Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

martedì 15 novembre 2016

IMPORTANZA DELLA SALVEZZA



Rogamus autem fratres, ut negotium vestrum agatis (Thess 4,10)

PUNTO I

Il negozio dell'eterna salute è certamente l'affare, che a noi importa più di tutti gli altri; ma questo è il più trascurato da' cristiani. Non si lascia diligenza, né si perde tempo per arrivare a quel posto, per vincer quella lite, per concludere quel matrimonio; quanti consigli, quante misure si prendono; non si mangia, non si dorme! E poi per accertare la salute eterna, che si fa? come si vive? Non si fa niente, anzi si fa tutto per perderla; e si vive dalla maggior parte de' cristiani, come la morte, il giudizio, l'inferno, il paradiso e l'eternità non fossero verità di fede, ma favole inventate da' poeti. Se si perde una lite, una raccolta, che pena non si sente? e che studio non si mette per riparare il danno avuto? Se si perde un cavallo, un cane, che diligenza non si fa per ritrovarlo? Si perde la grazia di Dio, e si dorme, e si burla, e si ride. Gran cosa! Ognuno si vergogna d'esser chiamato negligente ne' negozi del mondo; e poi tanti non si vergognano di trascurare il negozio dell'eternità, che importa tutto! Chiamano essi savi li santi, che hanno atteso solamente a salvarsi, e poi essi attendono a tutte l'altre cose del mondo e niente all'anima! Ma voi (dice S. Paolo), voi, fratelli miei, attendete solo al gran negozio che avete della vostra salute eterna, che questo è l'affare che a voi più importa. "Rogamus vos, ut vestrum negotium agatis". Persuadiamoci dunque che la salute eterna è per noi il negozio più "importante", il negozio "unico", ed è un negozio "irreparabile", se mai si sgarra.

È il negozio il più "importante". Sì, perch'è l'affare di maggior conseguenza, trattandosi dell'anima, che perdendosi è perduto tutto. L'anima dee stimarsi da noi la cosa più preziosa, che tutti i beni del mondo."Anima est toto mundo pretiosior", dice S. Gio. Grisostomo. Per intendere ciò, basta sapere che lo stesso Dio ha dato il Figlio alla morte, per salvare l'anime nostre! "Sic Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret" (Io 3,16). E 'l Verbo eterno non ha ricusato di comprarle col suo medesimo sangue. "Emti enim estis pretio magno" (1 Cor 19,10). Talmente che (dice un santo Padre) par che l'uomo vaglia, quanto vale Dio: "Tam pretioso munere humana redemtio agitur, ut homo Deum valere videtur". Quindi disse Gesù Cristo: "Quam dabit homo commutationem pro anima sua?" (Matth 16,26). Se l'anima dunque tanto vale, per qual bene mai del mondo un uomo la cambierà perdendola?

Avea ragione S. Filippo Neri di chiamar pazzo chi non attende a salvarsi l'anima. Se mai nella terra vi fossero uomini mortali ed uomini immortali, ed i mortali vedessero gl'immortali tutti applicati alle cose del mondo, ad acquistare onori, beni e spassi di terra, direbbero certamente loro: Oh pazzi che siete! voi potete acquistarvi beni eterni e pensate a queste cose miserabili e passaggiere? e per queste vi condannate voi stessi a pene eterne nell'altra vita? Lasciate che a questi beni terreni ci pensiamo solamente noi sventurati, per cui nella morte finirà tutto per noi. Ma no, che siamo tutti immortali; e come va poi, che tanti per li miseri piaceri di questa terra perdono l'anima? Come va, dice Salviano, che i cristiani credono esservi giudizio, inferno, eternità, e poi vivono senza temerli? "Quid causae est, quod christianus, si futura credit, futura non timeat?".

PUNTO II

Il negozio dell'eterna salute non solo è il più importante, ma è "l'unico" negozio che abbiamo in questa vita. "Porro unum est necessarium". Piange S. Bernardo la sciocchezza de' cristiani, che chiamano pazzia le pazzie de' fanciulli, e poi chiamano negozi i loro affari terreni. "Nugae puerorum, nugae vocantur, nugae maiorum, negotia vocantur?". Queste pazzie de' grandi sono pazzie più grandi. Ed a che serve (dice il Signore) guadagnarti tutto il mondo, e perdere l'anima? "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?" (Matth 16,26). Se ti salvi, fratello mio, non importa che in questa terra sii stato povero, afflitto e disprezzato: salvandoti, non avrai più guai, e sarai felice per tutta l'eternità. Ma se la sgarri e ti danni, che ti servirà nell'inferno l'averti presi tutti gli spassi del mondo, e l'essere stato ricco ed onorato? Perduta l'anima, si perdono gli spassi, gli onori, le ricchezze; si perde tutto.

Che risponderai a Gesù Cristo nel giorno de' conti? Se il re mandasse un suo ambasciadore a trattare qualche gran negozio in una città, e quegli in vece di attendere ivi all'affare commessogli, attendesse solamente a far banchetti, commedie e festini: e con ciò mandasse a male il negozio, qual conto ne darebbe al re nel suo ritorno? Ma oh Dio! che maggior conto darà al Signore nel giudizio colui, che posto sulla terra, non per divertirsi, non per farsi ricco, non per acquistare onori ma per salvarsi l'anima, ad ogni cosa avrà atteso, fuorché all'anima? Si pensa da' mondani solamente al presente, non al futuro. S. Filippo Neri parlando una volta in Roma ad un giovane di talento, chiamato Francesco Zazzera, che stava applicato al mondo, gli disse così: Figlio mio, tu farai gran fortuna, sarai buono avvocato, poi sarai prelato, poi forse anche cardinale, e chi sa, forse anche Papa. E poi? e poi? Va (gli disse in fine), pensa a queste due ultime parole. Se ne andò Francesco alla casa, e pensando a quelle due parole, "e poi? e poi?" lasciò le sue applicazioni mondane, lasciò anche il mondo, ed entrò nella stessa Congregazione di S. Filippo, e cominciò ad attendere solo a Dio.

"Unico" negozio, perché un'anima abbiamo. Benedetto XII fu richiesto da un principe d'una grazia, che non potea concedersi senza peccato; il Papa rispose all'ambasciadore: Dite al vostro principe, che se io avessi due anime, potrei una perderla per lui e l'altra riservarla per me; ma perché ne ho una sola, non posso né voglio perderla. Dicea S. Francesco Saverio che un solo bene vi è nel mondo, e un solo male; l'unico bene è il salvarsi, l'unico male è il dannarsi. Ciò replicava ancora S. Teresa alle sue monache dicendo: "Sorelle mie, un'anima, un'eternità". Volendo dire: "Un'anima", perduta questa, è perduto tutto: "Una eternità", perduta l'anima una volta, è perduta per sempre. Perciò pregava Davide: "Unam petii, et hanc requiram, ut inhabitem in domo Domini" (Ps 22,6). Signore, una cosa vi chiedo, salvatemi l'anima, e non altro.

"Cum metu, et tremore, vestram salutem operamini" (Phil 2,12). Chi non teme e non trema di perdersi, non si salverà; ond'è che per salvarsi, bisogna faticare e farsi violenza. "Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud" (Matth 11). Per conseguir la salute è necessario che in morte la nostra vita si trovi simile a quella di Gesù Cristo. "Praedestinavit uniformes fieri imaginis Filii sui" (Rom 8,29). E perciò dobbiam faticare in fuggir le occasioni da una parte, e dall'altra in avvalerci de' mezzi necessari a conseguir la salute. "Regnum non dabitur vagantibus (dice S. Bernardo), sed pro servitio Deo digne laborantibus". Tutti vorrebbero salvarsi senza incomodo. Gran cosa! dice S. Agostino, il demonio fa tanta fatica, e non dorme per farci perdere; e tu, trattandosi del tuo bene, o male eterno, sei così trascurato? "Vigilat hostis, dormis tu"?

PUNTO III

Negozio "importante", negozio "unico", negozio "irreparabile". "Sane supra omnem errorem est", dice S. Eucherio, "dissimulare negotium aeternae salutis". Non v'è errore simile all'errore di trascurare la salute eterna. A tutti gli altri errori vi è rimedio: se uno perde una roba, può acquistarla per altra via: se perde un posto, può esservi il rimedio a ricuperarlo: ancorché taluno perdesse la vita, se si salva, è rimediato a tutto. Ma per chi si danna, non vi è più rimedio. Una volta si muore; perduta l'anima una volta, è perduta per sempre. "Periisse semel, aeternum est". Altro non resta, che piangere eternamente cogli altri miseri pazzi nell'inferno: dove questa è la maggior pena, che li tormenta, il pensare che per essi è finito il tempo di rimediare alla loro miseria. "Finita est aestas, et nos salvati non sumus" (Ier 8,20). Dimandate a que' savi del mondo, che ora stanno in quella fossa di fuoco, dimandate quali sentimenti ora tengono? e se si trovan contenti di aver fatte le loro fortune in questa terra, ora che son dannati a quel carcere eterno? Udite come piangono e dicono: "Ergo erravimus!". Ma che serve loro conoscer l'errore fatto, ora che non v'è più rimedio alla loro eterna dannazione? Qual pena non sentirebbe taluno in questa terra, se avendo potuto rimediare con poca spesa alla rovina d'un suo palagio, un giorno poi lo trovasse caduto, e considerasse la sua trascuraggine, quando non può più rimediarvi?

Questa è la maggior pena de' dannati il pensare che han perduta l'anima, e si son dannati per colpa loro. "Perditio tua, Israel, tantummodo in me auxilium tuum" (Os 13,9). Dice S. Teresa che se uno perde per colpa sua una veste, un anello, anche una bagattella, non trova pace, non mangia, non dorme. Oh Dio qual pena sarà al dannato in quel punto ch'entrerà nell'inferno, allorché vedendosi già chiuso in quella prigione di tormenti, anderà pensando alla sua disgrazia, e vedrà che per tutta l'eternità non vi sarà mai più riparo! Dunque dirà: Io ho perduta l'anima, il paradiso e Dio: ho perduto tutto per sempre, e perché? per colpa mia.

Ma dirà taluno: Se io fo questo peccato, perché m'ho da dannare? può essere che ancora mi salvi. Io ripiglio: Ma può essere che ancora ti danni. Anzi ti dico esser più facile che ti danni, poiché le Scritture minacciano la dannazione a' traditori ostinati, come in questo punto sei tu: "Vae filii desertores, dicit Dominus" (Is 30,1) "Vae eis, quoniam recesserunt" (Os 7,13). Almeno con questo peccato, che fai, non metti in gran pericolo e dubbio la tua salute eterna? Ed è negozio questo da metterlo in pericolo? Non si tratta d'una casa, d'una villa, d'un posto, si tratta, dice S. Gio. Grisostomo, di subissare in un'eternità di tormenti e di perdere un paradiso eterno: "De immortalibus suppliciis, de coelestis regni amissione res agitur". E questo negozio che importa il tutto per te, vuoi arrischiarlo ad un "può essere?".

Dici: Forse chi sa, non mi dannerò: spero che appresso Dio mi perdonerà. Ma frattanto? frattanto già da te stesso ti condanni all'inferno. Dimmi, ti butteresti in un pozzo con dire, forse chi sa, non morirò? No. E come poi puoi appoggiare la tua salute eterna ad una speranza così debole? ad un "chi sa?". Oh quanti con questa maledetta speranza si son dannati! Non sai che la speranza degli ostinati a voler peccare, non è speranza, ma inganno e presunzione, che muove Dio non a misericordia, ma a maggiore sdegno? Se ora dici che non ti fidi di resistere alla tentazione ed alla passione che ti domina, come resisterai appresso, quando non ti si aumenteranno, ma ti mancheranno le forze col commettere il peccato? poiché da una parte allora l'anima resterà più accecata, ed indurita dalla sua malizia, e dall'altra mancheranno gli aiuti divini. Forse speri che Dio abbia ad accrescere a te i lumi e le grazie, dopo che tu avrai accresciuti i peccati?

VANITÀ DEL MONDO

Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? (Matth 16,26)

PUNTO I

Fuvvi un certo antico filosofo, chiamato Aristippo, che viaggiando una volta per mare, naufragò colla nave, ed egli perdé tutte le sue robe; ma giunto al lido, essendo esso molto rinomato per la sua scienza, fu da' paesani di quel luogo provveduto di tutto ciò che avea perduto. Ond'egli scrisse poi a' suoi amici nella patria che dal suo esempio attendessero a provvedersi solamente di quei beni, che neppur col naufragio si perdono. Or questo appunto ci mandano a dire dall'altra vita i nostri parenti ed amici che stanno all'eternità, che attendiamo a provvederci qui in vita solamente di quei beni, che neppure colla morte si perdono. Il giorno della morte si chiama, "Dies perditionis (Iuxta est dies perditionis. Deut 29,21)". Giorno di perdita, perché in tal giorno i beni di questa terra, gli onori, le ricchezze, i piaceri tutti si han da perdere. Onde dice S. Ambrogio che questi non possiamo chiamarli beni nostri, mentre non possiamo portarli con noi all'altro mondo; ma le sole virtù ci accompagnano all'altra vita: "Non nostra sunt, quae non possumus auferre nobiscum; sola virtus nos comitatur".

Che serve dunque, dice Gesù Cristo, guadagnarsi tutto il mondo, se in morte perdendo l'anima perderemo tutto? "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur?". Ah questa gran massima quanti giovani ne ha mandati a chiudersi ne' chiostri, quanti anacoreti a vivere ne' deserti, quanti martiri a dar la vita per Gesù Cristo! Con questa massima S. Ignazio di Loiola tirò molte anime a Dio; e specialmente la bell'anima di S. Francesco Saverio, il quale stava in Parigi, applicato ivi a' pensieri di mondo. Francesco (gli disse un giorno il santo) pensa che il mondo è un traditore, che promette e non attende. Ma ancorché ti attendesse quel che ti promette il mondo, egli non potrà mai contentare il tuo cuore. Ma facciamo che ti contentasse, quando durerà questa tua felicità? può durare più che la tua vita? ed in fine che te ne porterai all'eternità? Vi è forse ivi alcun ricco, che si ha portata una moneta, o un servo per suo comodo? Vi è alcun re, che si ha portato un filo di porpora per suo onore? A queste parole S. Francesco lasciò il mondo, seguitò S. Ignazio e si fece santo. "Vanitas vanitatum", così chiamò Salomone tutti i beni di questo mondo, dopo ch'egli non si negò alcun piacere di tutti quelli che stanno sulla terra, com'egli stesso confessò: "Omnia quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis" (Eccl 2,10). Dicea suor Margherita di S. Anna carmelitana Scalza, figlia dell'imperator Ridolfo II: "A che servono i regni nell'ora della morte?". Gran cosa! tremano i santi in pensare al punto della loro salute eterna; tremava il P. Paolo Segneri, il quale tutto spaventato dimandava al suo confessore: Che dici, padre, mi salverò? Tremava S. Andrea d'Avellino, e piangeva dirottamente dicendo: Chi sa, se mi salvo! Da questo pensiero ancora era così tormentato S. Luigi Beltrando, che per lo spavento la notte sbalzava di letto dicendo: E chi sa, se mi danno! E i peccatori vivono dannati, e dormono, e burlano, e ridono!

PUNTO II

"Statera dolosa in manu eius" (Os 12). Bisogna pesare i beni nelle bilance di Dio, non in quelle del mondo, le quali ingannano. I beni del mondo son beni troppo miseri, che non contentano l'anima, e presto finiscono. "Dies mei velociores fuerunt cursore, pertransierunt quasi naves poma portantes" (Iob 9,25). Passano e fuggono i giorni della nostra vita e de' piaceri di questa terra, e finalmente che resta? "Pertransierunt quasi naves". Le navi non lasciano neppure il segno per dove son passate. "Tanquam navis, quae pertransit fluctuantem aquam, cuius, cum praeterierit, non est vestigium invenire" (Sap 5,10). Domandiamo a tanti ricchi, letterati, principi, imperadori, che or sono all'eternità, che si trovano delle loro pompe, delizie e grandezze godute in questa terra? Tutti rispondono: Niente, niente. Uomo, dice S. Agostino: "Quid hic habebat, attendis, quid secum fert, attende". Tu guardi (dice il santo) solamente i beni, che possedea quel grande; ma osserva che cosa si porta seco, or che muore, se non un cadavere puzzolente ed uno straccio di veste per seco infracidirsi? De i grandi del mondo che muoiono, appena per poco tempo si sente parlare, e poi se ne perde anche la memoria. "Periit memoria eorum cum sonitu" (Ps 9,7). E se i miseri vanno poi all'inferno, ivi che fanno, che dicono? Piangono e dicono: "Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia?... transierunt omnia illa, tanquam umbra" (Sap 5,8). Che ci han giovate le nostre pompe e le ricchezze, se ora tutto è passato come un'ombra, ed altro non c'è rimasto che pena, pianto e disperazione eterna?

"Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis sunt" (Luc 16,8). Gran cosa! come sono prudenti i mondani per le cose della terra! Quali fatiche non fanno, per guadagnarsi quel posto, quella roba! Che diligenza non mettono, per conservarsi la sanità del corpo! Scelgono i mezzi più sicuri, il miglior medico, i migliori rimedi, la miglior aria. E per l'anima poi sono così trascurati! Ed è certo che la sanità, i posti, le robe un giorno han da finire; ma l'anima, l'eternità non finiscono mai. "Intueamur (dice S. Agostino) quanta homines sustineant pro rebus, quas vitiose diligunt". Che non soffre quel vendicativo, quel ladro, quel disonesto per giungere al suo pravo intento? E poi per l'anima non vogliono soffrir niente? Oh Dio, che alla luce di quella candela, che si accende nella morte, allora in quel tempo di verità si conosce e si confessa da' mondani la loro pazzia. Allora ognuno dice: Oh avessi lasciato tutto, e mi fossi fatto santo! Il Pontefice Leone XI diceva in morte: Meglio fossi stato portinaio del mio monastero, che Papa. Onorio III similmente Papa, anche dicea morendo: Meglio fossi restato nella cucina del mio convento a lavare i piatti. Filippo II re di Spagna morendo si chiamò il figlio, e gittando la veste regale, gli fe' vedere il petto roso da' vermi, e poi gli disse: Principe, vedi come si muore, e come finiscono le grandezze del mondo. E poi esclamò: Oh fossi stato laico di qualche religione e non monarca. Nello stesso tempo si fe' ligare al collo una fune con una croce di legno, e dispose le cose per la sua morte, e disse al figlio: Ho voluto, figlio mio, che voi vi foste trovato presente a quest'atto, acciocché miriate come il mondo in fine tratta anche i monarchi. Sicché la loro morte è uguale a quella de' più poveri del mondo. In somma chi meglio vive ha miglior luogo con Dio. Questo medesimo figlio poi (che fu Filippo III) morendo giovine di 42 anni, disse: Sudditi miei, nel sermone de' miei funerali, non predicate altro se non questo spettacolo che vedete. Dite che non serve in morte l'esser re, che per sentire maggior tormento d'esserlo stato. E poi esclamò: Oh non fossi stato re, e fossi vivuto in un deserto a servire Dio, perché ora anderei con maggior confidenza a presentarmi nel suo tribunale, e non mi troverei a tanto rischio di dannarmi! Ma che servono questi desideri in punto di morte, se non per maggior pena e disperazione a chi in vita non ha amato Dio? Dicea dunque S. Teresa: "Non ha da farsi conto di ciò, che finisce colla vita; la vera vita è vivere in modo, che non si tema la morte". Perciò se vogliamo vedere, che cosa sono li beni di questa terra, miriamoli dal letto della morte; e poi diciamo: Quegli onori, quegli spassi, quelle rendite un giorno finiranno: dunque bisogna attendere a farci santi e ricchi di quei soli beni che verranno con noi, e ci renderanno contenti per tutta l'eternità.

