico, possiamo notare come le congregazioni più legate alla Tradizione, contrariamente a quelle fortemente influenzate dallo spirito del Concilio, hanno senz’altro subito minori contraccolpi negativi sui loro organici. Anche qui dunque, come già visto prima, i cosiddetti “profeti” del Concilio, hanno sbagliato nettamente le loro previsioni. Secondo loro infatti, per attrarre i giovani alla vita sacerdotale, bisognava, in sostanza, renderla più facile; abbas- sando l’asticella, in altre parole, ci sarebbero stati più atleti in grado di saltarla. Ecco allora la rinuncia alla veste talare, l’aggiornamento delle regole nei conventi, l’esaltazione dell’impegno sociale dei parroci, l’attribuzione ai laici di varie funzioni liturgiche, come l’amministrazione della Santa Comunione. Sempre nella medesima logica “profetica”, oggi si propongono insistentemente la rinuncia al celibato e l’ordinazione delle donne. Ma fu l’idea stessa di sacerdote cattolico a mutare sostanzialmente dopo il Concilio. Vorrei soltanto, in tal senso, riportare due testi che entrambi, uno prima e l’altro dopo il fatidico 1965, tendono ad esporre organicamente l’essenza di tale concetto. Partirei, ma ci sono davvero migliaia di esempi, da un breve passo scritto da sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787): 16 La Tradizione Cattolica «Non mai alcun sacerdote dirà la messa colla divozione dovuta, se non ha la stima che merita un tanto sacrifi- cio. È certo che non può un uomo fare un’azione più sublime e più santa, che celebrare una messa: Nullum aliud opus, dice il concilio di Trento, adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse, quam hoc tremendum mysterium. Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un’azione più grande, che del celebrarsi una messa. Tutti i sacrifici antichi, con cui fu tanto onorato Iddio, non furono che un’ombra e figura del nostro sacrificio dell’altare. Tutti gli onori che han dati giammai e daranno a Dio gli angeli co’ loro ossequi, e gli uomini colle loro opere, penitenze e martirii, non han potuto né potranno giungere a dar tanta gloria al Signore, quanta gliene dà una sola messa; mentre tutti gli onori delle creature sono onori finiti; ma l’onore che riceve Iddio nel sacrificio dell’altare, venendogli ivi offerta una vittima d’infinito valore, è un onore infinito. La messa dunque è un’azione che reca a Dio il maggior onore che può darsegli: è l’opera che più abbatte le forze dell’inferno; che apporta maggior suffragio all’anime del purgato- rio; che maggiormente placa l’ira divina contro i peccatori, e che apporta maggior bene agli uomini in questa terra»9 . Passiamo ora a quanto scritto da un altro successore degli Apostoli, Mons. Sebastiano Dho, Vescovo emerito di Alba e fiero oppositore del Motu Proprio Summorum Pontificum: «Il sacerdozio ministeriale non ha altro scopo se non quello di essere a servizio del sacerdozio comune dei fedeli (compresi, lo ripetiamo, i ministri stessi!) affinché possano, in effetti, partecipare ai sacramenti e offrire il vero culto spirituale, come detto sopra sviluppato al n. 11; paradossalmente, ma non troppo, potremmo dire che se è vero che non possono e non debbono mancare i ministri ordinati perché i fedeli laici siano in grado di vivere la fede, è altrettanto vero che se per ipotesi venissero a man- care tutti i fedeli non avrebbe più senso lo stesso ministero ordinato! Dunque tutti partecipi dello stesso sacerdozio di Cristo, ma strettamente e indissolubilmente uniti, “ordinati l’uno all’altro”, per cui il dono specifico (ministero ordinato) ha senso unicamente nel e per il dono comune (sacerdozio)»10. Difficile reperire due discorsi più antitetici sul medesimo argomento. Ma, scendendo sul piano pratico e mettendoci nei panni di un giovane intenzionato ad entrare in seminario ci chiediamo: quale delle due prospettive si rivela oggettivamente più coinvol- gente ed entusiasmante? Quella di fare il “presidente” dell’assemblea che celebra la cena e poi occupare tutto il resto dei propri giorni in faccende sociali, sindacali, politiche, burocratiche… oppure quella di portare la Salvezza agli uomini tramite la celebrazione incruenta del Santo Sacrificio della Croce e perdonare i peccati aprendo alle sue pecorelle le porte del Paradiso? 