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Quando fa comodo l’ermeneutica della rottura



di don Gabriele D'Avino

Il Sinodo sulla famiglia è terminato, le falsità dottrinali e storiche no. A volte, queste ultime servono alla causa dei novatori, e se ne fa abbondante uso per appoggiare posizioni del tutto insostenibili.

Per cui, quando serve invocare la continuità del “magistero” postconciliare con il vero Magistero di sempre, non si esita a distorcere il senso comune delle parole e a forzare i testi; altre volte, per appoggiare una evidente attuale innovazione, non si esita ad addurre fantomatici esempi di presunte “rotture” dottrinali già avvenute in epoca passata, in tempi diremmo “non sospetti”.

È il caso di un noto vaticanista che, pochi giorni fa, entusiasta della conclusione del Sinodo, scriveva un articolo, pubblicato su Vatican Insider per spiegare la portata del celebre paragrafo 85 della Relatio finale, quella sui sacramenti ai divorziati risposati.

Si legge infatti in questo articolo (evidentemente per giustificare la grave portata del problema che costituirebbe un’innovazione rivoluzionaria nella prassi ecclesiastica) che “in campo matrimoniale, in materia di insegnamenti sulla morale sessuale, sono avvenuti cambiamenti significativi. È Pio XII, negli anni Cinquanta, che, contro il parere del Sant'Uffizio, decide di aprire ai metodi naturali per la paternità responsabile, cioè la possibilità per gli sposi di distanziare le nascite dei figli attraverso il calcolo dei periodi fertili della donna e l'astinenza dai rapporti in quei periodi. L'immediato predecessore di Papa Pacelli, Pio XI, nell'enciclica «Casti connubii» (1930) vietava esplicitamente questa possibilità.”

Ora, ragionando serenamente: in primo luogo, è semplicemente falso che Pio XI vietasse esplicitamente la prassi della continenza periodica seguendo i periodi agenesici; infatti, se da un lato il Pontefice della Casti Connubii condannava alla luce della Dottrina Cristiana gli atti intrinsecamente cattivi relativi alla sessualità (parliamo di contraccezione e onanismo matrimoniale[1]), dall’altro invece ammette, sempre coerentemente con i princìpi generali della morale cristiana, l’uso corretto dell’atto coniugale anche se, non per industria umana, esso è infecondo: “Né si può dire che operino contro l’ordine di natura quei coniugi che usano del loro diritto nel modo debito e naturale, anche se per cause naturali, sia di tempo, sia di altre difettose circostanze, non ne possa nascere una nuova vita” (Casti Connubii, parte II). Pio XI non si dilunga, è vero, su tale aspetto, si limita soltanto ad accennarlo; ciò è dovuto forse – a nostro avviso, salvo meliori iudicio – ad una conoscenza non ancora precisa sull’attendibilità del calcolo della fecondità femminile. Studi seri in tal senso videro la luce attorno al 1923, dati più certi si ebbero all’inizio degli anni ’30: ora appunto l’enciclica in questione data del 1930…

In secondo luogo, la cosiddetta “apertura” di Pio XII a tali metodi (che riecheggia nient’altro che i soliti princìpi generali della morale applicati ad un caso concreto e per certi aspetti nuovo, data la novità dell’indagine scientifica in questo campo), tale apertura, dunque, è in realtà ben ristretta a casi precisi che non devono mettere in discussione la fecondità del matrimonio; papa Pacelli afferma senza esitare che “la liceità morale di una tale condotta dei coniugi [l’uso dei periodi agenesici, N.d.R.] sarebbe da affermare o da negare, secondo che l’intenzione di osservare costantemente quei tempi è basata, oppure no, su motivi morali sufficienti e sicuri”[2]. D’altra parte il Pontefice non esita a proporre, come soluzione alternativa alla impossibilità di una maternità in un caso concreto (per motivi sanitari o altro), la perfetta continenza, previo accordo tra i due coniugi, affermando decisamente che essa non è impossibile, con l’aiuto della grazia divina. Dunque, perfetta continuità nel Magistero tra Pio XI e XII.