PUNTO III

"Tempus breve est... qui utuntur hoc mundo, tanquam non utantur, praeterit enim figura huius mundi" (1 Cor 7,31). Che altro è la nostra vita su questo mondo, se non una scena che passa e presto finisce? "Praeterit figura huius mundi"; figura cioè scena, commedia. "Mundus est instar scenae (dice Cornelio a Lapide), generatio praeterit, generatio advenit. Qui regem agit, non auferet secum purpuram. Dic mihi, o villa, o domus, quot dominos habuisti?". Quando finisce la commedia, chi ha fatta la parte del re, non è più re; il padrone, non è più padrone. Ora possiedi quella villa, quel palagio; ma verrà la morte, e ne saran padroni gli altri.

"Malitia horae oblivionem facit luxuriae magnae" (Eccli 11,29). L'ora funesta della morte fa scordare e finire tutte le grandezze, le nobiltà ed i fasti del mondo. Casimiro re di Polonia un giorno, mentre stava a mensa co' grandi del suo regno, accostando la bocca ad una tazza per bere, morì, e finì per lui la scena. Celso imperadore, in capo a sette giorni ch'era stato eletto, fu ucciso, e finì la scena per Celso. Ladislao re di Boemia, giovine di 18 anni, mentre aspettava la sposa, figlia del re di Francia, e si apparecchiavano gran feste, ecco in una mattina preso da un dolore se ne muore; onde si spediscono subito i corrieri ad avvisare la sposa, che se ne torni in Francia, poiché per Ladislao era finita la scena. Questo pensiero della vanità del mondo fe' santo S. Francesco Borgia, il quale come di sopra si considerò a vista dell'imperadrice Isabella, morta in mezzo alle grandezze e nel fiore di sua gioventù, risolse di darsi tutto a Dio, dicendo: "Così dunque finiscono le grandezze e le corone di questo mondo? Voglio dunque da ogg'innanzi servire ad un padrone, che non mi possa morire".

Procuriamo di vivere in modo, che non ci sia detto in morte, come fu detto a quel pazzo del Vangelo: "Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te, et quae parasti cuius erunt?" (Luc 12,20). Onde conclude S. Luca: "Sic est qui sibi thesaurizat, et non est in Deum dives". E poi dice: Procurate di farvi ricchi, non già nel mondo di robe, ma in Dio di virtù e di meriti, che son beni che saranno eterni con voi in cielo: "Thesaurizate vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo neque tinea demolitur". E perciò attendiamo ad acquistarci il gran tesoro del divino amore. "Quid habet dives, si caritatem non habet? Pauper si caritatem habet, quid non habet?" dice S. Agostino. Se uno ha tutte le ricchezze e non ha Dio, egli è il più povero del mondo. Ma il povero che ha Dio, ha tutto. E chi ha Dio? chi l'ama: "Qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16).

LA PRESENTE VITA È VIAGGIO ALL'ETERNITÀ

Ibit homo in domum aeternitatis suae (Eccl 12,5)

PUNTO I

Dal vedere che in questa terra tanti malviventi vivono tra le prosperità, e tanti giusti all'incontro vivon tribulati, anche i gentili col solo lume naturale han conosciuta questa verità che essendovi Dio, ed essendo questo Dio giusto, debba esservi un'altra vita, in cui siano puniti gli empi e premiati i buoni. Or quello che han detto i gentili col solo lume della ragione, noi cristiani lo confessiamo per fede. "Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus" (Hebr 13,14). Questa terra non è già la nostra patria, ella per noi è luogo di passaggio, per dove dobbiamo passare tra breve alla casa dell'eternità. "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Dunque, lettor mio, la casa dove abiti, non è casa tua, è ospizio, dal quale, tra breve, e quando meno te l'immagini, dovrai sloggiare. Sappi che giunto che sarà il tempo di tua morte, i tuoi più cari saranno i primi a cacciartene. E quale sarà la tua vera casa? una fossa sarà la casa del tuo corpo sino al giorno del giudizio, e l'anima tua dovrà andare alla casa dell'eternità, o al paradiso, o all'inferno. Perciò ti avvisa S. Agostino: "Hospes es, transis et vides". Sarebbe pazzo quel pellegrino, che passando per un paese volesse ivi impiegare tutto il suo patrimonio, per comprarsi ivi una villa o una casa, che tra pochi giorni avesse poi da lasciare. Pensa pertanto, dice il santo, che in questo mondo stai di passaggio; non mettere affetto a quel che vedi; vedi e passa; e procurati una buona casa, dove avrai da stare per sempre.

Se ti salvi, beato te, oh che bella casa è il paradiso! Tutte le reggie più ricche de' monarchi sono stalle a rispetto della città del paradiso, che sola può chiamarsi: "Civitas perfecti decoris" (Ez 23,3). Colà non avrai più che desiderare, stando in compagnia de' santi, della divina Madre e di Gesù Cristo, senza timore più d'alcun male; in somma viverai in un mar di contenti ed in un continuo gaudio che sempre durerà. "Laetitia sempiterna super capita eorum" (Is 35,10). E questo gaudio sarà così grande, che per tutta l'eternità, in ogni momento, sembrerà sempre nuovo. All'incontro, se ti danni, povero te! Sarai confinato in un mare di fuoco e di tormenti, disperato, abbandonato da tutti e senza Dio. E per quanto tempo? Passati forse che saranno cento e mille anni, sarà finita la tua pena? Che finire! Passeranno cento e mille milioni d'anni e di secoli; e l'inferno tuo sempre sarà da capo. Che sono mille anni a rispetto dell'eternità? meno d'un giorno che passa. "Mille anni ante oculos tuos, tanquam dies hesterna quae praeteriit" (Ps 89,4). Vorresti or sapere quale sarà la tua casa, che ti toccherà nell'eternità? Sarà quella che tu ti meriti, e ti scegli tu stesso colle tue opere.

PUNTO II

"Si lignum ceciderit ad austrum, aut ad aquilonem, in quocunque loco ceciderit, ibi erit" (Eccl 11,3). Dove caderà in morte l'albero dell'anima tua, ivi avrai da restare in eterno. E non vi è via di mezzo, o sempre re nel cielo, o sempre schiavo nell'inferno. O sempre beato in un mare di delizie, o sempre disperato in una fossa di tormenti. S. Gio. Grisostomo considerando l'epulone, che fu stimato felice, ma poi era stato confinato all'inferno, e Lazzaro all'incontro, che fu stimato misero, perché povero, ma poi era felice nel paradiso, esclama: "O infelix felicitas, quae divitem ad aeternam infelicitatem traxit! O felix infelicitas, quae pauperem ad aeternitatis felicitatem perduxit!".

Che serve angustiarsi, come fa taluno dicendo: Chi sa se son prescito, o predestinato! L'albero allorché si taglia, dove cade? cade dove pende. Dove pendete voi, fratello mio? che vita fate? Procurate di pender sempre dalla parte dell'austro, conservatevi in grazia di Dio, fuggite il peccato; e così vi salverete e sarete predestinato. E per fuggire il peccato, abbiate sempre avanti gli occhi il gran pensiero dell'eternità, chiamato appunto da S. Agostino: "Magna cogitatio". Questo pensiero ha condotti tanti giovani a lasciare il mondo, ed a vivere ne' deserti, per attendere solo all'anima; e l'hanno accertata. Ora che son salvi, se ne trovan certamente contenti, e se ne troveran contenti per tutta l'eternità.

Una certa dama, che vivea lontana da Dio, fu convertita dal P. M. Avila con dirle solamente: Signora, pensate a queste due parole: "Sempre e Mai". Il P. Paolo Segneri ad un pensiero ch'ebbe di eternità in un giorno, non poté prender sonno per più notti, e d'indi in poi si diede ad una vita più rigorosa. Narra Dresselio che un certo vescovo con questo pensiero dell'eternità menava una vita santa, replicando sempre tra sé: "Omni momento ad ostium aeternitatis sto". Un certo monaco si chiuse in una fossa ed ivi non faceva altro che esclamare: "O eternità, o eternità!". Chi crede all'eternità, e non si fa santo, diceva il medesimo P. Avila, dovrebbe chiudersi nella carcere de' pazzi.

PUNTO III

"Ibit homo in domum aeternitatis suae": dice il profeta, "ibit", per dinotare che ciascuno anderà a quella casa, dove vuole andare; non vi sarà portato, ma esso vi anderà di propria volontà. È certo che Dio vuol tutti salvi, ma non ci vuole salvi per forza. "Ante hominem vita, et mors". Ha posta avanti ad ognuno di noi la vita e la morte, quella ch'eleggeremo, ci sarà data: "Quod placuerit ei, dabitur illi" (Eccli 15,18). Dice finalmente Geremia che il Signore ci ha date due vie da camminare, una del paradiso e l'altra dell'inferno: "Ego do coram vobis viam vitae, et mortis" (Ier 21,8). A noi sta di scegliere. Ma chi vuol camminare per la via dell'inferno, come mai potrà ritrovarsi poi giunto al paradiso? Gran cosa! tutti i peccatori si voglion salvare, e frattanto si condannano da se stessi all'inferno con dire, spero di salvarmi. Ma chi mai, dice S. Agostino, trovasi così pazzo, che voglia prendersi il veleno colla speranza di guarirsi? "Nemo vult aegrotare sub spe salutis". E poi tanti cristiani, tanti pazzi, si danno la morte peccando con dire: Appresso penserò al rimedio! O inganno che ne ha mandati tanti all'inferno!

Non siamo noi così pazzi come questi; pensiamo che si tratta d'eternità. Quante fatiche fanno gli uomini per farsi una casa comoda, ariosa e in buon'aria, pensando che vi han da abitare per tutta la loro vita? E perché poi sono così trascurati, trattando di quella casa, che loro toccherà in eterno? "Negotium pro quo contendimus, aeternitas est", dice S. Eucherio; non si tratta d'una casa più o meno comoda, più o meno ariosa, si tratta di stare o in un luogo di tutte le delizie tra gli amici di Dio, o in una fossa di tutti i tormenti tra la ciurma infame di tanti scelerati, eretici, idolatri. E per quanto tempo? non per venti, o per quarant'anni, ma per tutta l'eternità. È un gran punto. Non è questo negozio di poco momento, è un negozio che importa tutto. Quando Tommaso Moro fu condannato a morte da Arrigo VIII, Luisa sua moglie andò a tentarlo di consentire al volere di Arrigo; egli le disse allora: Dimmi, Luisa, già vedi ch'io son vecchio, quanti anni potrei aver di vita? Rispose la moglie: Voi potreste vivere venti altri anni. O sciocca mercantessa, ripigliò allora Tommaso, e per venti altri anni di vita su questa terra vuoi che perda un'eternità felice, e mi condanni ad una eternità di pene?

O Dio, dacci lume. Se il punto dell'eternità fosse una cosa dubbia, fosse un'opinione solamente probabile, pure dovressimo metter tutto lo studio per viver bene, acciocché non ci ponessimo al pericolo di essere eternamente infelici, se mai quest'opinione si trovasse vera; ma no, che questo punto non è dubbio, ma certo; non è opinione, ma verità di fede: "Ibit homo in domum aeternitatis suae". Oimè che la mancanza di fede, dice S. Teresa, è quella che è causa di tanti peccati e della dannazione di tanti cristiani. Ravviviamo dunque sempre la fede, dicendo: "Credo vitam aeternam". Credo che dopo questa vita vi è un'altra vita, che non finisce mai; con questo pensiero sempre avanti gli occhi prendiamo i mezzi per assicurare la nostra salute eterna. Frequentiamo i sagramenti, facciamo la meditazione ogni giorno e pensiamo alla vita eterna; fuggiamo le occasioni pericolose. E se bisogna lasciare il mondo, lasciamolo, perché non vi è sicurtà che basta per assicurare questo gran punto dell'eterna salute. "Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas" (S. Bernardo).

LA MALIZIA DEL PECCATO MORTALE

Filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me (Isa 1,2)

PUNTO I

Che fa chi commette un peccato mortale? Ingiuria Dio, lo disonora, l'amareggia. Per prima il peccato mortale è un'ingiuria, che si fa a Dio. La malizia di un'ingiuria, come dice S. Tommaso, si misura dalla persona, che la riceve, e dalla persona che la fa. Un'ingiuria che si fa ad un villano, è male, ma è maggior delitto, se si fa ad un nobile; maggiore poi, se si fa ad un monarca. Chi è Dio? è il Re de' Regi. "Dominus Dominantium est, et Rex Regum" (Apoc 17,14). Dio è una maestà infinita, a rispetto di cui tutt'i principi della terra e tutt'i santi e gli angeli del cielo son meno d'un acino d'arena. "Quasi stilla situlae, pulvis exiguus" (Is 40,15). Anzi dice Osea che a fronte della grandezza di Dio tutte le creature son tanto minime, come se non vi fossero: "Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram Eo" (Os 5). Questo è Dio. E chi è l'uomo? S. Bernardo: "Saccus vermium, cibus vermium". Sacco di vermi e cibo di vermi, che tra breve l'han da divorare. "Miser, et pauper, et caecus, et nudus" (Apoc 3,17). L'uomo è un verme misero che non può niente, cieco che non sa veder niente, e povero e nudo che niente ha. E questo verme miserabile vuole ingiuriare un Dio! "Tam terribilem maiestatem audet vilis pulvisculus irritare!" dice lo stesso S. Bernardo. Ha ragione dunque l'Angelico in dire che 'l peccato dell'uomo contiene una malizia quasi infinita. "Peccatum habet quandam infinitatem malitiae ex infinitate divinae maiestatis". Anzi S. Agostino chiama il peccato assolutamente "infinitum malum". Ond'è che se tutti gli uomini e gli angeli si offerissero a morire, e anche annichilarsi, non potrebbero soddisfare per un solo peccato. Dio castiga il peccato mortale colla gran pena dell'inferno, ma per quanto lo castighi, dicono tutt'i teologi che sempre lo castiga "citra condignum", cioè meno di quel che dovrebbe esser punito.

E qual pena mai può giungere a punir come merita un verme, che se la piglia col suo Signore? Dio è il Signore del tutto, perché egli ha creato il tutto. "In ditione tua cuncta sunt posita, tu enim creasti omnia" (Esther 13,9). Ed in fatti tutte le creature ubbidiscono a Dio: "Venti et mare obediunt ei" (Matth 8,27). "Ignis, grando, nix, glacies faciunt verbum eius" (Ps 148,8). Ma l'uomo quando pecca, che fa? dice a Dio: Signore, io non ti voglio servire. "Confregisti iugum meum; dixisti, non serviam" (Ier 2,20). Il Signore gli dice, non ti vendicare: e l'uomo risponde, ed io voglio vendicarmi; non prendere la roba d'altri; ed io me la voglio pigliare; privati di quel gusto disonesto; ed io non me ne voglio privare. Il peccatore dice a Dio, come disse Faraone, allorché Mosè gli portò l'ordine di Dio che lasciasse in libertà il suo popolo, rispose il temerario: "Quis est Dominus, ut audiam vocem eius? nescio Dominum" (Exod 5,2). Lo stesso dice il peccatore: Signore, io non ti conosco, voglio fare quel che piace a me. In somma gli perde il rispetto in faccia e gli volta le spalle; questo propriamente è il peccato mortale, una voltata di spalle che si fa a Dio: "Aversio ab incommutabili bono". Di ciò si lamenta il Signore: "Tu reliquisti me, dicit Dominus; retrorsum abiisti" (Ier 15,6): Tu sei stato l'ingrato, dice Dio, che hai lasciato me, poiché io non ti avrei mai lasciato: "retrorsum abiisti", tu mi hai voltato le spalle.

Iddio s'è dichiarato che odia il peccato; onde non può far di meno di odiare poi chi lo commette. "Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius" (Sap 14,9). E l'uomo quando pecca, ardisce di dichiararsi nemico di Dio, e se la piglia da tu a tu con Dio: "Contra Omnipotentem roboratus est" (Iob 15,25). Che direste, se vedeste una formica volersela pigliare con un soldato? Dio è quel potente, che dal niente con un cenno ha creato il cielo e la terra. "Ex nihilo fecit illa Deus" (2 Mach 7,28). E se vuole, con un altro cenno può distruggere il tutto: "Potest universum mundum uno nutu delere" (2 Mach 8,18). E 'l peccatore allorché consente al peccato, stende la mano contra Dio: "Tetendit adversus Deum manum suam; cucurrit adversus eum erecto collo, pingui cervice armatus est". Alza il collo, cioè la superbia e corre ad ingiuriare Dio: e s'arma d'una testa grassa, cioè d'ignoranza (il grasso è simbolo dell'ignoranza), con dire: "Quid feci?". E che gran male è quel peccato che ho fatto? Dio è di misericordia, perdona i peccatori. Che ingiuria! che temerità! che cecità!

PUNTO II

Il peccatore non solo ingiuria Dio, ma lo disonora. "Per praevaricationem legis Deum inhonoras" (Rom 2,23). Sì, perché rinunzia alla sua grazia, e per un gusto miserabile si mette sotto i piedi l'amicizia di Dio. Se l'uomo perdesse la divina amicizia, per guadagnarsi un regno, anche tutto il mondo, pure sarebbe un gran male, perché l'amicizia di Dio vale più che il mondo e mille mondi. Ma perché taluno offende Dio? "Propter quid irritavit impius Deum?" (Psal 10,13). Per un poco di terra, per uno sfogo d'ira, per un gusto di bestia, per un fumo, per un capriccio. "Violabant me propter pugillum hordei, et fragmen panis" (Ez 13,19). Allorché il peccatore si mette a deliberare di dare o no il consenso al peccato, allora (per così dire) prende in mano la bilancia, e si mette a vedere che cosa pesa più, se la grazia di Dio, o quello sfogo, quel fumo, quel gusto; e quando poi dà il consenso, allora dichiara in quanto a sé che vale più quello sfogo, quel gusto, che non vale la divina amicizia. Ecco Dio svergognato dal peccatore. Davide considerando la grandezza e la maestà di Dio dicea: "Domine, quis similis tibi"? (Psal 34,10). Ma Dio all'incontro, quando si vede da' peccatori posto a confronto e posposto ad una soddisfazione miserabile, loro dice: "Cui assimilastis me, et adaequastis me, dicit Sanctus?" (Is 40,25). Dunque (dice il Signore) valeva più quel gusto vile, che la grazia mia? "Proiecisti me post corpus tuum" (Ez 23,35). Non avresti fatto quel peccato, se avessi avuto a perdere una mano, se dieci ducati, e forse molto meno. Dunque solo Dio, dice Salviano, è così vile agli occhi tuoi, che merita d'esser posposto ad uno sfogo, ad una misera soddisfazione: "Deus solus in comparatione omnium tibi vilis fuit". In oltre, quando il peccatore per qualche suo gusto offende Dio, allora fa che quel gusto diventi il suo Dio, facendolo diventare suo ultimo fine. Dice S. Girolamo: "Unusquisque quod cupit, si veneratur, hoc illi Deus est. Vitium in corde, est idolum in altari". Onde dice S. Tommaso: "Si amas delicias, deliciae dicuntur Deus tuus". E S. Cipriano: "Quidquid homo Deo anteponit, Deum sibi facit". Geroboamo quando si ribellò da Dio, procurò di tirarsi seco anche il popolo ad idolatrare, e perciò gli presentò gl'idoli suoi e gli disse: "Ecce dii tui, Israel" (3 Reg 12,28). Così fa il demonio, presenta al peccatore quella soddisfazione e dice: Che ne vuoi fare di Dio? ecco lo Dio tuo, questo gusto, questo sfogo, prenditi questo e lascia Dio. Ed il peccatore, quando acconsente, così fa, adora per Dio nel suo cuore quella soddisfazione. "Vitium in corde est idolum in altari".

