San Filippo Neri.
il santo della gioia,
definito Apostolo di Roma,
viveva nello spirito della Preghiera,
della Carità, dell'Umiltà e della fraternità
e con una attenzione preferenziale
ai giovani.
Breve biografia di San Filippo Neri a cura dell'Oratorio della Chiesa Nuova di Roma che custodisce il corpo del Santo
Filippo Neri nasce a Firenze il 21 luglio 1515, e riceve il battesimo nel "bel san Giovanni" dei Fiorentini il giorno seguente, festa di S. Maria Maddalena.
La famiglia dei Neri, che aveva conosciuto in passato una certa importanza, risentiva allora delle mutate condizioni politiche e viveva in modesto stato economico. Il padre, ser Francesco, era notaio, ma l'esercizio della sua professione era ristretto ad una piccola cerchia di clienti; la madre, Lucrezia da Mosciano, proveniva da una modesta famiglia del contado, e moriva poco dopo aver dato alla luce il quarto figlio.
La famiglia si trovò affidata alle cure della nuova sposa di ser Francesco, Alessandra di Michele Lenzi, che instaurò con tutti un affettuoso rapporto, soprattutto con Filippo, il secondogenito, dotato di un bellissimo carattere, pio e gentile, vivace e lieto, il "Pippo buono" che suscitava affetto ed ammirazione tra tutti i conoscenti.
Dal padre, probabilmente, Filippo ricevette la prima istruzione, che lasciò in lui soprattutto il gusto dei libri e della lettura, una passione che lo accompagnò per tutta la vita, testimoniata dall'inventario della sua biblioteca privata, lasciata in morte alla Congregazione romana, e costituita di un notevole numero di volumi. La formazione religiosa del ragazzo ebbe nel convento dei Domenicani di San Marco un centro forte e fecondo. Si respirava, in quell'ambiente, il clima spirituale del movimento savonaroliano, e per fra Girolamo Savonarola Filippo nutrì devozione lungo tutto l'arco della vita, pur nella evidente distanza dai metodi e dalle scelte del focoso predicatore apocalittico.
Intorno ai diciotto anni, su consiglio del padre, desideroso di offrire a quel figlio delle possibilità che egli non poteva garantire, Filippo si recò da un parente, avviato commerciante e senza prole, a San Germano, l'attuale Cassino. Ma l'esperienza della mercatura durò pochissimo tempo: erano altre le aspirazioni del cuore, e non riuscirono a trattenerlo l'affetto della nuova famiglia e le prospettive di un'agiata situazione economica.
Lo troviamo infatti a Roma, a partire dal 1534. Vi si recò, probabilmente, senza un progetto preciso. Roma, la città santa delle memorie cristiane, la terra benedetta dal sangue dei martiri, ma anche allettatrice di tanti uomini desiderio di carriera e di successo, attrasse il suo desiderio di intensa vita spirituale: Filippo vi giunse come pellegrino, e con l'animo del pellegrino penitente, del "monaco della città" per usare un'espressione oggi di moda, visse gli anni della sua giovinezza, austero e lieto al tempo stesso, tutto dedito a coltivare lo spirito.
La casa del fiorentino Galeotto Caccia, capo della Dogana, gli offrì una modesta ospitalità - una piccola camera ed un ridottissimo vitto - ricambiata da Filippo con l'incarico di precettore dei figli del Caccia. Lo studio lo attira - frequenta le lezioni di filosofia e di teologia dagli Agostiniani ed alla Sapienza - ma ben maggiore è l'attrazione della vita contemplativa che impedisce talora a Filippo persino di concentrarsi sugli argomenti delle lezioni.
La vita contemplativa che egli attua è vissuta nella libertà del laico che poteva scegliere, fuori dai recinti di un chiostro, i modi ed i luoghi della sua preghiera: Filippo predilesse le chiese solitarie, i luoghi sacri delle catacombe, memoria dei primi tempi della Chiesa apostolica, il sagrato delle chiese durante le notti silenziose. Coltivò per tutta la vita questo spirito di contemplazione, alimentato anche da fenomeni straordinari, come quello della Pentecoste del 1544, quando Filippo, nelle catacombe di san Sebastiano, durante una notte di intensa preghiera, ricevette in forma sensibile il dono dello Spirito Santo che gli dilatò il cuore infiammandolo di un fuoco che arderà nel petto del santo fino al termine dei suoi giorni.