Il nostro vaticanista continua, affermando un’altra presunta “rottura” tra la prassi ecclesiastica precedente, che negava la comunione ai divorziati risposati, e l’apertura di papa Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, dove (secondo lui) si dice che tali categorie di persone possono ricevere la comunione a patto di vivere come fratello e sorelle. Una specie di anticipazione alla conclusione del Sinodo insomma.

Ora, senza negare le molteplici pericolose dottrine contenute in detto testo di papa Wojtyla, va detto che le affermazioni in merito almeno a questa questione non sono da considerarsi una vera apertura, e basterebbe rileggerle (e citarle con precisione…). Eccole dunque:

“La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. […] La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi.”[3]

Si tratta qui della Confessione – la quale aprirebbe, si noti il condizionale, la strada alla comunione – e dunque di due problemi diversi. Il papa, è vero, omette di precisare in che condizioni si possa eventualmente accedere alla comunione.

Ecco, quindi, il Pontefice polacco citato a sproposito: la Familiaris consortio non parla se non indirettamente della comunione ai divorziati risposati; inoltre il criterio per ammettere questa categoria di persone all’assoluzione sacramentale, sebbene incompleto (non si parla sufficientemente della riparazione dello scandalo né dell’eventuale ingiustizia nei confronti del coniuge legittimo) riecheggia la dottrina tradizionale.

Nel Manuale di Teologia Morale di Prummer (T. 3 n°79), leggiamo che “il pubblico peccatore, benché autenticamente assolto dai suoi peccati, non può essere subito ammesso alla ricezionepubblica della comunione, senza aver prima riparato lo scandalo causato. […] Si potrà amministrare in maniera occulta la santa comunione ad ogni peccatore sinceramente pentito e autenticamente assolto”.

Per cui, in conclusione: l’ammissione alla confessione era già possibile per i divorziati risposati (pubblici peccatori) i quali promettessero seriamente di evitare l’occasione prossima di peccato, facendo, ad esempio, camere separate, quando delle gravi ragioni impedivano la separazione. In questo, Giovanni Paolo II non dice niente in più di Prummer e i moralisti pre-conciliari.

Quanto alla comunione, invece, nell’esortazione di Giovanni Paolo II vi si accenna timidamente (è il senso del condizionale usato nel testo citato) come ad una eventualità su cui peraltro non ci si sofferma. Nei vecchi manuali, si insiste invece sul carattere di pubblico peccatore per una persona convivente more uxorio con un suo simile; quindi, anche se fosse ben disposta e allontanasse per quanto possibile l’occasione di peccato, l’accesso alla comunione resterebbe comunque limitato in ragione del pubblico scandalo.

La “pastorale per i divorziati risposati”, come si vede, non è un’invenzione così moderna: basta applicare i soliti, noti prìncipi della morale, come facevano i manuali degli anni ’50.

Le precisazioni fin qui fatte non sono che un aspetto marginale all’attualissima questione del Sinodo, che già, come vediamo dai media, si presta a differenti interpretazioni; indice, questo, della solita vecchia ambiguità del linguaggio tipicamente modernista che dice e non dice.

Ci sembrava tuttavia di qualche importanza segnalare che non sfugge a tutti il tentativo da parte di giornalisti “di regime” di chiamare in causa o i pontefici preconciliari (come Pio XI e Pio XII) per cercare di trascinarli nel marasma di una falsa dottrina, citandoli male e a sproposito; oppure quelli conciliari (come Giovanni Paolo II) per usarli faziosamente (pur quando, stranamente, si riesce a salvare qualche loro affermazione) a loro vantaggio.

[1] “Senonché, non vi può esser ragione alcuna, sia pur gravissima, che valga a rendere conforme a natura ed onesto ciò che è intrinsecamente contro natura. E poiché l’atto del coniugio è, di sua propria natura, diretto alla generazione della prole, coloro che nell’usarne lo rendono studiosamente incapace di questo effetto, operano contro natura, e compiono un’azione turpe e intrinsecamente disonesta.” , Casti Connubii, parte II. Più sotto vi si legge: “la Chiesa Cattolica […] nuovamente sentenzia che qualsivoglia uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e che coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave”.

[2] Pio XII, Discorso alle partecipant ial Congresso della Unione Cattolica Italiana delle Ostetriche, 29 ottobre 1951), parte III.

[3] Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, § 84.

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