Almeno, se il peccatore disonora Dio, non lo disonorasse in sua presenza; no, l'ingiuria, e lo disonora in faccia di lui, perché Dio è presente in ogni luogo. "Coelum et terram ego impleo" (Ier 23,24). E questo lo sa già il peccatore, e con tutto ciò non si arresta di provocare Dio avanti gli occhi suoi. "Ad iracundiam provocant me ante faciem meam" (Is 65,3).

PUNTO III

Il peccato ingiuria Dio, lo disonora e con ciò sommamente l'amareggia. Non vi è amarezza più sensibile, che il vedersi pagato d'ingratitudine da una persona amata e beneficata. Con chi se la piglia il peccatore? ingiuria un Dio che l'ha creato e l'ha amato tanto, ch'è giunto a dare il sangue e la vita per suo amore; ed egli commettendo un peccato mortale lo discaccia dal suo cuore. In un'anima che ama Dio, viene Dio ad abitarvi. "Si quis diligit me, Pater meus diliget eum et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus" (Io 14,23). Notisi: "Mansionem faciemus", Dio viene nell'anima per istarvi sempre, sicché non la lascia, se l'anima non lo discaccia: "Non deserit, nisi deseratur", come si dice nel Tridentino. Ma, Signore, Voi già sapete che quell'ingrato fra un altro momento già vi caccerà, perché non vi partite ora? che volete aspettare ch'egli proprio vi discacci? lasciatelo, partitevi, prima ch'egli vi faccia questa grande ingiuria. No, dice Dio, Io non voglio partirmi, sino che proprio esso non mi discaccia.

Dunque, allorché l'anima consente al peccato, dice a Dio: Signore partitevi da me: "Impii dixerunt Deo, recede a nobis" (Iob 21,14). Non lo dice colla bocca, ma col fatto: "Recede, non verbis, sed moribus", dice S. Gregorio. Già sa il peccatore che Dio non può stare col peccato; vede già che peccando dee partirsi Dio; onde gli dice: Giacché Voi non potete starvi col mio peccato, e Voi partitevi, buon viaggio. E cacciando Dio dall'anima sua, fa ch'entri immediatamente il demonio, a prenderne il possesso. Per quella stessa porta, per cui esce Dio, entra il nemico: "Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus secum nequiores se, et intrantes habitant ibi" (Matth 12,45). Quando un bambino si battezza, il sacerdote intima al demonio: "Exi ab eo, immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto". Sì, perché quell'anima, ricevendo la grazia, diventa tempio di Dio. "Nescitis, quia templum Dei estis?" (1 Cor 3,16). Ma quando l'uomo consente al peccato, fa tutto l'opposto: dice a Dio che sta nell'anima sua: "Exi a me, Domine, da locum diabolo". Di ciò appunto si lamentò il Signore con santa Brigida, dicendo ch'egli dal peccatore è come un re discacciato dal proprio trono: "Sum tanquam rex a proprio regno expulsus, et loco mei latro pessimus electus est".

Qual pena avreste voi, se riceveste un'ingiuria grave da taluno che aveste molto beneficato? Questa è la pena che avete data al vostro Dio, ch'è giunto a dar la vita per salvarvi. Il Signore chiama il cielo e la terra quasi a compatirlo, per l'ingratitudine che gli usano i peccatori. "Audite coeli desuper, auribus percipe terra; filios enutrivi, et exaltavi, ipsi autem spreverunt me" (Is 1,2). In somma i peccatori coi loro peccati affliggono il cuore di Dio: "Ipsi autem ad iracundiam provocaverunt, et afflixerunt spiritum sanctum eius" (Is 63,10). Dio non è capace di dolore, ma se mai ne fosse capace, un peccato mortale basterebbe a farlo morire di pura mestizia, come dice il P. Medina: "Peccatum mortale, si possibile esset, destrueret ipsum Deum, eo quod causa esset tristitiae in Deo infinitae". Sicché, come dice S. Bernardo, "peccatum quantum in se est, Deum perimit". Dunque il peccatore, allorché commette un peccato mortale, dà per così dire il veleno a Dio; non manca per lui di torgli la vita. "Exacerbavit Dominum peccator" (Hebr 10,4). E secondo dice S. Paolo, si mette sotto i piedi il Figlio di Dio: "Qui Filium Dei conculcaverit" (Hebr 10,29). Mentre disprezza tutto ciò che ha fatto e patito Gesù Cristo per togliere il peccato dal mondo.

LA MISERICORDIA DI DIO

Superexaltat autem misericordia iudicium (Iac 2,13)

PUNTO I

La bontà è diffusiva di sua natura, cioè inclinata a comunicare i suoi beni anche agli altri. Or Iddio che per natura è bontà infinita ("Deus cuius natura bonitas", S. Leone), ha un sommo desiderio di comunicare a noi la sua felicità; e perciò il suo genio non è di castigare, ma d'usar misericordia a tutti. Il castigare, dice Isaia, è un'opera aliena dall'inclinazione di Dio: "Irascetur, ut faciat opus suum, alienum opus eius... peregrinum est opus eius ab eo" (Is 28,21). E quando il Signore castiga in questa vita, castiga per usar misericordia nell'altra. "Deus iratus est, et misertus est nobis" (Ps 59,3). Si dimostra irato, acciocché noi ci ravvediamo e detestiamo i peccati: "Ostendisti populo tuo dura, potasti nos vino compunctionis" (Ps 59,5). E se ci manda qualche castigo, lo fa perché ci ama, per liberarci dal castigo eterno: "Dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus, ut liberentur dilecti tui" (Ps 59,6). E chi mai può ammirare e lodare abbastanza la misericordia ch'usa Dio co' peccatori in aspettarli, in chiamarli ed in accoglierli, allorché ritornano? E per prima, oh la gran pazienza, che ha Dio in aspettarti a penitenza! Fratello mio, quando tu offendevi Dio, poteva egli farti morire? E Dio t'aspettava; e in vece di castigarti, ti faceva bene, ti conservava la vita e ti provvedeva. Fingea di non vedere i tuoi peccati, acciocché tu ti ravvedessi. "Dissimulans peccata hominum propter poenitentiam" (Sap 11,24). Ma come, Signore, Voi non potete vedere un sol peccato, e poi ne vedete tanti e tacete? "Respicere ad iniquitatem non poteris; quare respicis super iniquitates, et taces?" (Abac 1,11). Voi mirate quel disonesto, quel vendicativo, quel bestemmiatore, che da giorno in giorno vi accresce l'offese, e non lo castigate? e perché tanta pazienza? "Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri" (Is 30,18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi, e così possa perdonarlo e salvarlo.

Dice S. Tommaso che tutte le creature, il fuoco, la terra, l'aria, l'acqua per loro naturale istinto vorrebbero punire il peccatore, per vendicare l'ingiurie fatte al lor Creatore: "Omnis creatura, tibi factori deserviens, excandescit adversus iniustos". Ma Dio le trattiene per la sua pietà. Ma, Signore, Voi aspettate questi empi, acciocché si ravvedano, e non vedete che l'ingrati si servono della vostra misericordia per più offendervi? "Indulsisti, Domine, indulsisti genti, nunquid glorificatus es?" (Is 26,15). E perché tanta pazienza? perché Dio non vuol la morte del peccatore, ma che si converta e si salvi. "Nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat" (Ez 33,11). Oh pazienza di Dio! Giunge a dir S. Agostino che se Iddio non fosse Dio, sarebbe ingiusto, a riguardo della troppa pazienza che usa co' peccatori: "Deus, Deus meus, pace tua dicam, nisi quia Deus esses, iniustus esses". Aspettare chi si serve della pazienza per più insolentire, par che sia un'ingiustizia all'onore divino. "Nos peccamus", siegue a dire il santo, "inhaeremus peccato (taluni fan pace col peccato, dormono in peccato i mesi e gli anni), gaudemus de peccato (altri arrivano a vantarsi delle loro scelleraggini): et tu placatus es! Te nos provocamus ad iram, tu nos ad misericordiam"; sembra che facciamo a gara con Dio, noi ad irritarlo a castigarci, ed Egli ad invitarci al perdono.

PUNTO II

Considera in oltre la misericordia che usa Dio in chiamare il peccatore a penitenza. Quando Adamo si ribellò dal Signore, e poi si nascondea dalla sua faccia, ecco Dio che avendo perduto Adamo, lo va cercando e quasi piangendo lo chiama: "Adam, ubi es?" (Gen 3,9). "Sunt verba Patris (commenta il P. Pereira) quaerentis filium suum perditum". Lo stesso ha fatto Dio tante volte con te, fratello mio. Tu fuggivi da Dio, e Dio t'andava chiamando, ora con ispirazioni, ora con rimorsi di coscienza, ora con prediche, ora con tribolazioni, ora colla morte de' tuoi amici. Par che dica Gesù Cristo, parlando di te: "Laboravi clamans, raucae factae sunt fauces meae" (Ps 68,4). Figlio, quasi ho perduta la voce in chiamarti. Avvertite, o peccatori, dice S. Teresa, che vi sta chiamando quel Signore, che un giorno vi ha da giudicare.

Cristiano mio, quante volte hai fatto il sordo con Dio, che ti chiamava? Meritavi ch'egli non ti chiamasse più. Ma no, il tuo Dio non ha lasciato di seguire a chiamarti, perché volea far pace con te e salvarti. Oh Dio, chi era quegli che ti chiamava? un Dio d'infinita maestà. E tu chi eri, se non un verme miserabile e puzzolente? E perché ti chiamava? non per altro che per restituirti la vita della grazia, che tu avevi perduta: "Revertimini, et vivite" (Ez 18,32). Acciocché taluno potesse acquistare la divina grazia, poco sarebbe, se vivesse in un deserto per tutta la sua vita; ma Dio ti esortava a ricever la sua grazia in un momento, se volevi con un atto di pentimento: e tu la rifiutavi. E Dio con tutto ciò non ti ha abbandonato; ti è andato quasi piangendo appresso e dicendo: Figlio, e perché ti vuoi dannare? "Et quare moriemini, domus Israel?" (Ez 18,31).

Allorché l'uomo commette un peccato mortale, egli discaccia Dio dall'anima sua. "Impii dicebant Deo: Recede a nobis" (Iob 21,14). Ma Dio che fa? si pone alla porta di quel cuore ingrato: "Ecce sto ad ostium, et pulso" (Apoc 3,20). E par che preghi l'anima a dargli l'entrata: "Aperi mihi, soror mea" (Cant 5,2). E si affatica a pregare: "Laboravi rogans" (Ier 15,6). Sì, dice S. Dionisio Areopagita, Dio va appresso a' peccatori come un amante disprezzato, pregandoli che non si perdano: "Deus etiam a se aversos amatorie sequitur, et deprecatur ne pereant". E ciò appunto significò S. Paolo, quando scrisse a' discepoli: "Obsecramus pro Christo, reconciliamini Deo" (2 Cor 5,20). È bella la riflessione, che fa S. Gio. Grisostomo commentando questo passo: "Ipse Christus vos obsecrat. Quid autem obsecrat? reconciliamini Deo; non enim Ipse inimicus gerit, sed vos". E vuol dire il santo che non già il peccatore ha da stentare per muovere Dio a far pace con esso, ma esso ha da risolversi a voler far pace con Dio; mentr'egli, non già Iddio, fugge la pace.

Ah che questo buon Signore va tutto giorno appresso a tanti peccatori, e va loro dicendo: Ingrati, non fuggite più da me, ditemi perché fuggite? Io amo il vostro bene, ed altro non desidero che di rendervi felici, perché volete perdervi? Ma, Signore, Voi che fate? Perché tanta pazienza e tanto amore a questi ribelli? che bene Voi ne sperate? È poco vostro onore il farvi vedere così appassionato verso di questi miseri vermi che vi fuggono. "Quid est homo, quia magnificas eum? Aut quid apponis erga eum cor tuum?" (Iob 7,17).

PUNTO III

I principi della terra sdegnano anche di riguardare i sudditi ribelli, che vanno a cercar loro perdono; ma Dio non fa così con noi. "Non avertet faciem suam a vobis, si reversi fueritis ad eum" (2 Par 30,9). Iddio non sa voltar la faccia a chi ritorna a' piedi suoi; no, poiché Egli stesso l'invita e gli promette di riceverlo subito che viene: "Revertere ad me, et suscipiam te" (Ier 3,1). "Convertimini ad me, convertar ad vos, ait Dominus" (Zach 1,3). Oh l'amore e la tenerezza con cui abbraccia Dio un peccatore che a Lui ritorna! Ciò appunto volle darci ad intendere Gesù Cristo colla parabola della pecorella, che avendola trovata il pastore, se la stringe sulle spalle: "Imponit in humeros suos gaudens" (Luc 15,5). E chiama gli amici a seco rallegrarsene: "Congratulamini mihi, quia inveni ovem meam, quae perierat" (Luc 15,6). E poi soggiunge S. Luca: "Gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente". Ciò maggiormente significò il Redentore colla parabola del figlio prodigo, dicendo ch'egli è quel Padre, che vedendo ritornare il figlio perduto, gli corre all'incontro; e prima che quegli parli, l'abbraccia e lo bacia, ed in abbracciarlo, quasi vien meno di tenerezza per la consolazione che sente: "Accurrens cecidit super collum eius, et osculatus est eum" (Luc 15,20).

Giunge il Signore a dire che se il peccatore si pente, egli vuole scordarsi de' suoi peccati, come se quegli non l'avesse mai offeso: "Si impius egerit poenitentiam... vita vivet; omnium iniquitatum eius non recordabor" (Ez 18,21). Giunge anche a dire: "Venite, et arguite me (dicit Dominus), si fuerint peccata vestra ut coccinum, quasi nix dealbabuntur" (Is 1,18). Come dicesse, venite peccatori (venite, et arguite me), e s'io non vi perdono, riprendetemi, e trattatemi da infedele. Ma no, che Dio non sa disprezzare un cuore che si umilia e si pente. "Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies" (Psal 50).

Si gloria il Signore di usar pietà e di perdonare i peccatori. "Exaltabitur parcens vobis" (Is 30,18). E quanto sta egli a perdonare? subito. "Plorans nequaquam plorabis, miserans miserabitur tui" (Is 30,19). Peccatore, dice il profeta, non hai molto da piangere; alla prima lagrima il Signore si muoverà a pietà di te. "Ad vocem clamoris tui, statim ut audierit, respondebit tibi" (Is 30,19). Non fa Dio con noi, come noi facciamo con Dio; Dio ci chiama, e noi facciamo i sordi; Dio no, "statim ut audierit respondebit tibi": subito che tu ti penti, e gli domandi il perdono, subito Dio risponde e ti perdona.

ABUSO DELLA DIVINA MISERICORDIA

Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit? (Rom 2,4)

PUNTO I

Si ha nella parabola della zizania in S. Matteo (Matth 13) che essendo cresciuta in un campo la zizania insieme col grano, volevano i servi andare ad estirparla: "Vis, imus, et colligimus ea?". Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: "In tempore messis dicam messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum". Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa co' peccatori; e per l'altra il rigore che usa cogli ostinati. Dice S. Agostino che in due modi il demonio inganna gli uomini: "Desperando, et sperando". Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della divina giustizia; ma prima di peccare, l'anima al peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno: "Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam". Sì, perché non merita misericordia chi si serve della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia, dice l'Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa misericordia, a chi ricorrerà?

Difficilmente si trova peccatore sì disperato, che voglia proprio dannarsi. I peccatori voglion peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. "Bonus est Deus, faciam quod mihi placet", ecco come parlano i peccatori, scrive S. Agostino. Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati.

Non dire, dice il Signore: Son grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò perdonato. "Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum meorum miserebitur" (Eccli 5,6). Nol dire, dice Dio; e perché? "Misericordia enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius" (Eccli 5,7). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa misericordia (che son le miserazioni) son finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto. "Ego sum iustus, et misericors", disse il Signore un giorno a S. Brigida; "peccatores tantum misericordem me existimant". I peccatori, scrive S. Basilio, voglion considerare Dio solo per metà: "Bonus est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare". Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il P. M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa. "Et misericordia eius timentibus eum", come cantò la divina Madre. Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice S. Agostino) Dio non mentisce nelle promesse; così non mentisce ancora nelle minacce: "Qui verus est in promittendo, verus est in minando".

Guardati, dice S. Gio. Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; "Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur". Guai, soggiunge S. Agostino, a chi spera per peccare: "Sperat, ut peccet; vae a perversa spe". Oh quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il santo, questa vana speranza. "Dinumerari non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit". Povero chi s'abusa della pietà di Dio, per più oltraggiarlo! Dice S. Bernardo che Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne castigo. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora dice S. Gio. Grisostomo che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità di Gesù Cristo: "Fidit in lenitate magistri". In somma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche de' cristiani (parlando degli adulti) si danna: "Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam" (Matth 7,13).

Chi offende Dio colla speranza del perdono, "irrisor est non poenitens", dice S. Agostino. Ma all'incontro dice S. Paolo che Dio non si fa burlare: "Deus non irridetur" (Galat 6,7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi andare al paradiso. "Quae enim seminaverit homo, haec et metet" (Galat 6,7). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed inferno. La rete con cui il demonio strascina all'inferno quasi tutti quei cristiani che si dannano, è quest'inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché con tutt'i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del perdono. "Maledictus homo qui peccat in spe". La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli ostinati è l'abbominio di Dio: "Et spes illorum abominatio" (Iob 11,20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, siccome irriterebbe il padrone quel servo che l'offendesse, perché il padrone è buono.

PUNTO II

Dirà taluno, Dio m'ha usate tante misericordie per lo passato, così spero che me l'userà per l'avvenire. Ma io rispondo: E perché t'ha usate tante misericordie, per questo lo vuoi tornare ad offendere? Dunque (ti dice S. Paolo) così tu disprezzi la bontà e la pazienza di Dio? Nol sai che 'l Signore ti ha sopportato sinora; non già a fine che tu lo segui ad offendere, ma acciocché piangi il mal fatto? "An divitias bonitatis eius, et patientiae contemnis? Ignoras, quoniam benignitas Dei ad poenitentiam te adducit?" (Rom 2,4). Quando tu fidato alla divina misericordia non vuoi finirla, la finirà il Signore. "Nisi conversi fueritis, arcum suum vibrabit" (Ps 7). "Mea est ultio et ego retribuam in tempore" (Deut 32,35). Dio aspetta ma quando giunge il tempo della vendetta, non aspetta più e castiga.

"Propterea exspectat Dominus, ut misereatur vestri" (Is 30,18). Dio aspetta il peccatore, acciocché si emendi: ma quando vede che quegli del tempo, che gli è dato per piangere i peccati, se ne serve per accrescerli, allora chiama lo stesso tempo a giudicarlo. "Vocavit adversum me tempus" (Thren 1,15). S. Gregorio: "Ipsum tempus ad iudicandum vertit". Sicché lo stesso tempo dato, le stesse misericordie usate serviranno per farlo castigare con più rigore e più presto abbandonare. "Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam" (Ier 51,9). E come Dio l'abbandona? O gli manda la morte, e lo fa morire in peccato; o pure lo priva delle grazie abbondanti, e lo lascia colla sola grazia sufficiente, colla quale il peccatore potrebbe sì bene salvarsi ma non si salverà. La mente accecata, il cuore indurito, il mal abito fatto renderanno la sua salvazione moralmente impossibile; e così resterà, se non assolutamente, almeno moralmente abbandonato. "Auferam sepem eius, et erit in direptionem" (Is 5,5). Oh che castigo! Che segno è, quando il padrone scassa la siepe, e permette che nella vigna v'entri chi vuole, uomini e bestie? è segno che l'abbandona. Così fa Dio, quando abbandona un'anima, le toglie la siepe del timore, del rimorso di coscienza, e la lascia nelle tenebre; ed allora entreranno in quell'anima tutti i mostri de' vizi. "Posuisti tenebras, et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestiae silvae" (Ps 103,20). E 'l peccatore abbandonato che sarà in quell'oscurità, disprezzerà tutto, grazia di Dio, paradiso, ammonizioni, scomuniche; si burlerà della stessa sua dannazione. "Impius, cum in profundum peccatorum venerit, contemnit" (Prov 18,3).

