di don Luigi Moncalero
Spero che Socci non prenda queste mie considerazioni come “fuoco amico nella schiena”. L’articolo di Libero di domenica 24 maggio u.s. è interessante, sin dal suo titolo piuttosto intrigante: «Mezzo secolo senza latino e la Chiesa è da rottamare» (cf. QUI il testo integrale dal blog di A. Socci).
Interessante. Spigolo qua e là: «…Si avverte un cupo rumore di frana, come se una montagna - effetto Bergoglio? - stesse venendo giù. […]. Della Chiesa Cattolica conosciuta finora è minacciata perfino la sopravvivenza. C’è posto solo per una sua ridicola parodia laicizzata […]. [Una Chiesa] che rinuncia al proselitismo e al Dio cattolico […], che si scioglie nell’ecumenismo massonizzato delle tante religioni, che si occupa del clima e della spazzatura differenziata […]. La Chiesa che ha illuminato e vinto il tenebroso mondo degli dèi e ha ribaltato la storia pagana e antiumana […] dei grandi santi, dei martiri, dei missionari […]».
Fin qui ci siamo.
Ma lo spirito umano non si accontenta di constatare dei fatti: è già qualcosa constatare, e questo Socci lo fa a differenza di tanti altri che si foderano gli occhi con spesse fette di prosciutto, e gliene diamo volentieri atto. Però poi deve arrivare una diagnosi, o perlomeno un tentativo di dare un ragionevole “perché” alla catastrofe constatata.
Invece Socci “toppa” clamorosamente: «Però a liquidare la Chiesa non sono le persecuzioni, né l’odio laicista, ma - come disse Paolo VI - è “l’autodemolizione” dall’interno. La via del baratro fu imboccata non con il Concilio - come credono certi lefebvriani - ma alla sua fine, esattamente 50 anni fa, con il post-concilio».
E qui cadono le braccia, perché Socci vorrebbe dire che dall’8 dicembre 1965 in poi è successo qualcosa che non avrebbe nessun rapporto con i 16 documenti appena sfornati da quegli uomini di Chiesa che hanno fatto il Concilio. Ma proprio niente. Come dire post hoc, hoc; sed non propter hoc. Che tradotto in soldoni significa: io metto la caffettiera sul fuoco e dopo 5 minuti c’è il caffè; ma sia chiaro, non c’è nessun rapporto col fatto di aver acceso il fuoco: solo dei lefebvriani ottusi e ancorati ad arcaiche filosofie potrebbero pensare una cosa del genere. Succede così e basta: si chiude il Concilio e poi avviene il finimondo. Tutto qui.
Caro Socci, me lo lasci dire: il problema non è Bergoglio. O meglio - diciamocelo - Bergoglio è un problema, ma non è lui la causa. Egli sta semplicemente tirando le fila di quella rete che i suoi predecessori (sì, caro Socci, anche Benedetto XVI) hanno intessuto non dall’8 dicembre 1965 in poi, ma dall’11 ottobre 1962, quando Giovanni XXIII esordì nell’allocuzione di apertura del Vaticano II dicendo che oramai non era più tempo di anatemi e di condanne e che la dottrina cattolica è talmente bella ed amabile che si sarebbe imposta da sola; da quando si buttò letteralmente nel cestino tutto il lavoro preparatorio della Commissione che aveva elaborato gli schemi dei documenti conciliari (fu l’inizio della “rivoluzione di ottobre” della Chiesa) e tutto quello che venne dopo non fu che il dipanarsi logico di quel colpo di mano, passando per il discorso di Paolo VI alla chiusura del Concilio (7 dicembre 1965): «… La religione del Dio che si fa uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro? Una lotta? Un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto […] Una simpatia immensa […]. Noi più di tutti siamo i cultori dell’uomo»; passando per la riunione di Assisi del 27 ottobre 1986 voluta da Giovanni Paolo II (già, anche lui, Papa del Concilio), quando in nome «dell’ecumenismo massonizzato delle tante religioni» (riconosce la citazione, Socci?) e della libertà religiosa si permisero dei culti idolatrici nelle chiese di Assisi. Allora si videro - e si fotografarono - statue di Budda sul tabernacolo e frati francescani ricevere compunti la benedizione da uno sciamano Pellerossa (è così che si ripara la barca della Chiesa? Siamo sicuri che è così che si fa ritrovare la bussola della fede ai giovani, caro Socci?). Ed infine - lo metto alla fine, ma è stato il primo effetto bomba del primo documento conciliare - la demolizione della liturgia della Chiesa introdotta dalla Sacrosantum Concilium, che dice che la redenzione si sarebbe realizzata praecipue (eminentemente) «nel mistero pasquale della passione, resurrezione e ascensione” di Cristo (Sacrosantum Concilium n° 5) e quindi non prevalentemente dalla sua crocifissione, dal valore che essa ha di sacrificio espiatorio (parola brutta, che dispiace tanto ai Fratelli separati). Allora, basta altari rialzati, basta crocifissi sanguinolenti, basta preti che parlano una lingua incomprensibile e danno le spalle al popolo: d’ora in avanti il popolo di Dio si riunisce «… in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della Passione, della Risurrezione e della Gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio» (Sacrosantum Concilium 106). Date quelle premesse, non c’è da stupirsi se nel famigerato art. 7 dell’Institutio novi Messalis Romani - che sarebbe la prefazione ufficiale del nuovo messale di Paolo VI del 1969, tuttora vigente - si legge: «La cena del Signore o Messa è la santa assemblea o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore». Martino, che di cognome fa Lutero, sottoscriverebbe.
Se tanto mi dà tanto - direbbe qualcuno - il risultato del referendum irlandese è la prova che il popolo di Dio ha manifestato chiaramente di non essere più cattolico. E dicendo questo non mi faccio la minima illusione che il popolo di Dio italiano lo sia ancora. Anzi: proprio come quello irlandese, il popolo di Dio italiano è quello che ha seguito più fedelmente le indicazioni dei suoi pastori.
Chi è che parlava di «autodemolizione»?
Ha ragione da vendere mons. Galantino: «Quando la Chiesa era cattolica la Messa era in latino» (cf. articolo in questione). Parole sante, eccellenza.
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