Questa intensissima vita contemplativa si sposava nel giovane Filippo ad un'altrettanto intensa, quanto discreta nelle forme e libera nei metodi, attività di apostolato nei confronti di coloro che egli incontrava nelle piazze e per le vie di Roma, nel servizio della carità presso gli Ospedali degli incurabili, nella partecipazione alla vita di alcune confraternite, tra le quali, in modo speciale, quella della Trinità dei Pellegrini, di cui Filippo, se non il fondatore, fu sicuramente il principale artefice insieme al suo confessore P. Persiano Rosa.
A questo degnissimo sacerdote, che viveva a san Girolamo della Carità, e con il quale Filippo aveva profonde sintonie di temperamento lieto e di impostazione spirituale, il giovane, che ormai si avviava all'età adulta, aveva affidato la cura della sua anima. Ed è sotto la direzione spirituale di P. Persiano che maturò lentamente la chiamata alla vita sacerdotale. Filippo se ne sentiva indegno, ma sapeva il valore dell'obbedienza fiduciosa ad un padre spirituale che gli dava tanti esempi di santità. A trentasei anni, il 23 maggio del 1551, dopo aver ricevuto gli ordini minori, il suddiaconato ed il diaconato, nella chiesa parrocchiale di S. Tommaso in Parione, il vicegerente di Roma, Mons. Sebastiano Lunel, lo ordinava sacerdote.
Messer Filippo Neri continuò da sacerdote l'intensa vita apostolica che già lo aveva caratterizzato da laico. Andò ad abitare nella Casa di san Girolamo, sede della Confraternita della Carità, che ospitava a pigione un certo numero di sacerdoti secolari, dotati di ottimo spirito evangelico, i quali attendevano alla annessa chiesa. Qui il suo principale ministero divenne l'esercizio del confessionale, ed è proprio con i suoi penitenti che Filippo iniziò, nella semplicità della sua piccola camera, quegli incontri di meditazione, di dialogo spirituale, di preghiera, che costituiscono l'anima ed il metodo dell'Oratorio. Ben presto quella cameretta non bastò al numero crescente di amici spirituali, e Filippo ottenne da "quelli della Carità" di poterli radunare in un locale, situato sopra una nave della chiesa, prima destinato a conservare il grano che i confratelli distribuivano ai poveri.
Tra i discepoli del santo, alcuni - ricordiamo tra tutti Cesare Baronio e Francesco Maria Tarugi, i futuri cardinali - maturarono la vocazione sacerdotale, innamorati del metodo e dell'azione pastorale di P. Filippo. Nacque così, senza un progetto preordinato, la "Congregazione dell'Oratorio": la comunità dei preti che nell'Oratorio avevano non solo il centro della loro vita spirituale, ma anche il più fecondo campo di apostolato. Insieme ad altri discepoli di Filippo, nel frattempo divenuti sacerdoti, questi andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa. E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da S. Girolamo e da S. Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla "Copiosus in misericordia Deus" la "Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda". Filippo, che continuò a vivere nell'amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l'impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.
Qui trascorse gli ultimi dodici anni della sua vita, nell'esercizio del suo prediletto apostolato di sempre: l'incontro paterno e dolcissimo, ma al tempo stesso forte ed impegnativo, con ogni categoria di persone, nell'intento di condurre a Dio ogni anima non attraverso difficili sentieri, ma nella semplicità evangelica, nella fiduciosa certezza dell'infallibile amore divino, nella letizia dello spirito che sgorga dall'unione con Dio. Si spense nelle prime ore del 26 maggio 1595, all'età di ottant'anni, amato dai suoi e da tutta Roma di un amore carico di stima e di affezione.
La sua vita è chiaramente suddivisa in due periodi di pressoché identica durata: trentasei anni di vita laicale, quarantaquattro di vita sacerdotale. Ma Filippo Neri, fiorentino di nascita - e quanto amava ricordarlo! - e romano di adozione - tanto egli aveva adottato Roma, quanto Roma aveva adottato lui! - fu sempre quel prodigio di carità apostolica vissuta in una mirabile unione con Dio, che la Grazia divina operò in un uomo originalissimo ed affascinante.
