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IL VELENO DELLE FILOSOFIE MODERNE NEL PENSIERO E NELLA LITURGIA DELLA CHIESA prima parte




di Cristina Siccardi
Quando la prima domenica di Avvento del 1969 venne introdotta la Messa del Novus Ordo, ovvero la Messa di Paolo VI(1897-1978), furono in molti a rimanere sconcertati, altri, invece, ne furono entusiasti. C’era chi si addolorava per la perdita di un rito millenario: il Messale che risaliva al XVI secolo.

In seguito alla richiesta del Concilio di Trento (1545-1563), san Pio V (1504-1572) s’impegnò per la revisione del Messale che approvò il 14 luglio 1570, con la bolla Quo primum tempore; il Pontefice lo promulgò e lo sostituì a quelli che non potevano vantare un’antichità di almeno 200 anni, ordinando «a tutti e singoli i Patriarchi e Amministratori [...] , e a tutti gli ecclesiastici, [...] facendone loro severo obbligo in virtù di santa obbedienza, che, in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri Messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale».

Ebbene, quella domenica del 1969 c’era chi si rallegrava di quella rivoluzione liturgica che era in pratica il sigillo del nuovo pensiero che era maturato in seno alla Chiesa e aveva caratterizzato ilConcilio Vaticano II: la Chiesa si era “aperta” al mondo, vi andava incontro con entusiasmo e non condannava più l’errore, ma era comprensiva e duttile.
Benedetto XVI, all’epoca, si collocò fra gli sconcertati:

«Il […] grande evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al Concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo Papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il Concilio di Trento, fu di altra natura: l’irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di “riforme” liturgiche.

Non c’erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l’una accanto all’altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. […]. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro sia pure con il materiale di cui si era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti […] il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna “comunità” voglia darsi una propria liturgia» (1).

Aver distrutto un rito così ricco di sacralità e di bellezza non è andato a detrimento soltanto della rappresentazione visiva ed uditiva, ma ha prodotto una ben più tragica conseguenza: ha minato la Fede, l’ha colpita in maniera durissima. La scusante maggiore di una tale rivoluzione, sviluppata dalla Commissione liturgica (già operante sotto il Pontificato di Pio XII) e capeggiata da Monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), era quella che i fedeli avrebbero avuto una più facile comprensione e per due ragioni: la lingua (il latino, dicevano, allontanava invece di avvicinare) e la «partecipazione attiva», attraverso un dialogo diretto che il sacerdote, rivolto non più verso Dio, ma verso il popolo, avrebbe instaurato con i fedeli. Scrisse anni fa Joseph Ratzinger:

«Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazioni per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando allato dell'autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo.
La liturgia non è l'espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole.
Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera...» (2).

Agli addetti ai lavori quella Messa sembrò un cedimento ai protestanti, mentre per i fedeli fu un distaccarsi, domenica, dopo domenica, sempre più dal Santo Sacrificio. Ecco che il Novus Ordo, mettendo al centro la comunità e l’uomo, in ossequio al pensiero antropocentrico moderno, non permise più di creare quell’ambiente idoneo alla sacralità e dunque alla comprensione che in quel momento si sta compiendo davvero il Sacro Sacrificio, del quale, peraltro, non si parlò più. Togliendo il concetto di Santo Sacrificio e riducendolo ad un solo memoriale della Cena e non più orientandosi a Dio, ma verso il popolo (i sacrifici, fin dai tempi più remoti, erano sempre stati rivolti alle divinità, mai verso le persone), la protagonista divenne l’assemblea. Spesso il Tabernacolo, addirittura, fu tolto dal centro del presbiterio per essere collocato nella «riserva eucaristica».

Il pensiero moderno occidentale aveva avuto il suo trionfo non soltanto nella società e nella cultura, ma anche nella Chiesa, fin dentro la sostanza del Credo: il Santo Sacrificio per l’appunto.

Questo avvenne, e questo è il dramma che viviamo. Infatti, benché il Sommo Pontefice Benedetto XVI, ben cosciente della gravità di un rito distrutto, abbia liberalizzato la Santa Messa di sempre con il Motu Proprio Summorum Pontificum del 2007, gli ostacoli che molti sacerdoti incontrano per poterla celebrare ( e gli ostacoli che molti fedeli devono affrontare per richiederla, ndr) sono numerosissimi. Questa Messa, allora, è una pietra di inciampo: per celebrarla si necessita una sorta di “conversione”, dove la Fede venga ripulita dalle incrostazioni di una mentalità che ha fatto del Cristianesimo un’ideologia più che un una Fede religiosa.

Grazie a studiosi di grande spessore come il teologo Brunero Gherardini, legato a San Tommaso d’Aquino (1225-1274) e alla gloriosa Scuola Romana, oppure all’oratoriano Jonathan Robinson, fondatore dell’Oratorio San Filippo Neri in Canada, veniamo a scoprire, con tremore e sgomento, che la Nouvelle théologie, caratterizzante buona parte la formazione impressa nei seminari e nelle Facoltà di teologia, da cinquant’anni a questa parte, è stata influenzata dai filosofi moderni. Dietro Chenu (1895-1990), Daniélou (1905-1974), Congar (1904-1995), de Lubac (1896-1991), Rahner (1904-1984) c’erano Hume (1711-1776), Kant (1724-1804), Hegel (1770-1831), Comte (1798-1857) … Proprio Kant, ne La religione entro i limiti della sola ragione (1793), giunse a sostenere:
«Non c’è che una sola (vera) religione; ma ci possono essere diverse specie di fede. Si può aggiungere che nella pluralità delle Chiese, distinte le une dalle altre per la diversità delle loro credenze speciali, si può trovare, tuttavia, una sola e medesima vera religione», ecco il relativismo religioso tanto paventato dal Cardinale John Henry Newman (1801-1890). Quel relativismo che porta ad affermare che il Vangelo è una storia come tante altre…

Il pensiero filosofico è così penetrato nella cultura e nella mentalità da contaminare lo stesso Culto Divino e, attraverso questo processo, il Culto a Dio non è più oggettivo, indipendente da quello che si può sentire o provare, ma diventa espressione soggettiva, modificabile a proprio piacimento.

