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Domenica di Settuagesima




Il violaceo dei paramenti sacerdotali e degli arredi richiama alla serietà di un impegno di preghiera e di lotta interiore per vincere il nostro orgoglio e partecipare al trionfo di Cristo.Il tempo liturgico che ci sta davanti diviene così ulteriore tappa di riscoperta della nostra fede nell’Unico Dio e Signore. 

Riserviamo a questo momento della nostra preghiera e meditazione il pensiero sopra il brano del Santo Vangelo che la Chiesa ci presenta in questa particolare Domenica che, come saprete, nel linguaggio liturgico si definisce di Settuagesima. Essa ci informa e dimostra che siamo a una precisa distanza da una meta che andrà avvicinandosi con la Sessagesima, con la Quinquagesima e quindi con il periodo della Quaresima, che sarà preparazione e prologo a quello della Pasqua di Risurrezione.




A ben riflettere, in questa Domenica cambia interamente il tono della preghiera e della meditazione. Il tempo dell’Avvento e del Natale ci ha portato alla ricerca di Dio, alla conoscenza del Figlio suo unigenito, Gesù Cristo, alla sua Rivelazione con la festa dell’Epifania e con le altre in seguito celebrate.

Ora cambia l’obbiettivo: siamo piuttosto alla indagine, all’esame dell’uomo. In altri termini, nel periodo, che oggi si inizia, la nostra preghiera avrà per tema fondamentale la sorte dell’uomo, la sua salvezza, il mistero della sua redenzione, incominciando proprio da queste domeniche che fanno da prefazione alla Quaresima, per richiamarci ai grandi temi: vero tessuto di sublime pagina religiosa.

Il primo di essi a presentarsi in questa Domenica è proprio la condizione dell’uomo. Chi recita il Breviario - ove da oggi le lezioni del primo notturno sono della Genesi -, chi medita sull’Epistola odierna, vede molto bene in che modo si presenta l’uomo, dopo. la colpa originale. Non è certo una condizione di felicità, non di perfezione; e nemmeno siamo in uno stato terminale completo, cioè di riposo. Si tratta, invece, di uno stato iniziale, che esige sviluppo, opere, educazione, fatica; insomma, questa la realtà, è uno stato infelice. Perché? Perché siamo peccatori; perché abbiamo ereditato una esistenza afflitta dal peccato d’origine; e, inoltre, l’abbiamo aggravata con le nostre colpe; abbiamo cioè reciso il filo della vita, quello che ci congiunge a Dio. Perciò andremmo incontro a sicura completa rovina se il nostro pellegrinaggio terreno si svolgesse senza l’intervento salvatore di Cristo. Privi di questo infinito dono di Dio, saremmo coloro che la Sacra Scrittura chiama «filii irae», i figli della maledizione.

In conseguenza del peccato, il genere umano sarebbe perduto. Ed ecco allora la mirabile impresa del ricupero, della salvezza; la conoscenza di chi ci aiuterà, di quanto occorre fare da parte nostra. Questo, dunque, l’argomento che interesserà le nostre anime, quelle fedeli specialmente, per arrivare al momento beato della Pasqua in cui incontriamo la grande speranza, la grande gioia della nostra redenzione attuata da Cristo e che deve compiersi in ciascuno di noi.

Il Vangelo di quest’oggi ci propone una di quelle grandi parabole che sembrano racconti tenui, divertenti, e sono, al contrario, pagine cosmologiche, pagine immense di antropologia, di teologia; piene, ricolme anzi, di sapienza, verità ed insegnamenti. L’arte del Divino Maestro è appunto quella di rendere più accessibili a noi i misteri divini, mediante tali coloriti racconti e presentazioni paraboliche.

Il tratto odierno dell’Evangelista San Matteo - tutti lo hanno ascoltato e compreso anche se nel trasparente latino ora letto - narra di quel padre di famiglia, proprietario di un campo, che si reca di buon mattino nella piazza per avviare lavoratori alla sua terra. Ne trova subito alcuni; fissa con loro la mercede e li manda al suo podere. Più tardi, e a varie riprese, all’ora di terza e quindi di sesta e di nona, cioè sino al pomeriggio inoltrato, torna ancora alla piazza ed ingaggia nuovi braccianti. Infine esce ancora sul calar del giorno, all’undecima ora, ed assume pure alcuni che non erano riusciti a trovare occupazione sino a quel momento. Si conclude così la prima parte della parabola.

Una seconda ne segue: quella che concerne la retribuzione. Il padrone distribuisce a tutti la stessa mercede. Di qui il malumore dei primi. Che cosa accade? Perché l’imprenditore non dà il compenso in proporzione alla fatica sostenuta? Il padrone risponde: Io do secondo giustizia; assolutamente come avevamo pattuito: se ora rimunero quelli che hanno meno lavorato nella stessa misura usata per gli altri, è perché io preferisco essere buono e generoso. Non posso dunque disporre come più mi piace?

In altri termini, viene qui presentata la duplice azione di Dio nei confronti dell’uomo: la prima è di giustizia, la seconda di misericordia.Si tratta di argomenti di immensa portata, che meriterebbero ampie spiegazioni : ed è ovvio sottolinearne qualcuna. la parabola è come intessuta sul «voca operarios», gli operai al lavoro. Per essere esatti, non è che la parabola voglia, in un certo senso, tracciare il quadro della questione sociale e discorrere del lavoro industriale o manuale come noi l’intendiamo ai giorni nostri. Il concetto della parabola è più vasto, e intende precisare quale posto compete alla operosità, al lavoro dell’uomo. Ed ecco subito la prima norma precettiva, badate che il lavoro è necessario. È un obbligo di principio che concerne l’intera esistenza. Bisogna che la vita umana sia attiva per essere perfetta, per salvarsi. Da ciò deriva una considerazione primaria, che capovolge tante nostre idee: non è lo stato sociale quello che giova alla nostra salvezza, anzi, talvolta, le diverse condizioni possono aggravare la responsabilità. Il fatto di essere ricco, sano, sapiente, di aver fortuna non costituisce motivo determinante per essere salvato. Si salva chi opera. Ci si salva non con l’essere, ma con l’agire; non per ciò che abbiamo ottenuto, ma per ciò che facciamo. Sono le nostre azioni a salvarci. Pertanto, il problema morale che riguarda l’azione diventa fondamentale per tutto l’itinerario sino al traguardo della felicità. Bisogna operare: tale l’insegnamento primo della parabola. Da ultimo, ancora una riflessione . È, questo, il mezzo stupendo, che dall’alimento terreno ci innalza a quello celeste: il pane che noi conquistiamo, i beni economici che ci procuriamo diventano quasi un regalo anticipato di un dono ben più insigne che il Signore ha preparato per noi: la sua mercede perpetua, il pane della vita senza fine.

Quindi, piuttosto che applicarci al lavoro con l’animo pieno di rancori, di lamenti, di critiche, eseguiamolo col desiderio vivo di compiere bene il nostro dovere, di rendere giusta, meritoria e onesta la nostra fatica, feconda, pure, delle retribuzioni dovute; e nella speranza che la nostra giornata terrena prepari il premio della giornata eterna. E così sia.Dio ci benedica e ci tenga uniti nella fede, nella speranza, nella carità.






                                                                                                                                        

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