Dio lo lascerà in questa vita senza castigarlo, ma il non castigarlo sarà il suo maggior castigo. "Misereamur impio, et non discet iustitiam" (Is 26,10). Dice S. Bernardo su questo testo: "Misericordiam hanc ego nolo; super omnem iram miseratio ista". Oh qual castigo è quando Dio lascia il peccatore in mano del suo peccato, e par che non gliene domandi più conto! "Secundum multitudinem irae suae non quaeret" (Ps 9). E sembra che non sia con lui sdegnato. "Auferetur zelus meus a te, et quiescam, nec irascar amplius" (Ez 16,42). E par che lo lasci a conseguir tutto ciò che desidera in questa terra. "Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum" (Ps 80). Poveri peccatori, che in questa vita son prosperati! È segno che Dio aspetta a renderli vittime della sua giustizia nella vita eterna. Dimanda Geremia: "Quare via impiorum prosperatur?" (Ier 12,1). E poi risponde: "Congregas eos quasi gregem ad victoriam". Non v'è castigo maggiore, che quando Dio permette ad un peccatore che aggiunga peccati a peccati, secondo quel che dice Davide: "Appone iniquitatem super iniquitatem... deleantur de libro viventium" (Ps 66,28). Sul che dice il Bellarmino: "Nulla poena maior, quam cum peccatum est poena peccati". Meglio sarebbe stato per talun di quest'infelici, che il Signore l'avesse fatto morire dopo il primo peccato; perché, morendo appresso, avrà tanti inferni, quanti peccati ha commessi.

PUNTO III

Si narra nella vita del P. Luigi la Nusa che in Palermo v'erano due amici; andavano questi un giorno passeggiando, uno di costoro chiamato Cesare ch'era commediante, vedendo l'altro pensoso: Quanto va, gli disse, che tu sei andato a confessarti, e perciò ti sei inquietato? Senti (poi gli soggiunse), sappi che un giorno mi disse il Padre la Nusa che Dio mi dava 12 anni di vita, e che se io non mi emendava tra questo tempo, avrei fatta una mala morte. Io ho camminato per tante parti del mondo, ho avute infermità, specialmente una che mi ridusse all'ultimo, ma in questo mese in cui si compiscono i 12 anni mi sento meglio che in tutto il tempo della vita mia. Indi l'invitò di venire a sentire il sabato una nuova commedia da lui composta. Or che avvenne? nel sabato, che fu a' 24 di novembre del 1668, mentre stava egli per uscire in iscena, gli venne una goccia, e morì di subito, spirando tra le braccia d'una donna anche commediante, e così finì la commedia. Or veniamo a noi. Fratello mio, quando il demonio vi tenta a peccare di nuovo, se volete dannarvi, sta in arbitrio vostro il peccare, ma non dite allora, che volete salvarvi; mentre volete peccare, tenetevi per dannato, e figuratevi che allora Dio scriva la vostra condanna, e vi dica: "Quid ultra debui facere vineae meae, et non feci?" (Is 5,4). Ingrato, che più io dovea fare per te, e non ho fatto? Or via, giacché vuoi dannarti, sii dannato, è colpa tua.

Ma dirai: E la misericordia di Dio dov'è? Ahi misero, e non ti pare misericordia di Dio l'averti sopportato per tanti anni con tanti peccati? Tu dovresti startene sempre colla faccia a terra ringraziandolo e dicendo: "Misericordiae Domini, quia non sumus consumti" (Thren 3). Tu facendo un solo peccato mortale, hai commesso un delitto più grande, che se ti avessi posto sotto i piedi il primo monarca della terra; tu n'hai commessi tanti, che se l'ingiurie ch'hai fatte a Dio, l'avessi fatte ad un tuo fratello carnale, neppure ti avrebbe sopportato; Dio non solo ti ha aspettato, ma ti ha chiamato tante volte, e ti ha invitato al perdono. "Quid ultra debui facere?". Se Dio avesse avuto bisogno di te, o se tu gli avessi fatto qualche gran favore, poteva egli usarti maggior pietà? Posto ciò, se tu di nuovo tornerai ad offenderlo, farai che tutta la sua pietà si muti in furore e castigo.

Se quella pianta di fico trovata dal padrone senza frutto, dopo l'anno concesso a coltivarla, neppure avesse renduto alcun frutto, chi mai avrebbe sperato che il Signore l'avesse dato più tempo e perdonato il taglio? Senti dunque ciò che ti avverte S. Agostino: "O arbor infructuosa, dilata est securis, noli esse secura, amputaberis". Il castigo (dice il santo) ti è stato differito, ma non già tolto, se più ti abuserai della divina misericordia, "amputaberis", finalmente ti taglierà. Che vuoi aspettare, che proprio Dio ti mandi all'inferno? Ma se ti ci manda, già lo sai che non vi sarà poi più rimedio per te. Il Signore tace, ma non tace sempre; quando giunge il tempo della vendetta, non tace più. "Haec fecisti, et tacui. Existimasti inique, quod ero tui similis? Arguam te, et statuam contra faciem tuam" (Ps 49,21). Ti metterà avanti le misericordie che ti ha usate, e farà ch'elle stesse ti giudichino e ti condannino.

IL NUMERO DEI PECCATI

Quia non profertur cito contra malos sententia, ideo filii hominum perpetrant mala (Eccl 8,11)

PUNTO I

Se Dio castigasse subito chi l'offende, non si vedrebbe certamente ingiuriato, come ora si vede; ma perché il Signore non castiga subito ed aspetta, perciò i peccatori pigliano animo a più offenderlo. Ma bisogna intendere che Dio aspetta e sopporta: ma non aspetta e non sopporta sempre. È sentenza di molti santi Padri, di S. Basilio, di S. Girolamo, di S. Ambrogio, di S. Cirillo Alessandrino, di S. Gio. Grisostomo, di S. Agostino e d'altri che siccome Iddio tiene determinato il numero per ciascun uomo de' giorni di vita, de' gradi di sanità, o di talento che vuol dargli: "Omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti" (Sap 11,21), così ancora tiene a ciascuno determinato il numero de' peccati, che vuol perdonargli; compito il quale non perdona più. "Illud sentire nos convenit (dice S. Agostino) tandiu unumquenque a Dei patientia sustineri; quo consummato, nullam illi veniam reservari". Lo stesso dice Eusebio Cesariense: "Deus exspectat usque ad certum numerum, et postea deserit". E lo stesso dicono gli altri Padri nominati di sopra.

E questi Padri non han parlato a caso ma fondati sulle divine Scritture. In un luogo disse il Signore che trattenea la rovina degli Amorrei, perché non era compito ancora il numero delle loro colpe: "Nondum completae sunt iniquitates Amorrhaeorum" (Gen 15). In altro luogo disse: "Non addam ultra misereri Israel" (Is 19). In altro "Tentaverunt me per decem vices, non videbunt terram" (Num 14,22). In altro dice Giobbe: "Signasti quasi in sacculo delicta mea" (Iob 14,17). I peccatori non tengono conto de' peccati, ma ben lo tiene Dio per dare il castigo, quando è maturata la messe, cioè quando è compito il numero: "Mittite falces, quoniam maturavit messis" (Ioel 3,13). In altro luogo dice Dio: "De propitiato peccato noli esse sine metu; neque adiicias peccatum super peccatum" (Eccli 5,5). E vuol dire: Peccatore, bisogna che tu paventi anche de' peccati che ti ho perdonati, perché, se ne aggiungi un altro, può essere che il peccato nuovo insieme coi perdonati compiscono il numero, ed allora non vi sarà più misericordia per te. In altro luogo più chiaramente dice la Scrittura: "Exspectat Deus patienter, ut cum iudicii dies advenerit, eas (Nationes), in plenitudine peccatorum puniat" (2 Macch 6,14). Sicché Dio aspetta sino al giorno, in cui si riempie la misura de' peccati, e poi castiga.

Di tal castigo poi vi sono molti esempi nella Scrittura, e specialmente di Saulle, che avendo l'ultima volta disubbidito a Dio, Dio l'abbandonò, talmente ch'egli pregando Samuele che avesse interceduto per lui: "Porta quaeso peccatum meum, et revertere mecum, ut adorem Deum"; Samuele gli rispose: "Non revertar tecum, quia abiecisti sermonem Domini, et abiecit te Dominus" (1 Reg 15,25). Vi è l'esempio di Baltassarre, il quale stando a mensa profanò i vasi del tempio, ed allora vide una mano che scrisse sul muro: "Mane, Thecel, Phares". Venne Daniele, e spiegando quelle parole, tra l'altro gli disse: "Appensus es in statera, et inventus es minus habens" (Dan 5,27). Dandogli ad intendere che il peso de' suoi peccati già avean fatto calar la bilancia della divina giustizia, ed in fatti nella stessa notte fu ucciso: "Eadem nocte interfectus est Baltassar rex Chaldaeus". Ed oh a quanti miserabili succede lo stesso, che vivono molti anni ne' peccati, ma quando termina il loro numero son colti dalla morte e mandati all'inferno! "Ducunt in bonis dies suos, et in puncto ad inferna descendunt" (Iob 21,13). Taluni mettonsi ad indagare il numero delle stelle, il numero degli angeli, o degli anni di vita che avrà alcuno, ma chi mai può mettersi ad indagare il numero de' peccati, che Dio voglia a ciascun perdonare? E perciò bisogna tremare. Chi sa, fratello mio, che a quella prima soddisfazione indegna, a quel primo pensiero acconsentito, a quel primo peccato che farete, Dio non vi perdoni più?

PUNTO II

Dice quel peccatore: Ma Dio è di misericordia. Rispondo, e chi lo nega? La misericordia di Dio è infinita, ma con tutta questa misericordia, quanti tutto dì si dannano? "Veni ut mederer contritis corde" (Is 61,1). Dio sana chi tiene buona volontà. Egli perdona i peccati, ma non può perdonare la volontà di peccare. Replicherà: Ma io son giovine. Sei giovine? ma Dio non conta gli anni, conta i peccati. E questa tassa de' peccati non è eguale per tutti; ad alcuni Dio perdona cento peccati, ad un altro mille, ad un altro al secondo peccato lo manderà all'inferno. Quanti il Signore ce ne ha mandati al primo peccato? Narra S. Gregorio che un fanciullo di cinque anni, in dire una bestemmia, fu mandato all'inferno. Rivelò la SS. Vergine a quella serva di Dio Benedetta di Fiorenza che una fanciulla di 12 anni al primo peccato fu condannata. Un altro figliuolo di 8 anni anche al primo peccato morì e si dannò. Dicesi nel Vangelo di S. Matteo (Matth 21) che 'l Signore la prima volta che trovò quell'albero di fico senza frutto, subito lo maledisse, "nunquam ex te nascatur fructus", e quello seccò. Un'altra volta disse: "Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum" (Amos 1,3). Forse alcun temerario vorrà chiedere ragione a Dio, perché ad uno vuol perdonare tre peccati, e quattro no? In ciò bisogna adorare i divini giudizi, e dire coll'Apostolo: "O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei; quam incomprehensibilia sunt iudicia eius, et investigabiles viae eius!" (Rom 11,33). S. Agostino: "Novit ille cui parcat, et cui non parcat. Quibus datur misericordia, gratis datur, quibus non datur, ex iustitia non datur".

Replicherà l'ostinato: Ma io tante volte ho offeso Dio, e Dio m'ha perdonato; e così spero che mi perdoni quest'altro peccato. Ma io dico: E perché Dio non ti ha castigato sinora, avrà da essere sempre così? Si compirà la misura, e verrà il castigo. Sansone seguitando a trescare con Dalila, pure sperava di liberarsi dalle mani de' Filistei, come avea fatto prima: "Egrediar sicut ante feci, et me excutiam" (Iudic 16,20). Ma in quell'ultima volta restò preso, e ci perdé la vita. "Ne dicas: peccavi, et quid accidit mihi triste?". Non dire, dice il Signore, ho fatti tanti peccati, e Dio non mai m'ha castigato. "Altissimus enim est patiens redditor" (Eccli 5,4). Viene a dire, che verrà una e pagherà tutto. E quanto maggiore sarà stata la misericordia, tanto più grave sarà il castigo. Dice il Grisostomo che più dee temersi, quando Dio sopporta l'ostinato, che quando subito lo punisce: "Plus timendum est cum tolerat, quam cum festinanter punit". Perché (come scrive S. Gregorio) coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati! "Quos diutius exspectat, durius damnat". E spesso, soggiunge il santo, che quelli che molto tempo sono stati sopportati, improvvisamente poi muoiono senz'aver tempo di convertirsi: "Saepe qui diu tolerati sunt, subita morte rapiuntur, ut nec flere ante mortem licet". Specialmente quando più grande sarà stata la luce che Dio ti ha data, tanto maggiore sarà la tua accecazione ed ostinazione nel peccato. "Melius enim erat illis" (disse S. Pietro) "non cognoscere viam iustitiae quam post agnitionem retrorsum converti" (2 Petr 2,21). E S. Paolo disse essere impossibile (moralmente parlando) che un'anima illuminata, peccando di nuovo si converta: "Impossibile enim est eos, qui semel illuminati sunt, et gustaverunt donum coeleste... et prolapsi sunt, rursus renovari ad poenitentiam" (Hebr 6,4).

È terribile quel che dice il Signore contra i sordi alle sue chiamate: "Quia vocavi, et renuistis... Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos" (Prov 1,24). Si notino quelle due parole "Ego quoque": significano che siccome quel peccatore ha burlato Dio, confessandosi, promettendo e poi sempre tradendolo; così il Signore si burlerà di lui nella sua morte. In oltre dice il Savio: "Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum, sic imprudens qui iterat stultitiam suam" (Prov 26,11). Spiega questo testo Dionisio Cartusiano, e dice che come si rende abbominevole e schifoso quel cane, che si ciba di ciò che prima ha vomitato; così rendesi odioso a Dio, chi ritorna a commettere i peccati che ha detestati nella confessione: "Sicut id quod per vomitum est reiectum resumere, est valde abominabile ac turpe, sic peccata deleta reiterare".

PUNTO III

"Fili, peccasti? Non adiicias iterum, sed de pristinis deprecare, ut tibi dimittantur" (Eccli 21,1). Ecco quel che ti avverte, cristiano mio, il tuo buon Signore, perché ti vuol salvo: Figlio, non tornare ad offendermi, ma d'oggi innanzi attendi a chiedere il perdono de' peccati fatti. Fratello mio, quanto più hai offeso Dio, tanto più dei tremare di non offenderlo più, perché un altro peccato che commetterai, farà calar la bilancia della divina giustizia, e sarai dannato. Io non dico assolutamente, che dopo un altro peccato per te non vi sarà più perdono, perché questo nol so, ma dico che può succedere. Onde quando sarete tentato, dite: E chi sa se Dio non mi perdona più, e resto dannato? Ditemi di grazia, se fosse probabile che in un cibo vi fosse il veleno, lo prendereste voi? Se probabilmente credeste che in quella via vi fossero i vostri nemici per torvi la vita, vi passereste voi, avendo un'altra via sicura? E così qual sicurezza, anzi qual probabilità avete voi che tornando a peccare, appresso ne avrete vero dolore e non tornerete più al vomito? e che peccando, Dio non vi faccia morire nello stesso atto del peccato, o che dopo quello non vi abbandoni?

Oh Dio, se voi comprate una casa, voi fate già tutta la diligenza per assicurar la cautela e non buttare il vostro danaro. Se prendete una medicina, cercate di bene assicurarvi che quella non vi possa nuocere. Se passate un torrente, cercate di assicurarvi di non cadervi dentro. E poi per una misera soddisfazione, per un diletto di bestia, volete arrischiare la salute eterna, con dire: Spero di confessarmelo? Ma io vi domando: Quando ve lo confesserete? Domenica. E chi vi promette d'esser vivo sino a Domenica? Domani. E chi vi promette questo domani? Dice S. Agostino: "Diem tenes, qui horam non tenes?". Come potete promettervi di confessarvi domani, quando non sapete di avere neppure un'altra ora di vita? "Qui poenitenti veniam spopondit, (siegue a dire il santo), peccanti diem crastinum non promisit; fortasse dabit, fortasse non dabit". Dio ha promesso il perdono a chi si pente, ma non ha promesso il domani a chi l'offende. Se ora peccate, forse Dio vi darà tempo di penitenza, e forse no; e se non ve lo dà, che ne sarà di voi per tutta l'eternità? Frattanto voi per un misero gusto già perdete l'anima e la mettete a rischio di restar perduta in eterno. Mettereste voi a rischio mille docati per quella vil soddisfazione? Dico più: fareste voi per quel breve gusto un vada tutto, danari, casa, poderi, libertà e vita? No? e poi come per quel misero piacere, volete in un punto far già perdita di tutto, dell'anima, del paradiso e di Dio? Ditemi: Son verità queste cose che insegna la fede, o son favole, che vi sia paradiso, inferno, eternità? Credete voi che se vi coglie la morte in peccato, sarete perduto per sempre? E che temerità, che pazzia condannarvi già da voi stesso ad un'eternità di pene, con dire: Spero appresso di rimediarvi? "Nemo sub spe salutis vult aegrotare", dice S. Agostino. Non si trova pazzo, che si pigli il veleno con dire, può essere che poi con rimedi mi guarisca; e voi volete condannarvi ad una morte eterna, con dire: Può essere che appresso me ne liberi? Oh pazzia che n'ha portato e ne porta tante anime all'inferno! Secondo già la minaccia del Signore: "Fiduciam habuisti in malitia tua, veniet super te malum, et nescies ortum eius" (Is 48,10). Hai peccato fidando temerariamente alla divina misericordia, verrà improvvisamente su di te il castigo, senza saper donde viene.

CHE GRAN BENE SIA LA GRAZIA DI DIO, E CHE MALE LA DISGRAZIA DI DIO

Nescit homo pretium eius (Iob 28,13)

PUNTO I

Dice il Signore: "Si separaveris pretiosum a vili, quasi os meum eris" (Ier 15,19). Chi sa segregare le cose preziose dalle vili, si rende simile a Dio, che sa riprovare il male ed eleggere il bene. Vediamo che bene sia la grazia e che male sia la disgrazia di Dio. Non intendono gli uomini il valore della divina grazia. "Nescit homo pretium eius". E perciò la cambiano per niente, per un fumo, per un poco di terra, per un diletto di bestia; ma ella è un tesoro infinito, che ci rende degni dell'amicizia di Dio. "Infinitus enim thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitiae Dei" (Sap 7,14). Sicché un'anima in grazia ella è amica di Dio. I gentili ch'eran privi della luce della fede, stimavano impossibile che la creatura potesse tenere amicizia con Dio; e parlando secondo il lume naturale, giustamente il diceano, perché l'amicizia (come dice S. Girolamo) rende gli amici eguali: "Amicitia pares aut accipit, aut facit". Ma Iddio ci ha dichiarato in più luoghi che noi per mezzo della sua grazia diventiamo suoi amici per l'osservanza della sua legge: "Vos amici mei estis, si feceritis quae praecipio vobis" (Io 15,14). "Iam non dicam vos servos... vos autem dixi amicos" (Io 15,15). Onde esclama S. Gregorio: O bontà di Dio! non meritiamo noi d'esser chiamati neppure suoi servi, ed egli si degna di chiamarci amici: "Oh mira divinae bonitatis dignatio! Servi non sumus digni nominari, et amici vocamur".