Benedetto XVI ha osservato che esso veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, «la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile» (3). Le deformazioni arbitrarie della liturgia hanno inferto ferite profonde nel popolo di Dio e nella stessa Chiesa.

L’Illuminismo ha negato la Rivelazione. Le idee chiave dell’Illuminismo furono: laicismo, umanesimo, cosmopolitismo, libertà di parola, di commercio, libertà estetica, libertà dal potere monarchico (bisognava combattere l’idea di un unico sovrano, il cui potere veniva dall’alto, per porre attenzione sulla Repubblica, il cui potere veniva dal basso, senza intervento divino. Così come venne abbattuto il concetto di Cristo Re). Di libertà in libertà nacque l’idea, come viviamo oggi, di decidere ognuno per se stesso; perciò la libertà viene ad applicarsi anche a quelli che un tempo la Chiesa chiamava compiutamente vizi e peccati.
Kant con la sua religione morale ha escluso i Sacramenti e la Chiesa dall’orizzonte della vita dell’uomo moderno. La religione è diventata una faccenda personale, funzionale ad una morale che struttura la società. In Hume si giunge all’esclusione di Dio, che viene ad essere completamente espunto dall’esistenza dell’uomo. L’empirismo prende il posto della metafisica e Dio non è più il Creatore, ma è un ente inutile. Hegel e Comte realizzarono i passi successivi nel sottolineare l’importanza della comunità e dello studio della società come orientanti la vita dell’uomo e, di fatto, sostitutivi di Dio.
Devastante è stato l’impatto di tutto ciò sulla vita liturgica e sacramentale.

Hegel non lascia, a differenza di Hume, scomparire Dio, ma lo sottopone alle necessità della comunità. Si tratta dell’auto-celebrazione della comunità che rappresenta se stessa. Ecco che il Culto non è più un salire verso di Lui, un eliminare la forza di gravità dalle miserie e dai peccati, ma un abbassamento di Dio alle dimensioni umane. Tale Culto allora diventa una festa che la comunità si fa da sé e su di sé. È mutata proprio la concezione. Dall’adorazione a Dio si passa ad un cerchio che gira intorno a se stesso. Però, come ben abbiamo potuto constatare in tutti questi decenni, si giunge alla frustrazione, al senso di vuoto, alla stanchezza e alla noia.

Le idee di comunità, ragione, scienza, democrazia, valori come diritti umani, libertà politica e religiosa trovano la loro formulazione nell’opera dei pensatori del XVIII secolo. Afferma giustamente Robinson:
«È mia opinione che gli uomini di Chiesa non abbiano finora dedicato abbastanza attenzione a capire e valutare le idee che hanno plasmato il mondo moderno. Come risultato, l’iniziativa di comprendere e predicare il vangelo è passata nelle mani del mondo moderno, a detrimento della nostra comune tradizione cristiana» (4). Si è di fatto compiuta un’evoluzione del Cristianesimo, meglio, è avvenuta una vera e propria rivoluzione, dove la Tradizione non è più stata presa in considerazione. Eppure sta scritto nella quarta di copertina dell’opera di Monsignor Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia (5): «Se vuoi conoscere la Chiesa, non ignorare la Tradizione. Se ignori la Tradizione, non parlar mai della Chiesa». Ebbene, il teologo Rahner affermerà, convinto, che il suo vero maestro fu Martin Heidegger (1889-1976), discepolo di Hegel… la Tradizione si perse per strada.

La lente deformante della filosofia dialettica moderna ha letteralmente strappato dalla Fede i credenti, gettandoli su strade senza sbocco, se non addirittura incoraggiati a seguire la «via che conduce alla perdizione» (Mt 7,13). Si è venuta a creare un’osmosi fra il pensiero secolarizzato e il pensiero dei teologi. Le nuove idee sono penetrate nelle varie commissioni e negli organismi della Chiesa, che hanno provveduto a travasarle nei seminari, nelle Facoltà teologiche, nelle parrocchie, nelle scuole cattoliche…
Emblematica risulta l’Allocutio di Paolo VI (1897-1978) per la chiusura del Concilio Vaticano II. C’è la piena coscienza di ciò che era avvenuto:
«L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». È evidente che questo non è esattamente in linea con la Tradizione cattolica che ha sempre parlato di irriducibile ostilità tra Dio e il mondo, di cui, non per nulla, è principe Satana.

La Chiesa si è trovata a dialogare con il mondo, ad aprire le porte a chi l’aveva combattuta e la combatteva, e perse la sua valenza di guida, lasciandosi trascinare dalla corrente. Ecco come il Premio Nobel per la letteratura (1980), Czeslaw Milosz (1911-2004) descrive l’umiliazione del Pensiero Cristiano nei confronti del «pensiero debole»:

«Nel corso della mia esistenza il Paradiso e l’Inferno sono scomparsi, la fede nella vita eterna si è notevolmente indebolita… l’idea di verità assoluta ha perso la sua posizione di supremazia, la storia guidata dalla Provvidenza ha cominciato a somigliare a un campo di battaglia dove sia in atto uno scontro tra forze cieche»(6).

Cristina Siccardi 

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