9 S. Alfonso Maria de’ Liguori, La Messa e l’Ufficio strapazzati, parte I. 10 Mons. Sebastiano Dho, Sacerdozio e ministero ordinato in «Vita Pastorale», 2010, n 2, febbraio.Per quale motivo, inoltre, bisognerebbe altresì rinunciare alle gioie di farsi una famiglia, per poi svolgere un’attività di assistente sociale, coordinatore di gruppi vari, animatore, al massimo di educatore? Mons. Lefebvre si rendeva perfettamente conto della gravità di queste contraddizioni e cercò sempre, confortato dal gran numero di seminaristi che a lui si rivolsero, di dimostrare quanto fosse sublime il ruolo del prete cattolico, difendendone, nel contempo, l’identità e la funzione ecclesiale davvero insostituibile. Leggiamo alcuni passi dalla Lettera aperta ai cattolici perplessi: «Ho sotto gli occhi alcune fotografie, pubblicate da giornali cattolici, che rappresentano la messa così come spesso oggi vien celebrata. Osservando la prima, stento a capire di qual momento del Santo Sacrificio si tratti. Dietro un qualunque tavolo in legno, che non ha l’aria di esser neanche molto pulito e non è nemmeno coperto da una tovaglia, due personaggi in vestito e cravatta elevano o presentano l’uno un calice, l’altro un ciborio. […] Sullo stesso lato del tavolo, accanto al primo celebrante, due ragazze in pantaloni; accanto al secondo, due ragazzi in maglietta. E una chitarra appoggiata contro uno sgabello. […] Un tratto comune viene in luce da queste vedute scandalose: l’Eucaristia vi è degradata al rango d’un atto quotidiano, nella volgarità dell’ambientazione, delle suppellettili usate, degli atteggiamenti, delle vesti indossate. […] Rimaniamo certamente infastiditi da una messa che si è sforzata di scendere al livello degli uomini invece di elevarli verso Dio e che, mal compresa, non permette di risolvere e superare “i problemi”. L’in- coraggiamento a spingersi ancora più lontano mostra una volontà deliberata di distruggere il sacro. Il cristiano viene così derubato di qualcosa che gli è necessario, a cui aspira, perché portato a onorare e a riverire tutto ciò che ha una relazione con Dio. E a maggior ragione le materie del Sacrificio destinate a diventare il Suo Corpo e il Suo Sangue! 



[…] La desacra- lizzazione si estende alle persone votate al servizio di Dio, con la scomparsa del- l’abito ecclesiastico per i preti e i religiosi, col chiamarsi per nome, con l’uso del tu, col modo di vita secolarizzato in nome di un nuovo principio, e non, come si cerca di far credere, per necessità pratiche»11. Chi fu dunque davvero profeta? Chi osannava il «ministro ordinato» al servizio del sacerdozio comune, chi sperimentava i «preti operai», chi teoriz- zava il sacerdote «uomo fra gli uomini» e poi, a distanza di mezzo secolo, si è tro- vato i seminari vuoti e le chiese chiuse oppure, molto più semplicemente, chi ha continuato lungo la strada della Tra- dizione ed oggi deve, come la Fraternità Sacerdotale San Pio X negli Stati Uniti, avviare la costruzione di nuove case di formazione perché quelle vecchie sono ormai troppo piccole? Conclusione Ho cercato di accennare soltanto a tre argomenti su cui è innegabile rilevare le qualità di profeta di Mons. Lefebvre. In realtà ce ne sarebbero anche molti altri che il poco spazio a disposizione non mi consente di approfondire. Egli condannò, ad esempio, l’astrusità e la pericolosità della nuova architettura sacra: oggi tale problema viene avvertito, a parole, anche da molti ecclesiastici e commentatori laici. Rilevò, 11 Mons. Marcel Lefebvre, Lettera aperta ai catto- lici perplessi, ed. Priorato Madonna di Loreto 1987, pp. 23-24.da una parte, la crisi di autorità nella Chiesa e, dal lato opposto, si mostrò sempre fortemente avverso al sedeva- cantismo. Attualmente, possiamo a tal proposito rilevare che ci sono sempre più vescovi apertamente disobbedienti al Papa, specialmente in campo liturgico ma non solo, ma, d’altro canto, il sede-vacantismo, come un albero cattivo, non ha dato frutti copiosi se non gruppuscoli polverizzati e clerici vagantes. Difese sempre il catechismo di San Pio X, impostato su una serie di semplici domande e risposte. Come negare che ai giorni nostri, con i volumetti scritti in modo discorsivo e con i metodi pedagogici “aggiornati”, i bambini che arrivano alla prima comunione non sanno più neppure il Padre Nostro o i dieci comandamenti? Ma, forse, in fin dei conti, il frutto più straordinario della profezia di Mons. Lefebvre fu proprio la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Essa fu giudicata infatti anacronistica, poco attenta ai «segni dei tempi», nostalgica, autoritaria, assurda nel XX secolo, priva di prospettive. Ma, nonostante tutti gli attacchi, provenienti dall’interno della Chiesa come dal mondo laicista, essa non solo è sopravvissuta alla tempesta post-conciliare, ma si sta sempre più ampliando e consolidando. Per tutto questo dobbiamo davvero essere riconoscenti al suo fondatore, uomo di Dio che seppe, in ogni circostanza, parlare ed agire per la gloria del Creatore e della sua Santa Chiesa.

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