Come si stimerebbe fortunato chi avesse la sorte di aver per amico il suo re! Ma questa sarebbe temerità d'un vassallo pretendere di fare amicizia col suo principe. Ma non è temerità il pretendere un'anima di esser amica del suo Dio. Narra S. Agostino che ritrovandosi due cortigiani in un monistero di solitari, prese uno a leggere ivi la vita di S. Antonio Abate. "Legebat (scrive il santo) et exuebatur mundo cor eius". Leggeva, e leggendo il suo cuore si andava staccando dagli affetti del mondo. Indi rivolto al compagno gli parlò così: "Quid quaerimus? Maior ne esse potest spes nostra, quam quod amici imperatoris simus? Et per quot pericula ad maius periculum pervenitur? et quandiu hoc erit?". Amico, gli disse, pazzi che andiamo noi cercando? possiamo noi sperare più con servir l'imperadore, che di diventare suoi amici? e se a tanto giungessimo, ci porressimo a maggior pericolo della salute eterna. Ma no, che difficilmente arriveremo mai ad aver per amico Cesare. "Amicus autem Dei (così concluse) si voluero, ecce nunc fio". Ma s'io voglio, disse, essere amico di Dio, ora posso diventarlo.

Chi dunque sta in grazia di Dio, diventa amico di Dio. Di più diventa figlio: "Ecce Dii estis, et filii Excelsi omnes" (Ps 3,6). Questa è la gran sorte, che ci ha ottenuta l'amor divino per mezzo di Gesù Cristo. "Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur, et simus" (Io 3,1). Di più l'anima in grazia diventa sposa di Dio: "Sponsabo te mihi in fide" (Os 2,20). E perciò il padre del figlio prodigo, ricevendolo nella sua grazia, ordinò che gli fosse dato l'anello in segno dello sposalizio: "Date annulum in manum eius" (Luc 15,22). Dico di più, diventa tempio dello Spirito Santo. Suor Maria Dognes vide uscire un demonio da un bambino che ricevé il battesimo, ed entrarvi lo Spirito Santo con una corona d'angeli.

PUNTO II

Dice S. Tommaso d'Aquino che il dono della grazia eccede ogni dono che può ricevere una creatura, mentre la grazia è una partecipazione della stessa natura di Dio. "Donum gratiae excedit omnem facultatem naturae creatae, cum sit participatio divinae naturae". E prima già lo disse S. Pietro: "Ut per haec efficiamini divinae consortes naturae" (2 Petr 1,4). Tanto ci ha meritato Gesù Cristo colla sua passione: Egli ci ha comunicato lo stesso splendore che ha ricevuto da Dio. "Et ego claritatem, quam dedisti mihi, dedi eis" (Io 17,22). In somma chi sta in grazia di Dio, si fa una cosa con Dio: "Qui adhaeret Domino, unus spiritus est" (1 Cor 6,17). E disse il Redentore che in un'anima che ama Dio, viene ad abitarvi tutta la SS. Trinità: "Si quis diligit me, Pater meus diliget eum... et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus" (Io 14,23).

È così bella agli occhi di Dio un'anima in grazia che Dio stesso la loda: "Quam pulchra es, amica mea! quam pulchra es!" (Cant 4,1). Il Signore da un'anima che l'ama par che non sappia partire gli occhi né l'orecchie per tutto ciò che gli domanda. "Oculi Domini super iustos, et aures eius in preces eorum" (Ps 33,16). Dicea S. Brigida che non si potrebbe vedere da un uomo la bellezza d'un'anima in grazia di Dio, senza morire per lo gaudio. E S. Caterina da Siena, vedendo già un'anima in grazia, disse ch'ella volentieri avrebbe data la vita, acciocché quell'anima non avesse perduta una tanta bellezza; e perciò la santa baciava la terra per dove passavano i sacerdoti, pensando che per mezzo loro l'anime si rimettono in grazia di Dio.

Quanti acquisti poi di meriti può fare un'anima in grazia! In ogni momento ella può acquistare una gloria eterna. Dice S. Tommaso che ogni atto d'amore fatto da un'anima merita un paradiso a parte: "Quilibet actus caritatis meretur vitam aeternam". Che stiamo dunque noi ad invidiare i grandi del mondo? se stiamo in grazia di Dio, possiamo continuamente acquistare grandezze assai maggiori in cielo. Un certo fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, come scrive il P. Patrignani ne' suoi Menologi, comparve dopo morte, e disse ch'egli era salvo insieme con Filippo II re di Spagna; e che amendue godeano già la gloria, ma che quanto minore egli era stato in terra di Filippo, tanto maggiore era in paradiso. In oltre, solamente chi la prova, può intender la pace che gode anche in questa terra un'anima che sta in grazia di Dio. "Gustate, et videte, quam suavis est Dominus" (Ps 33). Non possono venir meno le parole del Signore: "Pax multa diligentibus legem tuam" (Ps 118,165). La pace di chi sta unito con Dio avanza tutti i piaceri, che può dare il senso e 'l mondo. "Pax Dei, quae exsuperat omnem sensum" (Philipp 4,7).

PUNTO III

Vediamo ora la miseria d'un'anima, che sta in disgrazia di Dio. Ella è separata dal suo sommo bene ch'è Dio. "Peccata vestra diviserunt inter vos, et Deum vestrum" (Is 59,2). Sicché ella non è più di Dio, e Dio non è più suo: "Vos non populus meus, et ego non ero vester" (Ose 1,9). Non solamente non è più suo, ma l'odia e la condanna all'inferno. Non odia il Signore alcuna sua creatura, neppure le fiere, le vipere, i rospi: "Diligis omnia quae fecisti, et nihil odisti eorum quae fecisti" (Sap 11,25). Ma non può lasciar Iddio di odiare i peccatori. "Odisti omnes qui operantur iniquitatem" (Ps 5,7). Sì, perché Dio non può non odiare il peccato, ch'è quel nemico tutto contrario alla sua volontà; e perciò odiando il peccato dee necessariamente odiare anche il peccatore, che sta unito col peccato. "Similiter autem odio sunt Deo impius, et impietas eius" (Sap 14,9).

Oh Dio, se alcuno ha per nemico un principe della terra, non può mai prender sonno quieto, temendo giustamente ad ogni momento la morte. E chi ha per nemico Dio, come può aver pace? Può taluno sfuggire l'ira del principe con nascondersi in una selva, o con andar lontano in altro regno: ma chi può sfuggire le mani di Dio? Signore (dicea Davide), se io salirò in cielo, se mi nasconderò nell'inferno, dovunque vado, la vostra mano può arrivarmi: "Si ascendero in coelum, tu illic es, si descendero in infernum, ades. Etenim illuc manus tua deducet me" (Ps 138,8).

Poveri peccatori! essi son maledetti da Dio, maledetti dagli angeli, maledetti da' Santi, maledetti anche in terra in ogni giorno da tutti i sacerdoti e religiosi, che ne pubblicano la maledizione in recitare l'officio divino: "Maledicti qui declinant a mandatis tuis". In oltre la disgrazia di Dio importa la perdita di tutti i meriti. Abbia meritato un uomo quanto un S. Paolo Eremita che visse 98 anni in una grotta, quanto un S. Francesco Saverio, che guadagnò a Dio dieci milioni d'anime; quanto un S. Paolo apostolo, che guadagnò più meriti (come dice S. Girolamo), che tutti gli altri apostoli, se costui commette un solo peccato mortale, perde tutto. "Omnes iustitiae eius, quas fecerat, non recordabuntur" (Ez 18). Ed ecco la ruina che porta la disgrazia di Dio, da figlio di Dio lo fa diventare schiavo di Lucifero, da amico diletto lo fa diventare nemico sommamente odiato, da erede del paradiso lo fa diventare un condannato dell'inferno. Dicea S. Francesco di Sales che se gli angeli potessero piangere, in veder la miseria d'un'anima che commette un peccato mortale e perde la divina grazia, gli angeli si metterebbero a piangere per compassione.

Ma la maggior miseria è che gli angeli piangerebbero, se fossero capaci di piangere, e 'l peccatore non piange. Dice S. Agostino: Perde colui una bestiuola, una pecorella, non mangia, non dorme e piange; perderà poi la grazia di Dio, e mangia, dorme e non piange.

PAZZIA DEL PECCATORE

Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum (1 Cor 3,19)

PUNTO I

Il venerabile Giovanni d'Avila avrebbe voluto dividere il mondo in due carceri, una per coloro che non ci credono e l'altra per coloro che ci credono, e vivono in peccato lontano da Dio; a costoro dicea che toccava il carcere de' pazzi. Ma la maggior miseria e disgrazia di questi miserabili si è ch'essi tengonsi per savi e prudenti, e sono i più sciocchi e stolti del mondo. E 'l peggio si è che il numero di costoro è innumerabile. "Et stultorum infinitus est numerus" (Eccl 1,15). Chi impazzisce per gli onori, chi impazzisce per gli piaceri, chi per le carogne di questa terra. E costoro poi ardiscono di chiamar pazzi i santi, che disprezzano questi beni del mondo, per acquistarsi la salute eterna e 'l vero bene ch'è Dio. Chiamano pazzia l'abbracciare i disprezzi e perdonare l'ingiurie, pazzia il privarsi de' piaceri di senso e abbracciare le mortificazioni; pazzia rinunziare gli onori e le ricchezze, l'amare la solitudine, e la vita umile e nascosta. Ma non avvertono che la loro sapienza, è chiamata pazzia dal Signore: "Sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum" (1 Cor 3,19).

Ah che un giorno ben confesseranno questa loro pazzia, ma quando? quando non vi sarà più rimedio; e diranno disperati: "Nos insensati vitam illorum aestimabamus insaniam, et finem illorum sine honore" (Sap 5,4). Ah miseri che siamo stati, noi stimavamo pazzia la vita de' santi, ma ora conosciamo che noi siamo stati i pazzi. "Ecce quomodo inter filios Dei computati sunt, et inter sanctos sors illorum est" (Sap 5,5). Ecco com'essi son già collocati tra 'l numero felice de' figli di Dio, ed han fatta tra' santi la loro fortuna, che sarà fortuna eterna, e li renderà per sempre beati; e noi siam restati nel numero degli schiavi del demonio, condannati ad ardere in questa fossa di tormenti per tutta l'eternità. "Ergo erravimus (così concluderanno il loro pianto) a via veritatis, et iustitiae lumen non luxit nobis" (Sap 5,6). Quindi l'abbiamo sgarrata per aver voluto chiudere gli occhi alla divina luce, e quello che più ci renderà infelici è che al nostro errore non vi è, né vi sarà più rimedio, mentre Dio sarà Dio.

Qual pazzia dunque per un vile interesse, per un poco di fumo, per un breve diletto perdere la grazia di Dio! Che non fa un vassallo per guadagnarsi la grazia del suo principe! Oh Dio per una misera soddisfazione perdere il sommo bene, ch'è Dio! perdere il paradiso! perdere anche la pace in questa vita, facendo entrar nell'anima il peccato, che co' suoi rimorsi sempre la tormenterà! e condannarsi volontariamente ad una miseria eterna! Ti prenderesti quel gusto illecito, se per quello ti toccasse poi ad esserti bruciata una mano? o pure a star chiuso un anno dentro una sepoltura? Faresti quel peccato, se dopo quello dovessi perdere cento scudi? E poi credi, e sai che peccando perdi il paradiso e Dio, e sei per sempre condannato al fuoco, e pecchi?

PUNTO II

Poveri peccatori! faticano, stentano per acquistare le scienze mondane, o l'arte di guadagnare i beni di questa vita, che tra breve han da finire; trascurano poi i beni di quella vita, che non finisce mai! Perdono talmente il senno, che diventano non solo pazzi ma bruti; poiché vivendo da bruti, non considerano ciò ch'è bene e ciò ch'è male; ma solamente seguitano gl'istinti bestiali del senso, in abbracciare quel che al presente piace alla carne, senza pensare a quel che perdono ed alla ruina eterna che si tirano sopra. Ma questo non è operare da uomo, ma da bestia. Dice S. Gio. Grisostomo: "Hominem illum dicimus, qui imaginem hominis salvam retinet; quae autem est imago hominis? rationalem esse". L'esser uomo è l'esser ragionevole, cioè operare secondo la ragione, non secondo l'appetito del senso. Se Dio desse ad una bestia l'uso di ragione, e quella secondo la ragione operasse, direbbesi che opera da uomo; così all'incontro, quando l'uomo opera secondo il senso contro la ragione, dee dirsi che l'uomo opera da bestia.

"Utinam saperent, et intelligerent, et novissima providerent" (Deut 32,29). Chi opera da prudente secondo la ragione, prevede il futuro, cioè quello che dee succedergli nel fine della vita, la morte, il giudizio, e dopo questo l'inferno o il paradiso. Oh quanto è più savio un villano che si salva, che un monarca, che si danna! "Melior est puer pauper, et sapiens rege sene et stulto, nesciente praevidere in posterum" (Eccl 4,13). Oh Dio non si stimerebbe da tutti pazzo chi per guadagnare al presente un giulio, si mettesse a rischio di perdere tutt'i suoi beni? E chi per una breve soddisfazione perde l'anima, o si mette a rischio di perderla per sempre, non avrà da stimarsi pazzo? Questa è la ruina di tante anime, che si dannano, il badare solamente a' beni e mali presenti, e non badare a' beni e mali eterni.

Dio non ci ha posti certamente in questa terra per farci ricchi, acquistarci onori, o per contentare i nostri sensi, ma per guadagnarci la vita eterna. "Finem vero vitam aeternam" (Rom 6,22). E 'l conseguir questo fine, solamente a noi dee importare. "Porro unum est necessarium" (Luc 10,42). Ma questo fine è quel che più disprezzano i peccatori; pensano solo al presente, camminano alla morte, s'accostano ad entrare nell'eternità, e non sanno dove vanno. Che diresti d'un nocchiero, dice S. Agostino, che dimandato dove va, rispondesse che non lo sa? ognun direbbe che costui porta la nave a perdersi: "Fac hominem perdidisse quo tendit, et dicatur ei: Quo is et dicat, nescio. Nonne iste navem ad naufragium perducet? Talis est (poi conclude il santo) qui currit praeter viam". Tali sono quei savi del mondo che san far guadagni, prendersi gli spassi, conseguire i posti, ma non sanno salvarsi l'anima. Fu savio l'epulone in farsi ricco, ma "mortuus est, et sepultus in inferno". Fu savio Alessandro Magno in acquistar tanti regni, ma tra pochi anni morì e si dannò in eterno. Fu savio Arrigo VIII, in sapersi mantenere nel trono con ribellarsi dalla Chiesa, ma all'ultimo egli stesso vedendo che già perdea l'anima, confessò: "Perdidimus omnia". Quanti miserabili ora piangono, e gridano nell'inferno: "Quid profuit nobis superbia, aut divitiarum iactantia? transierunt omnia illa tanquam umbra" (Sap 5,9). Ecco, dicono, che per noi tutti i beni del mondo son passati come un'ombra, ed altro non ci è restato che un pianto ed una pena eterna.

"Ante hominem vita, et mors, quod placuerit ei, dabitur illi" (Eccli 15,18). Cristiano mio, in questa vita ti è posta avanti la vita e la morte, cioè il privarti de' gusti vietati con guadagnarti la vita eterna, o il prenderli colla morte eterna. Che dici? che scegli? Scegli da uomo, e non da bestia. Scegli da cristiano, che ha fede e dice: "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur?".

PUNTO III

Intendiamo che i veri savi sono coloro, che sanno acquistarsi la divina grazia e 'l paradiso. Preghiamo dunque sempre il Signore che ci doni la scienza de' santi, ch'Egli dà a chi gliela cerca. "Dedit illis scientiam sanctorum" (Sap 6,10). Oh che bella scienza è il sapere amare Dio e 'l salvarsi l'anima, che consiste nel sapere prender la via della salute eterna ed i mezzi per conseguirla. Il trattato di salvarsi l'anima è il trattato fra tutti il più necessario. Se sapremo tutto, e non sapremo salvarci, niente ci servirà, e saremo per sempre infelici; ma all'incontro saremo sempre beati, se sapremo amare Dio, ancorché fossimo ignoranti di tutte l'altre cose. "Beatus qui te novit, etsi alia nescit", dicea S. Agostino. Un giorno Fra Egidio disse a S. Bonaventura: Beato Voi, P. Bonaventura, che sapete tante cose, ed io povero ignorante non so niente; voi potete farvi più santo di me. Senti, gli rispose allora il santo, se una vecchiarella ignorante sa amar Dio più di me, ella sarà più santa di me. Dal che Fra Egidio si pose poi a gridare: O vecchiarella, vecchiarella, senti, senti; se tu ami Dio, puoi farti più santa del P. Bonaventura.

"Surgunt indocti, et rapiunt coelum", dicea S. Agostino. Quanti rozzi che non san leggere, ma sanno amare Dio, si salvano; e quanti dotti del mondo si dannano! ma quelli, non questi sono i veri savi. Oh che gran savi sono stati un S. Pasquale, un S. Felice Cappuccino, un S. Giovanni di Dio, benché ignoranti delle scienze umane! Che gran savi sono stati tanti, che lasciando il mondo sono andati a chiudersi ne' chiostri e a vivere ne' deserti, come un S. Benedetto, un S. Francesco d'Assisi, un S. Luigi di Tolosa, che rinunciò al regno. Che gran savi tanti martiri, tante verginelle, che rinunciarono alle nozze de' grandi per andare a morire per Gesù Cristo! E questa verità la conoscono anche i mondani, e non lasciano di dire di taluno che si è dato a Dio: Beato lui che l'intende, e si salva l'anima. In somma quei che lasciano i beni del mondo per darsi a Dio, si chiamano uomini disingannati. Dunque quei che lasciano Dio per li beni del mondo, come debbono chiamarsi? Uomini ingannati.

Fratello mio, di qual compagnia di costoro volete esser voi? Per bene eleggere vi consiglia S. Gio. Grisostomo a visitare i cimiteri. "Proficiscamur ad sepulchra". Belle scuole sono le sepolture per conoscere la vanità de' beni di questo mondo e per apprendere la scienza de' santi. Dimmi (dice il Grisostomo), sai discernere ivi chi sia stato principe, chi nobile e chi letterato? Io per me, dice il santo: "Nihil video, nisi putredinem, ossa et vermes. Omnia fabula, somnium, umbra". Tutte le cose di questo mondo tra breve finiranno e svaniranno come una commedia, un sogno, un'ombra. Ma, cristiano mio, se vuoi diventar savio, non basta conoscere l'importanza del tuo fine, bisogna prendere i mezzi per conseguirlo. Tutti vorrebbero salvarsi e farsi santi; ma perché poi non pigliano i mezzi, non si fanno santi e si dannano. Bisogna fuggir le occasioni, frequentare i sagramenti, fare orazione, e prima di tutto bisogna stabilire nel nostro cuore le massime del Vangelo: "Quid prodest homini, si mundum universum lucretur? Qui amat animam suam, perdet eam" (Io 12,25). Il che viene a dire, bisogna perdere anche la vita per salvare l'anima. "Qui vult venire post me, abneget semetipsum" (Matth 16,24). Per seguire Gesù Cristo, bisogna negare all'amor proprio le soddisfazioni che cerca: "Vita in voluntate eius" (Ps 39,6). La nostra salute sta nel fare la divina volontà; queste ed altre simili massime.