"Apostolo di Roma" lo definirono immediatamente i Pontefici ed il popolo Romano, attribuendogli il titolo riservato a Pietro e Paolo, titolo che Roma non diede a nessun altro dei pur grandissimi santi che, contemporaneamente a Filippo, aveva vissuto ed operato tra le mura della Città Eterna. Il cuore di Padre Filippo, ardente del fuoco dello Spirito, cessava di battere in terra in quella bella notte estiva, ma lasciava in eredità alla sua Congregazione ed alla Chiesa intera il dono di una vita a cui la Chiesa non cessa di guardare con gioioso stupore. Ne è forte testimonianza anche il Magistero del Santo Padre Giovanni Paolo II che in varie occasioni ha lumeggiato la figura di san Filippo Neri e lo ha citato, unico dei santi che compaiano esplicitamente con il loro nome, nella Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000.
2/ San Filippo Neri. «State buoni se potete», di Paolo Mattei
Certi angoli di Roma si leccavano ancora le ferite quando Filippo Neri vi giunse, intorno al 1533. Il Sacco dei Lanzichenecchi del 1527 aveva lasciato i segni: porzioni significative della città e molti dei suoi 50mila abitanti giacevano ancora storditi su strade semicoperte da una campagna che s’era presa la sua selvaggia rivincita sulla nuova urbanizzazione incominciata circa un secolo prima. Facevano da contrasto con questa desolazione i fasti della mondanità rinascimentale, e carri allegorici salutarono l’elezione al soglio pontificio del romano Paolo III Farnese, nell’ottobre 1534.
Filippo, che aveva circa vent’anni, e negli occhi le dolci armonie di Firenze, sua città natale, fuggiva da un futuro di “mercatante” che il padre aveva disegnato per lui. Giungeva pellegrino a Roma, per essere libero di stare vicino alle memorie apostoliche e dei martiri, pure quelle semiabbandonate all’impeto di una natura inaddomesticata.
Una volta arrivato, si stabilì a Sant’Eustachio, nei pressi del Pantheon, in casa di un concittadino, ai figlioli del quale «faceva dei latini», dava cioè ripetizioni di grammatica, per guadagnarsi il pane e l’alloggio. Per il resto della giornata «stavasene egli quanto poteva il più solitario, e senza compagnia d’altrui», fuori casa, «per le sue divozioni», scrive uno dei suoi primi biografi, l’oratoriano Antonio Gallonio. Filippo visitava le Sette Chiese e, specialmente di notte, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, a quel tempo deserte e malsicure pure di giorno.
Naturalmente, la solitudine del giovane Filippo non era così radicale come certi aforismi biografici tendono a disegnarla: divenne infatti subito amico dei domenicani del convento e della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel cui coro recitava il mattutino e la compieta; fu compagno dei gesuiti nel terribile inverno del 1538-39, e con loro girò per la città a raccogliere infermi e poveri vessati dalla fame.
Alla fine degli anni Quaranta del secolo praticava il quartiere dei Banchi, poco lontano da Ponte Sant’Angelo, dove era diventato amico dei cassieri e dei ragazzi commessi nei fondachi, ai quali, con la sua bella allegria, spesso ripeteva: «Beh, fratelli, quando volemo cominciare a far bene?». E sempre in quel periodo andava a pregare nella chiesetta di San Salvatore in Campo, alla Regola, dove fondò, insieme ad altri, la Compagnia della Santissima Trinità, per l’assistenza ai pellegrini che si sarebbero riversati nell’Urbe nell’imminente anno giubilare del 1550.
In quella Compagnia incontrò padre Persiano Rosa, cappellano della chiesa di San Girolamo della Carità, vicino a piazza Farnese, che divenne il suo confessore. E a San Girolamo incominciò a ritrovarsi abbastanza regolarmente con quei compagni - giovani apprendisti e impiegati nei banchi, ma anche gente semplice, figli di artigiani e bottegai, notai e miniatori - che gli si erano stretti attorno, contagiati dalla sua allegria cristiana. Era quella la «prima sementa dell’Oratorio», come la definì il Gallonio.
Filippo divenne prete il 23 maggio 1551. Gallonio racconta che da quel giorno iniziò a trovarsi «ad ogn’hora... al confessionario, scendendo ogni mattina all’alba nella chiesa, dove lungamente dimorando udiva con allegrezza quanti a lui venivano».