VITA INFELICE DEL PECCATORE E VITA FELICE DI CHI AMA DIO

Non est pax impiis, dicit Dominus (Is 48,22)
Pax multa diligentibus legem tuam (Ps 118,165)

PUNTO I

Tutti gli uomini in questa vita faticano per trovare la pace. Fatica quel mercante, quel soldato, quel litigante, perché pensa con quel guadagno, con quel posto, o col vincer quella lite di far la sua fortuna e così trovare la pace. Ma poveri mondani, che cercano la pace nel mondo, il quale non può darla! Dio solo può dare a noi la pace: "Da servis tuis (prega la santa Chiesa) illam, quam mundus dare non potest, pacem". No, non può il mondo con tutt'i suoi beni contentare il cuore dell'uomo, perché l'uomo non è creato per questi beni, ma solo per Dio; ond'è che solo Dio può contentarlo. Le bestie che son create per li diletti de' sensi, queste trovano la pace ne' beni della terra; date ad un giumento un fascio d'erba, date ad un cane un pezzo di carne, eccoli contenti, niente più desiderano. Ma l'anima, ch'è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutt'i piaceri sensuali non potrà mai trovar la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta.

Quel ricco, che narra S. Luca (Luc 12,19), avendo fatta una buona raccolta da' suoi campi, diceva a se stesso: "Anima, habes multa bona posita in annos plurimos, requiesce, comede, bibe". Ma questo infelice ricco fu chiamato pazzo, "Stulte", e con ragione, dice S. Basilio: "Nunquid animam porcinam habes?". Misero (gli dice il santo), e che forse hai l'anima di qualche porco, di qualche bestia, che pretendi contentar l'anima tua col mangiare, col bere, co' diletti del senso? "Requiesce, comede, bibe?". L'uomo da' beni del mondo può esser riempiuto, ma non già saziato: "Inflari potest, satiari non potest", dice S. Bernardo. E scrive il medesimo santo sul Vangelo: "Ecce nos reliquimus omnia", di aver veduti diversi pazzi con diverse pazzie. Dice che tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari: altri d'aria, figura di quei che ambiscono onori: altri d'intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolazzavano, figura dell'iracondi; altri finalmente d'intorno ad un fetido lago beveano quell'acque fracide, figura de' disonesti. Quindi ad essi rivolto il santo dice loro: O pazzi, non vedete che queste cose più presto accrescono, che tolgono la vostra fame? "Haec potius famem provocant, quam exstinguunt". I beni del mondo son beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell'uomo. "Comedistis, et non estis satiati" (Aggaeus 1,6). E perciò l'avaro quanto più acquista, tanto più cerca d'acquistare. S. Agostino: "Maior pecunia avaritiae fauces non claudit, sed extendit". Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai lo sterco e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all'ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché l'ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno, dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Se i beni di questa terra contentassero l'uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici, ma la sperienza fa vedere l'opposto. Lo dice Salomone, il quale asserisce di non aver negato niente a' suoi sensi: "Et omnia, quae desideraverunt oculi mei, non negavi eis" (Eccl 2,10). Ma con tutto ciò che dice? "Vanitas vanitatum, et omnia vanitas" (Eccl 1,2). E vuol dire: Tutto ciò ch'è nel mondo, è mera vanità, mera bugia, mera pazzia.

PUNTO II

Ma non solo dice Salomone che i beni di questo mondo sono vanità, che non contentano, ma sono pene che affliggono lo spirito: "Et ecce universa vanitas, et afflictio spiritus" (Eccl 1,14). Poveri peccatori! pretendono di farsi felici co' loro peccati, ma non trovano che amarezza e rimorso: "Contritio, et infelicitas in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt" (Ps 13,3). Che pace! che pace! No, dice Dio: "Non est pax impiis, dicit Dominus" (Is 48,22). Primieramente il peccato porta con sé il terrore della divina vendetta. Se alcuno tiene un nemico potente, non mangia, né dorme mai quieto; e chi ha per nemico Dio, può stare in pace? "Pavor his qui operantur malum" (Prov 10,29). Chi sta in peccato, se sente tremar la terra, se sente tuonare, oh come trema! Ogni fronda che si muove, lo spaventa. "Sonitus terroris semper in aure eius" (Iob 15,21). Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. "Fugit impius, nemine persequente" (Prov 28,1). E chi lo perseguita? il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele dicea: "Omnis igitur, qui invenerit me, occidet me" (Gen 4,14). E con tutto che il Signore l'assicurò che niuno l'avrebbe offeso: "Dixitque ei Dominus: Nequaquam ita fiet"; pure dice la Scrittura che Caino "habitavit profugus in terra" (Ibid.): andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era il persecutore di Caino, se non il suo peccato?

In oltre il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch'è quel verme tiranno che sempre rode. Va il misero peccatore alla commedia, al festino, al banchetto: ma tu (gli dice la coscienza) stai in disgrazia di Dio; se muori, dove vai? Il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene, son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, come si sa, che per disperazione da se stesso si appiccò. Si narra d'un altro, che avendo ucciso un fanciullo, per isfuggir la pena del rimorso andò a farsi religioso; ma neppure nella religione trovando pace, andò a confessare il suo delitto al giudice, e si fe' condannare a morte.

Che cosa è un'anima che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo ch'è un mare in tempesta: "Impii autem quasi mare fervens, quod quiescere non potest" (Isa 57,20). Dimando, se taluno fosse portato ad un festino di musica, di balli e rinfreschi, e stesse ivi appeso co' piedi, colla testa in giù, potrebbe godere di questo spasso? Tàl'è quell'uomo che sta coll'anima sotto sopra, stando in mezzo a i beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, ballerà: porterà sì bene quella ricca veste, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, quella possessione, ma non avrà mai pace. "Non est pax impiis". La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già a' nemici suoi.

I beni di questa terra, dice S. Vincenzo Ferreri, vanno da fuori non entrano già nel cuore: "Sunt aquae, quae non intrant illuc, ubi est sitis". Porterà quel peccatore una bella veste ricamata, terrà un bel diamante al dito, si ciberà a suo genio; ma il suo povero cuore resterà pieno di spine e di fiele, perciò lo vedrai che con tutte le sue ricchezze, delizie e spassi, sta sempre inquieto, e ad ogni cosa contraria s'infuria, e si stizza, diventando come un cane arrabbiato. Chi ama Dio, nelle cose avverse si rassegna alla divina volontà, e trova pace; ma ciò non può farlo chi vive nemico alla volontà di Dio, e perciò non ha via di quietarsi. Serve il misero al demonio, serve ad un tiranno, che lo paga d'affanni e d'amarezze. E non possono venir meno le parole di Dio che dice: "Eo quod non servieris Deo tuo in gaudio, servies inimico tuo in fame, et siti, et nuditate, et omni penuria" (Deut 28,48). Che non patisce quel vendicativo, dopo che si è vendicato! quel disonesto dopo ch'è giunto al suo intento! quell'ambizioso! quell'avaro! Oh quanti, se patissero per Dio quel che patiscono per dannarsi, diventerebbero gran santi!

PUNTO III

Dunque tutt'i beni e diletti del mondo non possono contentare il cuore dell'uomo, e chi può contentarlo? Solo Dio. "Delectare in Domino et dabit tibi petitiones cordis tui" (Ps 36,4). Il cuore dell'uomo va sempre cercando quel bene che lo contenti. Ottiene le ricchezze, i piaceri, gli onori, e non è contento; perché questi son beni finiti, ed egli è creato per un bene infinito; trovi egli Dio, s'unisca con Dio; ed eccolo già contento, niente più desidera. "Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui." S. Agostino in tutta la sua vita menata fra' diletti del senso, non trovò mai pace. Quando poi si diede a Dio, allora confessava e diceva al Signore: "Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te". Dio mio, dicea, ora conosco che ogni cosa è vanità e pena, e Voi solo siete la vera pace dell'anima. "Dura sunt omnia, et tu solus requies". Ond'egli fatto poi maestro a sue spese, scrisse: "Quid quaeris homuncio, quaerendo bona? quaere unum bonum, in quo sunt omnia bona". Davide essendo re, mentre stava in peccato, andava alle cacce, ai giardini, alle mense, ed a tutte l'altre delizie regali, ma gli diceano le mense, i giardini e tutte l'altre creature di cui godea: Davide, tu da noi vuoi essere contentato? No, non possiamo noi contentarti: "Ubi est Deus tuus?" va, trova lo Dio tuo, ch'egli solo può contentarti; e perciò Davide in mezzo a tutte le sue delizie non faceva altro che piangere: "Lacrimae meae fuerunt panes die ac nocte, dum dicitur mihi quotidie, ubi est Deus tuus?" (Ps 41,4).

Oh come all'incontro sa contentare Dio l'anime fedeli, che l'amano! S. Francesco d'Assisi, avendo lasciato tutto per Dio, benché si trovasse scalzo, con uno straccio sopra, morto di freddo e di fame, dicendo: "Deus meus et omnia", provava un paradiso. S. Francesco Borgia dopo che fu religioso, e gli toccava ne' viaggi a dormir sulla paglia, era tanta la consolazione, che per quella non potea prender sonno. S. Filippo Neri similmente, avendo lasciato tutto, quando andava a riposo, Iddio così lo consolava, ch'egli giungeva a dire: Ma, Gesù Cristo mio, lasciatemi dormire. Il P. Carlo di Lorena Gesuita, de' principi di Lorena, ritrovandosi nella sua povera cella, talvolta per la contentezza si metteva a danzare. S. Francesco Saverio nelle campagne dell'Indie si slacciava il petto, dicendo: "Sat est, Domine", basta Signore, non più consolazione, che 'l mio cuore non è capace di sostenerla. Dicea S. Teresa che dà più contento una goccia di consolazione celeste, che tutt'i piaceri e spassi del mondo. Eh che non possono mancare le promesse di Dio, di dare a chi lascia i beni del mondo per suo amore, anche in questa vita il centuplo di pace e di contento. "Qui reliquerit domum, vel fratres, etc. propter nomen meum, centuplum accipiet, et vitam aeternam possidebit" (Matth 19,29).

Che andiamo dunque cercando? andiamo a Gesù Cristo che ci chiama e ci dice: "Venite ad me omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego reficiam vos" (Matth 11,28). Eh che un'anima che ama Dio, trova quella pace che avanza tutti i piaceri e soddisfazioni, che può dare il senso ed il mondo. "Pax Dei quae exsuperat omnem sensum" (Philip 4,7). È vero che in questa vita anche i santi patiscono, perché questa terra è luogo di meriti, e non si può meritare senza patire; ma dice S. Bonaventura che l'amore divino è simile al mele, che rende dolci, ed amabili le cose più amare. Chi ama Dio, ama la di Lui volontà, e perciò gode nello spirito anche nelle amarezze; poiché abbracciandole sa che lo compiace, e gli dà gusto. Oh Dio, i peccatori voglion disprezzare la vita spirituale, ma senza provarla! "Vident crucem, sed non vident unctionem", dice S. Bernardo; guardano solamente le mortificazioni che soffrono gli amanti di Dio, e i piaceri di cui si privano; ma non vedono le delizie spirituali, con cui l'accarezza il Signore. Oh se i peccatori assaggiassero la pace che gode un'anima che non vuole altro che Dio! "Gustate, et videte" (dice Davide), "quam suavis est Dominus" (Ps 33). Fratello mio, comincia a far la meditazione ogni giorno, a comunicarti spesso, a trattenerti avanti il SS. Sagramento, comincia a lasciare il mondo e a fartela con Dio, e vedrai che il Signore ti consolerà più Egli in quel poco di tempo, in cui con esso ti tratterrai, che non ti ha consolato il mondo con tutti i suoi divertimenti. "Gustate, et videte". Chi non lo gusta, non può intendere, come sa contentare Dio un'anima che l'ama.

IL MAL'ABITO

Impius cum in profundum venerit, contemnit (Prov 18,3)

PUNTO I

Uno de' maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l'Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch'egli abborriva: "Video aliam legem in membris meis... captivantem me in lege peccati" (Rom 7,23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d'un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare? Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d'un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual'è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal'abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.

Per prima il mal'abito "accieca". E perché mai i santi sempre cercano lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? "Excaecavit eos malitia eorum" (Sap 2,21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l'accecazione. Dio è la nostra luce; quanto più dunque l'anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. "Ossa eius implebuntur vitiis" (Iob 20,11). Siccome in un vaso, ch'è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina. E perciò si vede poi che certi peccatori rilasciati perdono il lume, e vanno di peccato in peccato, e neppure pensano più ad emendarsi. "In circuitu impii ambulant" (Psal 11,9). Caduti i miseri in quella fossa oscura, non sanno far altro che peccati, non parlano che di peccati, non pensano se non a peccare, e quasi non conoscono più che sia male il peccato. "Ipsa consuetudo mali (dice S. Agostino) non sinit peccatores videre malum, quod faciunt". Sicché vivono come non credessero più esservi Dio, paradiso, inferno, eternità.

Ed ecco, che quel peccato che prima faceva orrore, col mal'abito non fa più orrore. "Pone illos, ut rotam et sicut stipulam ante faciem venti" (Psal 82,14). Vedete, dice S. Gregorio, con che facilità una pagliuccia è mossa da ogni vento anche leggiero; così vedrete ancora taluno che prima (avanti che cadesse) resisteva almeno per qualche tempo, e combatteva colla tentazione; fatto poi il mal'abito, subito cade ad ogni tentazione, ad ogni occasione che gli vien di peccare. E perché? perché il mal'abito gli ha tolta la luce. Dice S. Anselmo che 'l demonio fa con certi peccatori, come fa taluno che tiene qualche uccello ligato col filo, lo lascia volare, ma quando vuole torna a farlo cadere a terra; tali sono (come dice il santo) i mal abituati: "Pravo usu irretiti ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur". Taluni, aggiunge S. Bernardino da Siena, seguiranno a peccare anche senz'occasione. Dice il santo che i mal abituati si fan simili a' molini a vento, i quali "rotantur omni vento", girano ad ogni aura di vento; e di più voltano, ancorché non vi stesse grano da macinare, e benché il padrone non volesse che voltino. Vedrai un abituato che senz'occasione va facendo mali pensieri, senza gusto, e quasi non volendo, tirato a forza dal mal'abito. S. Gio. Grisostomo: "Dura res est consuetudo, quae nonnunquam nolentes committere cogit illicita". Sì, perché (come dice S. Agostino) il mal'abito diventa poi una certa necessità: "Dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas". E come aggiunge S. Bernardino, "usus vertitur in naturam"; ond'è che siccome all'uomo è necessario il respirare, così a' mal abituati, fatti schiavi del peccato, par che si renda necessario il peccare. Ho detto "schiavi"; vi sono i servi, che servono a forza colla paga; gli schiavi poi servono a forza senza paga; a questo giungono alcuni miserabili, giungono a peccare senza gusto.

"Impius, cum in profundum venerit, contemnit" (Prov 18,3). Ciò lo spiega il Grisostomo appunto del mal abituato, il quale posto in quella fossa di tenebre, disprezza correzioni, prediche, censure, inferno, Dio, disprezza tutto, diventa il misero quale avoltoio, che per non lasciare il cadavere, su di quello più presto si contenta di farsi uccidere da' cacciatori. Narra il P. Recupito che un condannato a morte mentre andava alla forca, alzò gli occhi, vide una giovane, ed acconsentì ad un mal pensiero. Narra ancora il P. Gisolfo che un bestemmiatore, anche condannato a morte, mentre fu buttato dalla scala proruppe in una bestemmia. Giunge a dire S. Bernardo che per li mal'abituati non serve più a pregare, ma bisogna piangerli per dannati. Ma come vogliono uscire dal loro precipizio, se non ci vedono più? ci vuole un miracolo della grazia. Apriranno gli occhi i miserabili nell'inferno, quando non servirà più l'aprirli, se non per piangere più amaramente la loro pazzia.

PUNTO II

In oltre il mal'abito indurisce. "Cor durum efficit consuetudo peccandi", Cornelio a Lapide. E Dio giustamente il permette in pena delle resistenze fatte alle sue chiamate. Dice l'Apostolo che 'l Signore "cuius vult miseretur, et quem vult indurat" (Rom 9,18). Spiega S. Agostino: "Obduratio Dei est nolle misereri". Non è già che Iddio indurisce il mal abituato, ma gli sottrae la grazia, in pena dell'ingratitudine usata alle sue grazie; e così il di lui cuore resta duro e fatto come di pietra. "Cor eius indurabitur tanquam lapis, et stringetur quasi malleatoris incus" (Iob 41,15). Quindi avverrà che dove gli altri s'inteneriscono e piangono in sentir predicar il rigore del divino giudizio, le pene de' dannati, la passione di Gesù Cristo, il mal abituato niente ne resterà commosso; ne parlerà e sentirà parlare con indifferenza, come fossero cose che a lui non appartenessero; e a tali colpi egli diventerà più duro. "Et stringetur quasi malleatoris incus".

Anche le morti improvvise, i tremuoti, i tuoni, i fulmini più non lo spaventeranno: prima che svegliarlo e farlo ravvedere, più presto gli concilieranno quel sonno di morte, in cui dorme perduto. "Ab increpatione tua, Deus Iacob, dormitaverunt" (Ps 75,7). Il mal'abito a poco a poco fa perdere anche il rimorso della coscienza. Al mal abituato i peccati più enormi gli sembrano niente. S. Agostino: "Peccata quanvis horrenda, cum in consuetudinem veniunt, parva, aut nulla esse videntur". Il far male porta seco naturalmente un certo rossore, ma dice S. Girolamo che i mal abituati perdono anche il rossore peccando: "Qui ne pudorem quidem habent in delictis". S. Pietro paragona il mal abituato al porco, che si rivolta nel letame: "Sus lota in volutabro luti" (2 Petr 2,22). Siccome il porco, rivoltandosi nel loto, non ne sente egli il fetore; così accade al mal abituato: quel fetore che si fa sentire da tutti gli altri, egli solo non lo sente. E posto che il loto gli ha tolta anche la vista, che meraviglia, è, dice S. Bernardino, che non si ravveda, neppure mentre Dio lo flagella? "Populus immergit se in peccatis, sicut sus in volutabro luti; quid mirum si Dei flagellantis futura iudicia non cognoscit?". Onde avviene che in vece di rattristarsi de' suoi peccati, se ne rallegra, se ne ride e se ne vanta. "Laetantur, cum malefecerint" (Prov 2,14). "Quasi per risum stultus operatur scelus" (Prov 10,23). Che segni sono questi di tal diabolica durezza? Dice S. Tommaso di Villanova, sono segni tutti di dannazione: "Induratio, damnationis indicium". Fratello mio, trema che non ti avvenga lo stesso. Se mai hai qualche mal'abito, procura d'uscirne presto, ora che Dio ti chiama. E mentre ti morde la coscienza, sta allegramente perché è segno che Dio non t'ha abbandonato ancora. Ma emendati, ed esci presto; perché se no, la piaga si farà cancrena, e sarai perduto.