A San Girolamo continuava con i suoi amici il dialogo semplicissimo, fatto, scrive Rita Delcroix (Filippo Neri, il santo dell’allegria, Roma 1989), di «domande e risposte sulla fede, sulla bellezza e la virtù e concluso con una spiegazione e un’esortazione, che Filippo compiva fraternamente, pianamente. Si usciva poi insieme per le strade di Roma...».
Filippo trascorreva tempo con i suoi ragazzi. Stava con loro. Qualcuno però si lamentava della “troppa allegrezza” dei suoi giovani. E lui tranquillamente diceva: «Lasciateli, miei cari, brontolare quanto vogliono. Voi seguitate il fatto vostro. State allegramente: non voglio scrupoli, né malinconie; mi basta che non facciate peccati». E quando doveva calmarli un po’ diceva loro: «State buoni... se potete».
Arrivava anche a mendicare per le strade e alle porte dei più sontuosi palazzi per testimoniare l’umiltà ai suoi amici. Un giorno, un signore, infastidito dalle sue richieste, gli diede uno schiaffo. Filippo non si scompose: «Questo è per me» disse sorridendogli «e ve ne ringrazio. Ora datemi qualcosa per i miei ragazzi».
Il 1564 fu l’anno in cui al riluttante “Pippo buono” venne “imposta” dal suo amico cardinale Carlo Borromeo la rettoria di San Giovanni dei Fiorentini, in via Giulia, quasi sulle sponde del Tevere. Là il santo destinò alcuni suoi seguaci diventati preti in quegli anni. Lui però se ne restò a San Girolamo.
Poi, il 15 luglio 1575, Gregorio XIII, con la bolla Copiosus in misericordia, concedeva al «diletto figlio Filippo Neri, prete fiorentino e preposito di alcuni preti e chierici», la chiesetta parrocchiale di Santa Maria in Vallicella, nel rione Parione, dedicata alla Natività di Maria, ed erigeva canonicamente «una Congregazione di preti e chierici secolari da chiamarsi dell’Oratorio».
In quello stesso 1575 si iniziò la ricostruzione della chiesetta. Filippo, che non voleva assolutamente spostarsi, lasciò San Girolamo per questa nuova dimora solo nel 1583. Louis Bouyer (La musica di Dio. San Filippo Neri, Milano 1980) racconta che «ci volle l’intervento personale del Papa per spingerlo a lasciare il suo vecchio San Girolamo e a trasferirsi con la Congregazione che lo proclamava suo unico superiore. Se si riuscì a forzargli la mano, egli si rifarà organizzando una splendida mascherata. I discepoli più fedeli dovettero attraversare la città sotto i lazzi di tutti, ciascuno trasportando con gran cura un pezzo della miserabile mobilia di Filippo».
Così era fatto “Pippo buono”, l’Apostolo di Roma, che visse a Santa Maria in Vallicella fino alla morte, avvenuta il 26 maggio 1595. Il suo corpo riposa ancora là.
3/ Filippo Neri al di là della fiction. Alla Chiesa Nuova un dibattito sulla figura del «profeta della gioia cristiana», di recente interpretato da Gigi Proietti sul piccolo schermo, di Nicolò Maria Iannello
Filippo Neri al di là della fiction, dentro la realtà di una vita dedicata a Cristo e alla Chiesa: è il senso del dibattito ospitato mercoledì scorso (22 settembre 2010) nell’antico refettorio dei padri filippini a Santa Maria in Vallicella, la cosiddetta Chiesa Nuova, dopo la fiction “Preferisco il Paradiso”, miniserie su San Filippo Neri andata in onda lunedì 20 e martedì 21 in prima serata su RaiUno. Al dibattito, nato dall’esigenza di approfondire alcuni aspetti della vita del fondatore della congregazione dell’Oratorio, hanno partecipato monsignor Marco Frisina, direttore dell’Ufficio liturgico della diocesi, e i filippini padre Edoardo Cerrato e padre Maurizio Botta. A moderare l’incontro, monsignor Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico, che, in apertura, ha invitato i relatori a esprimere «in totale libertà giudizi e critiche sulla figura del santo tratteggiata nella fiction».
A prendere la parola per primo è stato padre Edoardo Cerrato, procuratore generale della Confederazione Oratoriana ed esperto di storiografia filippina, che è rimasto colpito dalla scelta del titolo del film perché «mette in evidenza quella dimensione religiosa e quella prospettiva di salvezza tipica dell’azione di Filippo». Ma, con lo sguardo dello storico, padre Edoardo ha spiegato alcune incongruenze tra la rappresentazione televisiva e la realtà dei fatti. «Pur sapendo - ha affermato l’esperto - che non è facile coniugare le esigenze del linguaggio cinematografico con quelle storiografiche, chi vuol conoscere la profondità della vita di San Filippo non può limitarsi a cercarla in un racconto televisivo».
Secondo lui, infatti, per cogliere i singoli dettagli che rendano giustizia alla complessità di questa figura bisogna andare al di là della sintesi artistica. Riprendendo la dichiarazione di Gigi Proietti, interprete di Filippo nella fiction, secondo cui «san Filippo è un santo tutto da scoprire», padre Cerrato ha aggiunto che «la storia di Filippo va scoperta nella sua dimensione di "uomo cristiano", che coniuga la sua umanità alla fede, altrimenti si corre il rischio di fare di lui una macchietta, un semplice "buffone di Dio", senza sapere che in epoca medievale il buffone di corte era colui che diceva la verità». Stando alle fonti, ha poi precisato il padre filippino, «Filippo non ha mai vissuto un dissidio tra la vita meditativa e la dedizione al prossimo». Per il santo, infatti, lasciare la preghiera per andare in mezzo alla gente era «un lasciare Cristo per Cristo». Qualche precisazione, secondo padre Edoardo, va fatta anche sull’oratorio che, contrariamente a quanto è stato mostrato nella fiction, «non è un luogo che accoglieva i ragazzi alla maniera dei salesiani, ma una scuola di formazione per gli adulti e i giovani studenti universitari».
Un punto di vista tutto interno alla narrazione cinematografica è quello di monsignor Frisina, consulente musicale e ideatore del motivetto “Preferisco il Paradiso”, cantato da Gigi Proietti e dai bambini nella fiction. Secondo il direttore dell’Uffico liturgico, da anni consulente biblico e autore delle musiche di molti film e fiction a tema religioso, «qualunque rappresentazione artistica può fare emergere il mistero della vita di un santo forzando le immagini e rivelandosi a volte infedele a livello della cronaca, ma fedele a livello dei contenuti». Il canto, secondo monsignor Frisina, ha un ruolo importante nella fiction perché orienta il cuore. «E san Filippo - ha precisato il presbitero - era consapevole di quanto fosse grande il potere della musica nel rivitalizzare le anime».
A concludere la riflessione sulla vita del santo, definito da Giovanni Paolo II «il profeta della gioia cristiana», è stato padre Maurizio Botta, responsabile dell’oratorio e viceparroco a Santa Maria in Vallicella. Sganciandosi dal contenuto della fiction che, secondo lui, avrebbe dovuto dare maggiore spazio alla giovinezza di Filippo e al suo cammino verso la vita sacerdotale sotto la guida di padre Persiano Rosa, padre Botta ha tracciato un profilo spirituale del santo. Al centro dell’esperienza umana di Filippo, secondo il padre filippino, c’è il desiderio ardente di chiedere a Dio di donargli lo Spirito Santo, perché senza la sua presenza è impossibile essere evangelizzatori. «Il cuore di san Filippo - ha raccontato padre Botta - era pieno di Spirito Santo e, quando è stata fatta l’autopsia del corpo, c’è stato molto stupore nel constatare che le dimensioni del muscolo cardiaco fossero più grandi del normale».
Tra il pubblico le spiegazioni dei relatori hanno destato molta curiosità, sopratutto riguardo ai miracoli che il santo ha compiuto. E in effetti, ha spiegato padre Cerrato, Filippo era un taumaturgo che compì diversi miracoli, come la risurrezione per poche ore del piccolo Paolo Massimo, figlio del principe Fabrizio, nel palazzo Massimo alle Colonne, vicino alla Chiesa Nuova. Dopo gli interventi, i relatori hanno guidato il pubblico in chiesa per pregare davanti alle spoglie mortali di San Filippo.
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