PUNTO III

Perduta che sarà la luce, e indurito che sarà il cuore, moralmente ne nascerà che 'l peccatore faccia mal fine, e muoia ostinato nel suo peccato. "Cor durum habebit male in novissimo" (Eccli 3,27). I giusti sieguono a camminare per la via dritta. "Rectus callis iusti ad ambulandum" (Is 26,7). All'incontro i mal abituati van sempre in giro. "In circuitu impii ambulant" (Ps 11,9). Lasciano il peccato per un poco, e poi vi tornano. A costoro S. Bernardo annunzia la dannazione: "Vae homini qui sequitur hunc circuitum". Ma dirà quel tale: Io voglio emendarmi prima della morte. Ma qui sta la diffìcoltà, che un mal abituato si emendi, ancorché giunga alla vecchiaia; dice lo Spirito Santo: "Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit, non recedet ab ea" (Prov 22,6). La ragione si è, come ci dice S. Tommaso da Villanova, perché la nostra forza è molto debole. "Et erit fortitudo nostra ut favilla stupae" (Is 1,31). Dal che ne nasce, secondo dice il santo che l'anima priva della grazia non può stare senza nuovi peccati: "Quo fit, ut anima a gratia destituta diu evadere ulteriora peccata non possit". Ma oltre ciò, che pazzia sarebbe di taluno, se volesse giuocare e perdere volontariamente tutto il suo, sperando di rifarsi all'ultima partita? Questa è la pazzia di chi siegue a vivere tra' peccati, e spera poi nell'ultimo giorno della vita di rimediare al tutto. Può l'Etiope, o il pardo mutare il color della sua pelle? e come potrà far buona vita, chi ha fatto un lungo abito al male? "Si mutare potest Aethiops pellem suam, aut pardus varietates suas, et vos poteritis benefacere, cum didiceritis malum" (Ier 13,23). Quindi avviene che il male abituato in fine si abbandona alla disperazione, e così finisce la vita. "Qui vero mentis est durae, corruet in malum" (Prov 28,14).

S. Gregorio su quel passo di Giobbe: "Concidit me vulnere super vulnus, irruit in me quasi gigas" (Iob 16,15): dice il santo così: Se taluno è assalito dal nemico, alla prima ferita che riceve resta forse anche abile a difendersi; ma quante più ferite riceve, tanto più perde le forze, sino che finalmente resta ucciso. Così fa il peccato; alla prima, alla seconda volta resta qualche forza al peccatore (s'intende sempre per mezzo della grazia che gli assiste), ma se poi egli seguita a peccare, il peccato si fa gigante, "irruit quasi gigas". All'incontro il peccatore, trovandosi più debole e con tante ferite, come potrà evitare la morte? Il peccato, al dire di Geremia, è come una gran pietra, che opprime l'anima: "Et posuerunt lapidem super me" (Thren 3,53). Or dice S. Bernardo esser sì difficile il risorgere ad un mal abituato, quando è difficile ad uno che sia caduto sotto un gran sasso, e che non ha forza di rimuoverlo per liberarsene: "Difficile surgit, quem moles malae consuetudinis premit".

Dunque, dirà quel mal abituato, io son disperato? No, non sei disperato, se vuoi rimediare. Ma ben dice un autore che ne' mali gravissimi vi bisognano gravissimi rimedi: "Praestat in magnis morbis a magnis auxiliis initium medendi sumere". Se ad un infermo che sta in pericolo di morte e non vuol prender rimedi, perché non sa la gravezza del suo male, gli dicesse il medico: Amico, sei morto, se non prendi la tal medicina. Che risponderebbe l'infermo? Eccomi, direbbe, pronto a prender tutto; si tratta di vita. Cristiano mio, lo stesso dico a te, se sei abituato in qualche peccato: stai male, e sei di quell'infermi, che "raro sanantur" (come dice S. Tommaso da Villanova); stai vicino a dannarti. Se non però vuoi guarirti, vi è il rimedio; ma non hai d'aspettare un miracolo della grazia; hai da farti forza dal canto tuo a toglier le occasioni, a fuggire i mali compagni, a resistere con raccomandarti a Dio, quando sei tentato; hai da prendere i mezzi, con confessarti spesso, leggere ogni giorno un libretto spirituale, prendere la divozione a Maria SS., pregandola continuamente che t'impetri forza di non ricadere. Hai da farti forza, altrimenti ti coglierà la minaccia del Signore contro gli ostinati: "In peccato vestro moriemini" (Io 8,21). E se non rimedi, or che Dio ti dà questa luce, difficilmente potrai rimediare appresso. Senti Dio che ti chiama: "Lazare, exi foras". Povero peccatore già morto, esci da questa oscura fossa della tua mala vita. Presto rispondi; e datti a Dio; e trema che questa non sia l'ultima chiamata per te.

INGANNI CHE IL DEMONIO METTE IN MENTE AI PECCATORI

Benché molti sentimenti di quelli, che si pongono in questa considerazione, sieno accennati nelle altre antecedenti, nondimeno giova qui metterli unitamente, per vincere gl'inganni usuali, con cui suole il demonio indurre i peccatori a ricadere.

PUNTO I

Figuriamo che un giovine, caduto in peccati gravi, se ne sia già confessato, ed abbia già ricuperata la divina grazia. Il demonio di nuovo lo tenta a ricadere: il giovine resiste ancora: ma già vacilla per gl'inganni, che gli suggerisce il nemico. Giovine, dico io, dimmi che vuoi fare? vuoi perdere ora la grazia di Dio, che già hai acquistata e che vale più di tutto il mondo, per questa tua misera soddisfazione? vuoi tu stesso scriverti la sentenza di morte eterna, e condannarti ad ardere per sempre nell'inferno? "No", tu mi dici, "non voglio dannarmi, voglio salvarmi; se farò questo peccato, appresso me lo confesserò". Ecco il primo inganno del tentatore. Dunque mi dici che appresso te lo confesserai; ma frattanto già perdi l'anima. Dimmi se avessi in mano una gioia, che valesse mille ducati, la butteresti tu in un fiume con dire: appresso farò diligenza e spero di ritrovarla? Tu hai in mano questa bella gioia dell'anima tua che Gesù Cristo l'ha comprata col suo sangue, e tu la butti volontariamente nell'inferno (poiché peccando secondo la presente giustizia già resti dannato) e dici: Ma spero di ricuperarla colla confessione? Ma se poi non la ricuperi? Per ricuperarla vi bisogna un vero pentimento, il quale è dono di Dio; se Dio questo pentimento non te lo dà? E se viene la morte, e ti leva il tempo di confessarti?

Dici che non farai passare una settimana, e te lo confesserai. E chi ti promette questa settimana di tempo? Dici che te lo confesserai domani, e chi ti promette questo domani? Scrive S. Agostino: "Crastinum Deus non promisit, fortasse dabit, et fortasse non dabit". Questo giorno di domani non te l'ha promesso Dio; forse te lo darà e forse te lo negherà, come l'ha negato a tanti, i quali si son posti vivi a letto la sera, e la mattina si son trovati morti di subito. Quanti nello stesso atto del peccato il Signore l'ha fatti morire, e l'ha mandati all'inferno? E se fa lo stesso con te, come potrai più rimediare alla tua ruina eterna? Sappi che con quest'inganno di dire, "poi me lo confesso", il demonio ne ha portati migliaia e migliaia di cristiani all'inferno, poiché difficilmente si trova un peccatore, sì disperato, che voglia proprio dannarsi; tutti allorché peccano, peccano colla speranza di confessarsi, ma così poi tanti miserabili si son dannati, ed ora non possono più rimediarvi.

Ma tu dici: "Ora non mi fido di resistere a questa tentazione". Ecco il secondo inganno del demonio, il quale ti fa apparire che tu non hai forza di resistere alla passione presente. Primieramente bisogna che sappi che Dio (come dice l'Apostolo) è fedele, e non permette mai che noi siam tentati oltre le nostre forze: "Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis" (1 Cor 10,13). Di più io ti dimando: Se ora non ti fidi di resistere, come ti fiderai appresso? Appresso il nemico non lascerà di tentarti ad altri peccati, ed allora egli sarà fatto assai più forte contra di te, e tu più debole. Se dunque non ti fidi ora di spegner questa fiamma, come ti fiderai di spegnerla, dopo ch'ella sarà fatta più grande? Dici: Dio mi darà l'aiuto suo. Ma Dio questo aiuto già presentemente te lo dà; perché tu con questo aiuto non vuoi resistere? Speri forse che Dio abbia da accrescerti gli aiuti e le grazie, dopo che tu hai accresciuti i peccati? E se vuoi al presente maggior aiuto e forza, perché non lo domandi a Dio? Dubiti forse della fedeltà di Dio, che ha promesso di dare tutto ciò che gli si cerca? "Petite et dabitur vobis" (Matth 7,7). Iddio non può mancare, ricorri a Lui, ed egli ti darà quella forza che ti bisogna per resistere. "Deus impossibilia non iubet", parla il concilio di Trento, "sed iubendo monet et facere quod possis, et petere quod non possis, et adiuvat ut possis". Dio non comanda cose impossibili, ma dando i precetti, ci ammonisce a fare quel che possiamo coll'aiuto attuale che ci dà; quando quell'aiuto non ci bastasse a resistere, ci esorta a cercare maggior aiuto, e chiedendolo allora ben Egli ce lo darà.

PUNTO II

Dice: "Dio è di misericordia". Ecco il terzo inganno comune de' peccatori, per cui moltissimi si dannano. Scrive un dotto autore che ne manda più all'inferno la misericordia di Dio, che non ne manda la giustizia; perché questi miserabili, confidano temerariamente alla misericordia, non lasciano di peccare, e così si perdono. Iddio è di misericordia, chi lo nega; ma ciò non ostante, quanti ogni giorno Dio ne manda all'inferno! Egli è misericordioso, ma è ancora giusto, e perciò è obbligato a castigare chi l'offende. Egli usa misericordia, ma a chi? a chi lo teme. "Misericordia sua super timentes se... Misertus est Dominus timentibus se" (Ps 102,11.13). Ma con chi lo disprezza e si abusa della sua misericordia per più disprezzarlo, Egli usa giustizia. E con ragione; Dio perdona il peccato, ma non può perdonare la volontà di peccare. Dice S. Agostino che chi pecca col pensiero di pentirsene dopo d'aver peccato, egli non è penitente, ma è uno schernitore di Dio: "Irrisor est, non poenitens". Ma all'incontro ci fa sapere l'Apostolo che Dio non si fa burlare: "Nolite errare, Deus non irridetur" (Gal 6,7). Sarebbe un burlare Dio offenderlo come piace, e quanto piace, e poi pretendere il paradiso.

"Ma siccome Dio m'ha usate tante misericordie per lo passato, e non m'ha castigato, così spero che mi userà misericordia per l'avvenire". Ecco il quarto inganno. Dunque perché Dio ha avuta compassione di te, per questo ti ha da usare sempre misericordia, e non ti ha da castigare mai? Anzi no, quanto più sono state le misericordie, che Egli t'ha usate, tanto più devi tremare, che non ti perdoni più e ti castighi, se di nuovo l'offendi. "Ne dicas: Peccavi, et quid accidit mihi triste? Altissimus enim est patiens redditor" (Eccli 5,4). Non dire (avverte l'Ecclesiastico), ho peccato e non ho avuto alcun castigo; perché Dio sopporta; ma non sopporta sempre. Quando giunge il termine da Lui stabilito delle misericordie, che vuol usare ad un peccatore, allora gli dà il castigo tutto insieme de' suoi peccati. E quanto più l'ha aspettato a penitenza, tanto più lo punisce, come dice S. Gregorio: "Quos diutius exspectat, durius damnat".

Se dunque tu vedi, fratello mio, che molte volte hai offeso Dio, e Dio non t'ha mandato all'inferno, dei dire: "Misericordiae Domini, quia non sumus consumti" (Thren 3,22). Signore, ti ringrazio, che non m'hai mandato all'inferno, com'io meritava. Pensa, quanti per meno peccati de' tuoi si son dannati. E con questo pensiero cerca di compensare l'offese, che hai fatte a Dio, colla penitenza e con altre opere buone. Questa pazienza, che Dio ha avuta con te, dee animarti, non già a più disgustarlo, ma a più servirlo ed amarlo, vedendo ch'egli ha fatte a te tante misericordie, che non ha fatte agli altri.

PUNTO III

"Ma io son giovine; Dio compatisce la gioventù; appresso mi darò a Dio". Siamo al quinto inganno. Sei giovine? ma non sai che Dio non conta gli anni: ma conta i peccati di ciascuno? Sei giovine? ma quanti peccati hai fatti? Vi saranno molti vecchi, che non saranno giunti a far neppure la decima parte de' peccati da te commessi. E non sai che 'l Signore ha stabilito il numero e la misura de' peccati, che a ciascun vuol perdonare? "Dominus patienter exspectat", dice la Scrittura, "ut eas, cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat" (2 Machab 6,14). Viene a dire che Dio ha pazienza ed aspetta sino a certo segno, ma quando è già piena la misura de' peccati, ch'egli ha determinata di perdonare, non più perdona, e castiga il peccatore, o con mandargli subito la morte nello stato in cui si trova di dannazione, o pure l'abbandona nel suo peccato, il quale castigo è peggior della morte. "Auferam sepem eius, et erit in direptionem" (Isa 5,5). Se voi avete un territorio e l'avete circondato di siepe, l'avete coltivato per più anni, e vi avete fatte molte spese, e vedete che 'l territorio con tutto ciò non vi rende alcun frutto; voi che fate? ne togliete la siepe, e lo lasciate in abbandono. Così tremate, che Dio non faccia con voi. Se voi seguirete a peccare, anderete perdendo il rimorso della coscienza, non penserete più né all'eternità, né all'anima vostra, perderete quasi ogni luce, perderete il timore: ecco tolta la siepe, ed ecco già arrivato l'abbandono di Dio.

Veniamo all'ultimo inganno. Voi dite: "È vero che con questo peccato io perdo la grazia di Dio, e resto condannato all'inferno, e può già essere che per questo peccato mi danno; ma può essere ancora ch'io appresso mi confessi e mi salvi". Sì signore, io te lo concedo che può essere che ancora ti salvi, perché finalmente io non son profeta, perciò non posso dire per certo che dopo questo peccato Dio non ti userà più misericordia. Ma non mi puoi negare che dopo tante grazie che 'l Signore t'ha fatte, se ora lo torni ad offendere, è molto facile che resti perduto. Così parlano le Scritture: "Cor durum male habebit in novissimo" (Eccli 3,27). Il cuore ostinato in morte anderà male. "Qui malignantur, exterminabuntur" (Ps 36,9). I maligni finalmente saranno esterminati dalla divina giustizia. "Quae seminaverit homo, haec et metet" (Gal 6,8). Chi semina peccati, in fine non raccoglierà che pene e tormenti. "Vocavi, et renuistis... in interitu vestro ridebo, et subsannabo vos" (Prov 1,24). Vi ho chiamati, dice Dio, e voi vi siete burlati di me; nella vostra morte io mi burlerò di voi. "Mea est ultio, et ego retribuam in tempore" (Deut 32,35). A me spetta la vendetta de' peccati, ed io te la renderò, quando giungerà il tempo. Così dunque parlano le Scritture de' peccatori ostinati. Così cerca la giustizia e la ragione. Tu mi dici: "Ma può essere che con tutto questo pure mi salvi". Ed io ritorno a dire che sì signore, può essere: ma che pazzia, dico, è l'appoggiare la salute eterna dell'anima ad un "può essere", e ad un "può essere" poi così diffícile? È negozio questo da metterlo in sì gran pericolo?

IL GIUDIZIO PARTICOLARE

Omnes enim nos manifestari oportet ante tribunal Christi (2 Cor 5,10)

PUNTO I

Consideriamo la comparsa, l'accusa, l'esame e la sentenza. E parlando prima della comparsa dell'anima dinanzi al giudice, è comune sentenza de' Teologi che il giudizio particolare si fa nel punto stesso che l'uomo spira; e che nel luogo medesimo dove l'anima si separa dal corpo, ella è giudicata da Gesù Cristo, il quale non manderà, ma verrà Egli stesso a giudicar la di lei causa. "Qua hora non putatis, Filius hominis veniet" (Luc 12,40). "Veniet nobis in amore (dice S. Agostino), impiis in tremore". Oh quale spavento avrà chi vedrà la prima volta il Redentore, e lo vedrà sdegnato! "Ante faciem indignationis eius quis stabit?" (Naum 1,6). Ciò considerando il P. Luigi da Ponte, tremava in tal modo, che facea tremare anche la cella dove stava. il V. P. Giovenale Ancina, sentendo cantare la "Dies illa", al pensiero del terrore che avrà l'anima in dovere esser presentata al giudizio, risolse di lasciar il mondo, come in effetto lo lasciò. Il vedere lo sdegno del giudice sarà l'avviso della condanna: "Indignatio regis, nuntii mortis" (Prov 16,14). Dice S. Bernardo che allora l'anima patirà più in vedere Gesù sdegnato, che nello stare nel medesimo inferno: "Mallet esse in inferno".

Alle volte si son veduti i rei sudar freddo, in esser presentati avanti a qualche giudice di terra. Pisone comparendo in senato colla veste da reo, sentì tanta confusione che volontariamente si uccise. Che pena è ad un figlio, o ad un vassallo vedere il padre, o il principe gravemente sdegnato? Oh qual altra pena maggiore proverà quell'anima in vedere Gesù Cristo da lei in vita disprezzato! "Videbunt in quem transfixerunt" (Zach 12,10). Quell'agnello che in vita ha avuta tanta pazienza, l'anima poi lo vedrà irato, senza speranza più di placarlo; ciò la indurrà a pregare i monti a caderle sopra, e così nasconderla dal furore dell'agnello sdegnato. "Montes cadite super nos, abscondite nos ab ira Agni" (Apoc 6,16). Dice S. Luca parlando del giudizio: "Tunc videbunt Filium hominis" (Luc 21,27). Il vedere il giudice in forma d'uomo, oh qual pena apporterà al peccatore! perché dalla vista di tal uomo morto per la sua salute, si sentirà maggiormente rimproverare la sua ingratitudine. Quando il Salvatore ascese al cielo, dissero gli angeli a' discepoli: "Hic Iesus qui assumptus est a vobis in coelum, sic veniet, quemadmodum vidistis eum euntem in coelum" (Act 1,11). Verrà dunque il giudice a giudicare colle stesse piaghe, colle quali si partì dalla terra. "Grande gaudium intuentium! grandis timor exspectantium", dice Ruperto. Quelle piaghe consoleranno i giusti, ma spaventeranno i peccatori. Allorché Giuseppe disse a' fratelli: "Ego sum Ioseph, quem vendidistis", dice la Scrittura che quelli per lo terrore si tacquero, e perderono la parola: "Non poterant respondere fratres, nimio terrore perterriti" (Gen 45,3). Or che risponderà il peccatore a Gesù Cristo? Forse avrà animo di cercargli pietà; quando primieramente dovrà rendergli conto del disprezzo ch'ha fatto della pietà usatagli? "Qua fronte (Eusebio Emisseno) misericordiam petes, primum de misericordiae contemtu iudicandus?". Che farà dunque, dice S. Agostino; dove fuggirà, quando vedrà di sopra il giudice sdegnato, di sotto l'inferno aperto, da un lato i peccati che l'accusano, dall'altro i demoni accinti ad eseguir la pena, e di dentro la coscienza che rimorde? "Superius erit iudex iratus, inferius horrendum chaos, a dextris peccata accusantia, a sinistris daemonia ad supplicium trahentia, intus conscientia urens? quo fugiet peccator sic comprehensus?".

PUNTO II

Considera l'accusa e l'esame. "Iudicium sedit, et libri aperti sunt" (Dan 9). Due saranno questi libri, il Vangelo e la coscienza. Nel Vangelo si leggerà quel che il reo doveva fare, nella coscienza quel che ha fatto: "Videbit unusquisque quod fecit", S. Girolamo. Nella bilancia della divina giustizia non si peseranno allora le ricchezze, la dignità e la nobiltà delle persone, ma solamente l'opere. "Appensus es in statera (disse Daniele al re Baltassarre), et inventus es minus habens" (Dan 5,27). Commenta il P. Alvarez: "Non aurum, non opes in stateram veniunt, solus rex appensus est". Verranno allora gli accusatori, e per prima il demonio. "Praesto erit diabolus (dice S. Agostino) ante tribunal Christi, et recitabit verba professionis tuae. Obiiciet nobis in faciem omnia quae fecimus, in qua die, in qua hora peccavimus". "Recitabit verba professionis tuae", viene a dire che presenterà le stesse nostre promesse, alle quali poi abbiamo mancato; ed addurrà tutte le colpe, segnando il giorno e l'ora in cui l'abbiamo commesse. Indi dirà al giudice, come scrive S. Cipriano: "Ego pro istis nec alapas, nec flagella sustinui". Signore, io per questo reo non ho patito niente, ma esso ha lasciato Voi che siete morto per salvarlo, per farsi schiavo mio; ond'esso a me tocca. Accusatori saranno anche gli angeli custodi, come dice Origene: "Unusquisque Angelorum testimonium perhibet, quot annis circa eum laboraverit, sed ille monita sprevit". Sicché allora: "Omnes amici eius spreverunt eam" (Ier 51). Accusatrici saranno le mura, tra le quali quel reo avrà peccato! "Lapis de pariete clamabit" (Abac 2,11). Accusatrice sarà la stessa coscienza: "Testimonium reddente illis conscientia ipsorum in die, cum iudicabit Deus" (Rom 2). Gli stessi peccati allora, dice S. Bernardo, parleranno, "et dicent: Tu nos fecisti, opera tua sumus, non te deseremus". Accusatrici finalmente saranno, come dice il Grisostomo, le piaghe di Gesù Cristo: "Clavi de te conquerentur: cicatrices contra te loquentur: crux Christi contra te perorabit". Indi si verrà all'esame.

Dice il Signore: "Ego in die illa scrutabor Ierusalem in lucernis" (Soph 1,12). La lucerna, dice il Mendoza, penetra tutti gli angoli della casa: "Lucerna omnes angulos permeat". E Cornelio a Lapide, spiegando la parola "in lucernis", dice che allora Dio metterà avanti al reo gli esempi de' santi e tutt'i lumi ed ispirazioni che gli ha dato in vita; ed anche tutti gli anni che gli ha concessi a far bene. "Vocavit adversum me tempus" (Thren 1,15). Sicché allora avrai da render conto d'ogni occhiata. "Exigitur a te usque ad ictum oculi", S. Anselmo. "Purgabit filios Levi, et colabit eos" (Malach 3,3). Siccome si cola l'oro, separandone la scoria, così si avranno da esaminare le opere buone, le confessioni, le comunioni ecc. "Cum accepero tempus, ego iustitias iudicabo" (Ps 74,3). In somma, dice S. Pietro che nel giudizio il giusto appena si salverà: "Si iustus vix salvabitur, impius et peccator ubi parebunt?" (1 Petr 4,18). Se ha da rendersi conto d'ogni parola oziosa, qual conto si renderà di tanti mali pensieri acconsentiti? di tante parole disoneste? S. Gregorio: "Si de verbo otioso ratio poscitur, quid de verbo impuritatis?". Specialmente dice il Signore (parlando degli scandalosi che gli han rubate l'anime): "Occuram eis quasi ursa raptis catulis" (Osea 13,8). Parlando poi dell'opere dirà il giudice: "Date ei de fructu manuum suarum" (Prov 31). Pagatelo secondo le opere che ha fatte.

PUNTO III

In somma l'anima per conseguir la salute eterna, ha da trovarsi nel giudizio colla vita fatta conforme alla vita di Gesù Cristo. "Quos praescivit, et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui" (Rom 8,29). Ma ciò era quello che faceva tremare Giobbe. "Quid faciam, cum surrexerit ad iudicandum Deus? et cum quaesierit, quid respondebo illi?". Filippo II, avendogli un suo domestico detta una bugia, lo rimproverò dicendogli: "Così m'inganni?". Quel miserabile ritornato in casa, se ne morì di dolore. Che farà, che risponderà il peccatore a Gesù Cristo giudice? Farà quel che fece colui del Vangelo, che venne senza la veste nuziale, tacque, non sapendo che rispondere. "At ille obmutuit" (Matth 22,12). Lo stesso peccato gli otturerà la bocca: "Omnis iniquitas oppilabit os suum" (Psal 106,42). Dice S. Basilio che 'l peccatore allora sarà più tormentato dal rossore, che dallo stesso fuoco dell'inferno: "Horridior, quam ignis, erit pudor".

Ecco finalmente il giudice darà la sentenza. "Discede a me, maledicte, in ignem aeternum". Oh che tuono terribile sarà questo! "Oh quam terribiliter personabit tonitruum illud!", il Cartusiano. Dice S. Anselmo: "Qui non tremit ad tantum tonitruum, non dormit, sed mortuus est". E soggiunge Eusebio che sarà tanto lo spavento de' peccatori in sentirsi proferir la condanna, che se potessero morire, di nuovo morirebbero: "Tantus terror invadet malos, cum viderint iudicem sententiam proferentem, ut nisi essent immortales, iterum morerentur". Allora, dice S. Tommaso da Villanova, non si dà più luogo a preghiere; né vi sono più intercessori, a cui ricorrere: "Non ibi precandi locus; nullus intercessor assistet, non amicus, non pater". A chi allora dunque ricorreranno? Forse a Dio, che han così disprezzato? "Quis te eripiet, Deusne ille, quem contempsisti?" (S. Basilio). Forse a' santi? a Maria? No, perché allora: "Stellae (che sono i santi avvocati) cadent de coelo; et luna (ch'è Maria) non dabit lumen suum" (Matth 24). Dice S. Agostino: "Fugiet a ianua paradisi Maria".

Oh Dio, esclama S. Tommaso da Villanova, e con quale indifferenza sentiamo parlar del giudizio, quasi a noi non potesse toccar la sentenza di condanna! o come noi non avessimo ad esser giudicati! "Heu quam securi haec dicimus, et audimus, quasi nos non tangeret haec sententia, aut quasi dies ille nunquam esset venturus!". E qual pazzia, soggiunge lo stesso santo, è lo star sicuro in cosa di tanto pericolo! "Quae est ista stulta securitas in discrimine tanto!". Non dire, fratello mio, ti avverte S. Agostino: Eh che Dio vorrà proprio mandarmi all'inferno? "Nunquid Deus vere damnaturus est?". Nol dire, dice il santo, perché anche gli ebrei non sel persuadevano d'esser esterminati; tanti dannati non sel credevano d'esser mandati all'inferno; ma poi è venuta la fine del castigo: "Finis venit, venit finis: nunc immittam furorem meum in te, et iudicabo" (Ez 7,6). E così ancora, dice S. Agostino, avverrà anche a te: "Veniet iudicii dies, et invenies verum, quod minatus est Deus". Al presente a noi sta di sceglier la sentenza che vogliamo: "In potestate nostra (dice S. Eligio) datur, qualiter iudicemur". E che abbiamo da fare? aggiustare i conti prima del giudizio: "Ante iudicium para iustitiam" (Eccli 18,19). Dice S. Bonaventura che i mercanti prudenti, per non fallire, spesso rivedono ed aggiustano i conti. "Iudex ante iudicium placari potest, in iudicio non potest", S. Agostino. Diciamo dunque al Signore, come diceva S. Bernardo: "Volo iudicatus praesentari, non iudicandus". Giudice mio, voglio che ora in vita mi giudicate e mi punite, or ch'è tempo di misericordia, e mi potete perdonare; perché dopo morte sarà tempo di giustizia.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

Cognoscetur Dominus iudicia faciens (Ps 9,17)

PUNTO I

Al presente, se ben si considera, non v'è nel mondo persona più disprezzata di Gesù Cristo. Si fa più conto d'un villano che non si fa conto di Dio; perché si teme che quel villano, vedendosi troppo offeso, mosso a sdegno, si vendichi: ma a Dio si fanno ingiurie, e se gli replicano alla libera, come se Dio non potesse vendicarsi, quando vuole. "Et quasi nihil possit facere Omnipotens, aestimabant eum" (Iob 22,17). Ma perciò il Redentore ha destinato un giorno, che sarà il giorno del giudizio universale (chiamato appunto dalle Scritture, "Dies Domini"), nel quale Gesù Cristo vorrà farsi conoscere per quel gran Signore ch'Egli è. "Cognoscetur Dominus iudicia faciens" (Psal 9,17). Quindi un tal giorno si chiama non più giorno di misericordia e di perdono, ma "Dies irae, dies tribulationis, et angustiae, dies calamitatis, et miseriae" (Soph 1,15). Sì, perché allora giustamente vorrà il Signore risarcirsi l'onore, che han cercato di torgli i peccatori in questa terra. Vediamo come avverrà il giudizio di questo gran giorno.

Prima di venire il giudice, "Ignis ante Ipsum praecedet" (Psal 96,3). Verrà fuoco dal cielo, che brucerà la terra e tutte le cose di questa terra. "Terra, et quae in ipsa sunt opera, exurentur" (2 Petr 3,10). Sicché palagi, chiese, ville, città, regni, tutti han da diventare un mucchio di cenere. Dee purgarsi col fuoco questa casa appestata di peccati. Ecco il fine che avran da avere tutte le ricchezze, le pompe e le delizie di questa terra. Morti che saranno gli uomini, suonerà la tromba e tutti risorgeranno. "Canet enim tuba, et mortui resurgent" (1 Cor 15,52). Dice S. Girolamo: "Quoties diem iudicii considero, contremisco; semper videtur illa tuba insonare auribus meis: Surgite, mortui, venite ad iudicium". Al suono di questa tromba scenderanno l'anime belle de' beati ad unirsi coi loro corpi, con cui han servito a Dio in questa vita; e l'anime infelici de' dannati saliranno dall'inferno ad unirsi con quei corpi maledetti, co' quali hanno offeso Dio.

Oh che differenza ci sarà allora tra i corpi de' beati e quelli dei dannati. I beati compariranno belli, candidi, risplendenti più che il sole. "Tunc iusti fulgebunt sicut sol" (Matth 13,43). Oh felice chi in questa vita sa mortificar la sua carne, con negarle i piaceri vietati; e per tenerla più a freno, le nega anche i gusti leciti del senso, la maltratta, come han fatto i santi! Oh quanto allora se ne troverà contento, come un S. Pietro d'Alcantara, che dopo morte disse a S. Teresa: "O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam!". All'incontro i corpi de' reprobi compariranno deformi, neri e puzzolenti. O che pena avrà allora il dannato in riunirsi col suo corpo! Corpo maledetto, dirà l'anima, che per contentare te io son perduta. E 'l corpo dirà: Anima maledetta, e tu che avevi in mano la ragione, perché mi hai conceduti quelli gusti, che han fatto perdere te e me per tutta l'eternità.

PUNTO II

Risorti che saranno gli uomini, sarà loro intimato dagli angeli che vadano tutti alla valle di Giosafat, per essere ivi giudicati: "Populi, populi in valle concisionis, quia iuxta est dies Domini" (Ioel 3,14). Radunati poi che saranno ivi, verranno gli angeli e segregheranno i reprobi dagli eletti. "Exibunt angeli, et separabunt malos de medio iustorum" (Matth 13,49). I giusti resteranno alla destra e i dannati saran cacciati alla sinistra. Che pena sarebbe a taluno il vedersi discacciato dalla conversazione o dalla chiesa! Ma quale altra pena sarà allora il vedersi discacciare dalla compagnia dei santi: "Quomodo putas impios confundendos, quando, segregatis iustis, fuerint derelicti!" (Auct. op. imperf.). Dice il Grisostomo che se i dannati non avessero altra pena, questa sola confusione basterebbe a fare il loro inferno: "Et si nihil ulterius paterentur, ista sola verecundia sufficeret eis ad poenam". Il figlio sarà separato dal padre, il marito dalla moglie, il padrone dal servo: "Unus assumetur, et alter relinquetur" (Matth 24,40). Dimmi, fratello mio, qual luogo pensi che allora ti toccherà? Vorresti trovarti alla destra? lascia dunque la via, che ti porta alla sinistra.

Ora in questa terra son tenuti per fortunati i principi, i ricchi, e son disprezzati i santi, che vivono poveri ed umili. O fedeli, che amate Dio, non vi accorate, in vedervi sì vilipesi e tribolati in questa terra: "Tristitia vertetur in gaudium" (Io 16,20). Allora voi sarete chiamati i veri fortunati, e avrete l'onore di esser dichiarati della corte di Gesù Cristo. Oh che bella figura che farà allora un S. Pietro di Alcantara, il quale fu vilipeso quasi apostata! un S. Giovanni di Dio, che fu trattato da pazzo! un S. Pietro Celestino, che avendo rinunziato il papato, morì dentro una carcere! Oh quali onori avranno allora tanti martiri straziati da' carnefici! "Tunc laus erit unicuique a Deo" (1 Cor 4,5). Ed oh che figura orribile all'incontro farà un Erode, un Pilato, un Nerone! e tanti altri grandi della terra, ma dannati! Oh amanti del mondo, alla valle, alla valle vi aspetto. Ivi senza dubbio muterete sentimenti. Ivi piangerete la vostra pazzia. Miseri, che per fare una breve comparsa sulla scena di questa terra, avrete poi a far ivi la parte di dannati nella tragedia del giudizio. Gli eletti dunque saran collocati alla destra; anzi per loro maggior gloria (secondo dice l'Apostolo) saranno sollevati in aria sovra le nubi, per andare cogli angeli ad incontro a Gesù Cristo, che ha da venire dal cielo: "Rapiemur cum illis in nubibus obviam Domino in aera" (1 Thess 4,17). E i dannati come tanti capretti destinati al macello, saran confinati alla sinistra, ad aspettare il loro giudice, che dovrà far la pubblica condanna di tutti i suoi nemici.

Ma ecco già si aprono i cieli, vengono gli angeli ad assistere al giudizio, e portano i segni della passione di Gesù Cristo: "Veniente Domino ad iudicium (dice S. Tommaso), signum crucis, et alia passionis indicia demonstrabuntur". Specialmente comparirà la croce: "Et tunc parebit signum Filii hominis in coelo, et tunc plangent omnes tribus terrae" (Matth 24,30). Dice Cornelio a Lapide: Oh come allora al veder la croce piangeranno i peccatori, che in vita non fecer conto della loro salute eterna, che tanto costò al Figlio di Dio! "Plangent qui salutem suam, quae Christo tam cara stetit, neglexerint". Allora dice il Grisostomo: "Clavi de te conquerentur, cicatrices contra te loquentur, crux Christi contra te perorabit". Assisteranno ancora come assessori a questo giudizio i santi Apostoli e tutti i loro imitatori, che insieme con Gesù Cristo giudicheranno le genti: "Fulgebunt iusti, iudicabunt nationes" (Sap 3,7). Verrà ancora ad assistere la Regina de' santi e degli angeli, Maria Santissima. In fine verrà l'eterno giudice in un trono di maestà e di luce. "Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus coeli, cum virtute multa et maiestate" (Matth 24,31). "A facie eius cruciabuntur populi" (Ioel 2,6). La vista di Gesù Cristo consolerà gli eletti, ma a' reprobi ella apporterà più pena che lo stesso inferno: "Damnatis (dice S. Girolamo) melius esset inferni poenas, quam Domini praesentiam ferre". Dicea S. Teresa: Gesù mio, datemi ogni pena, e non mi fate vedere la vostra faccia sdegnata con me in quel giorno. E S. Basilio: "Superat omnem poenam confusio ista". Allora avverrà quel che predisse S. Giovanni che i dannati pregheranno i monti a cader loro sopra e nasconderli dalla vista del loro giudice irato: "Dicent autem montibus: Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum, et ab ira Agni" (Apoc 6,6).

PUNTO III

Ma ecco già comincia il giudizio. Si aprono i processi, che saranno le coscienze di ciascuno: "Iudicium sedit et libri aperti sunt" (Dan 7,10). I testimoni contro i reprobi saranno per prima i demoni che diranno (secondo S. Agostino): "Aequissime Deus, iudica esse meum qui tuus esse noluit". Saran per secondo le proprie coscienze: "Testimonium reddente illis conscientia ipsorum" (Rom 2,15). Di più saran testimoni che grideranno vendetta, le stesse mura di quella casa dove i peccatori hanno offeso Dio. "Lapis de pariete clamabit" (Habac 2,11). Testimonio sarà finalmente lo stesso giudice, ch'è stato presente a tutte le offese a Lui fatte. "Ego sum iudex, et testis, dicit Dominus" (Ier 29,23). Dice S. Paolo che allora il Signore "illuminabit abscondita tenebrarum" (1 Cor 4,5). Farà vedere a tutti gli uomini i peccati de' reprobi più segreti e vergognosi, che in vita sono stati nascosti ancora a' confessori. "Revelabo pudenda tua in facie tua" (Nahum 3,5). I peccati degli eletti, vuole il Maestro delle sentenze con altri che allora non si manifesteranno, ma si troveranno coverti, secondo quel che disse Davide: "Beati quorum remissae sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata" (Ps 31,1). All'incontro, dice S. Basilio che i peccati de' reprobi si vedranno da tutti con un'occhiata, come in un quadro: "Unico intuitu singula peccata velut in pictura noscentur". Dice S. Tommaso: Se nell'orto di Getsemani in dire Gesù Cristo, "Ego sum", caddero a terra tutti i soldati ch'eran venuti a prenderlo; che sarà quand'egli sedendo da giudice dirà a' dannati: Ecco io sono quello che Voi avete così disprezzato? "Quid faciet iudicaturus, qui hoc fecit iudicandus?".

Ma via su, già si viene alla sentenza. Si volterà prima Gesù Cristo agli eletti e dirà loro quelle dolci parole: "Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi" (Matth 25,34). S. Francesco d'Assisi in essergli rivelato ch'era predestinato, non capiva in sé per la consolazione; qual gaudio sarà sentirsi dire allora dal giudice: Venite, figli benedetti, venite al regno; non vi sono più pene per voi, non vi è più timore, già siete e sarete salvi in eterno. Io vi benedico il sangue che sparsi per voi, e vi benedico le lagrime che voi avete sparse per li vostri peccati: andiamo su al paradiso, dove staremo sempre insieme per tutta l'eternità. Benedirà anche Maria SS. i divoti suoi, e l'inviterà a venir seco in cielo, e così cantando "Alleluia, alleluia", entreranno gli eletti in trionfo al paradiso a possedere, a lodare, ed amare Dio in eterno.

All'incontro i dannati rivolti a Gesù Cristo gli diranno: E noi miseri che ce ne abbiamo da fare? E voi, dirà l'eterno giudice, giacché avete rinunziata e disprezzata la mia grazia, "discedite a me, maledicti, in ignem aeternum" (Matth 25,41). "Discedite", spartitevi da me, ch'io non voglio vedervi, né sentirvi più. "Maledicti", andate ed andate maledetti, giacché avete disprezzata la mia benedizione. E dove, Signore, hanno da andare questi miserabili? "In ignem", nell'inferno a bruciare in anima e corpo. E per quanti anni, o per quanti secoli? Che anni, che secoli! "In ignem aeternum", per tutta l'eternità, mentre Dio sarà Dio. Dopo questa sentenza dice S. Efrem che i reprobi si licenzieranno dagli angeli, da' santi, da' congiunti e dalla divina Madre: "Valete iusti, vale crux, vale paradise. Valete patres ac filii, nullum siquidem vestrum visuri sumus ultra. Vale tu quoque Dei Genitrix Maria". E così in mezzo alla valle si aprirà poi un gran fossa, dove caderanno insieme demonii e dannati, i quali si sentiranno oh Dio dietro le spalle chiudere quelle porte, che non si avranno da aprire, mai, mai, mai più in eterno. O peccato maledetto, a qual fine infelice avrai un giorno da condurre tante povere anime! O anime infelici, a cui sta riservata una fine così lagrimevole!

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