Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

martedì 30 aprile 2024

Caterina Benincasa



Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347, penultima dei 25 figli di Iacopo di Benincasa, tintore e commerciante in stoffe, e di sua moglie Lapa de’ Piagenti. Fin dall’età di sei anni il suo incontro vitale con Cristo Pontefice si tradusse in un desiderio di unione totale, che le suggerì già a sette anni di formulare, in segreto, il voto di verginità: questa scelta si scontrò ben presto con i progetti matrimoniali che la famiglia pochi anni dopo, secondo l’uso del tempo, cominciò ad avanzare a suo riguardo. Per rendere stabile il proprio impegno di vita Caterina si associò alle Sorelle della Penitenza di san Domenico, ramo laicale dell’Ordine dei Predicatori, unendo alla vita di preghiera e al servizio in famiglia l’impegno di assistenza a poveri, ammalati e carcerati.

I problemi della sua città sollecitarono così la sua sensibilità e la sua iniziativa, che si allargarono ben presto alle città vicine e alla complessa situazione della Chiesa del tempo. I conflitti tra famiglie, le faziosità della politica, le ingiustizie sociali, la decadenza morale del clero, la debolezza del Papato e l’appesantimento delle istituzioni ecclesiali, rendevano urgente un risanamento della società cristiana in Europa. Le 383 lettere di Caterina di cui ci è giunto il testo sono rivolte a numerose personalità ecclesiastiche e politiche del tempo, come pure a persone di ogni ceto sociale, religiosi e laici, tra cui molti divennero suoi discepoli e amici.

Il ritorno dei Papi da Avignone a Roma appariva a molti la necessaria premessa di una riforma della Chiesa e di una riconciliazione tra gli Stati europei. Un primo tentativo di tornare a Roma, da parte di Urbano V (1370), era fallito dopo pochi mesi; Urbano era morto poco dopo il suo rientro in Avignone, come gli aveva predetto santa Brigida di Svezia. Dopo la morte di lei (1372) il suo confessore, Alfonso di Valdaterra, nel 1374 fu mandato dal nuovo papa, Gregorio XI, a chiedere a Caterina di pregare per lui e per la Chiesa (cf. Lett. 127), mentre le città toscane stavano schierandosi con i Visconti di Milano, contro il Papato. In maggio Caterina andò a Firenze, dove era riunito il capitolo generale dell'Ordine Domenicano: qui le venne dato come direttore spirituale fra Raimondo delle Vigne, originario di Capua. Tornata a Siena, dove si era manifestata una recrudescenza dell’epidemia di peste, Caterina si impegnò subito nell’assistenza ai malati.

Nella primavera del 1375 Caterina andò a Pisa e a Lucca per cercare di distogliere quelle città dalla lega antipapale promossa da Bernabò Visconti, e persuaderle ad aderire al progettato “passaggio” in Terra Santa: questo sembrava allora poter indurre gli Stati a por fine ai conflitti che dilaniavano l’Europa e Caterina stessa, come altre persone spirituali, progettò di andare personalmente in quelle terre per offrire, anche a rischio della vita, la redenzione di Cristo a quelle popolazioni non cristiane: esse sarebbero allora divenute germe di vita nuova nella Chiesa (Lett. 218). L’appello era rivolto da Caterina anche a donne devote, come monna Paola e le sue compagne di Fiesole (Lett. 144), e fra Tommaso da Siena, detto il Caffarini, attestò espressamente che Caterina stessa aveva desiderato partire: e 
«desiderava passare – lei ed altri – fra gli infedeli e in Terra Santa» e parlando con Gregorio XI del “passaggio” aveva espresso il desiderio di «visitare il Santo Sepolcro e partecipare a quel passaggio, se a Dio fosse piaciuto, insieme ai suoi amici più cari, per procurare la salvezza sia dei cristiani sia dei non cristiani» (Processo Castellano, p. 44,27 e 45,9-13 Laurent; Legenda maior 2, 10, 19-21, p. 327 Nocentini). Il 1° aprile 1376 Caterina ebbe la ben nota visione della propria missione di riconciliatrice non solo fra opposte fazioni e fra opposti Stati, ma anche fra cristiani e musulmani, “passando” da un popolo all’altro (Lett. 219).

All'inizio di maggio Caterina andò a Firenze per contribuire alla riconciliazione della città con il Papato; dopo qualche settimana ripartì per Avignone, per perorare davanti a Gregorio XI la causa dei Fiorentini, colpiti da interdetto. Alla fine dell’estate Caterina ottenne dal Papa la promessa del suo ritorno a Roma e cercò di ottenere un rapido inizio del “passaggio”, ritenendolo urgente per il bene sia dei cristiani sia dei musulmani (cf. Lett. 237). Il 13 settembre la corte papale lasciò Avignone dirigendosi verso Roma via mare, mentre Caterina e i suoi discepoli partirono via terra, sostando a Varazze; nuovamente incoraggiato da Caterina, nel corso di un rapido incontro a Genova, Gregorio entrò in Roma il 17 gennaio 1377, mentre Caterina aveva raggiunto Siena a fine dicembre.

Fondato a Belcaro (presso Siena) un monastero di contemplative (Santa Maria degli Angeli), Caterina nel 1377 passò la fine dell’estate e l’autunno a Rocca d’Orcia, per riconciliare i due rami rivali della potente famiglia dei Salimbeni e ridare la pace a quelle popolazioni. Qui Caterina, preoccupata dalla difficile situazione attraversata dalla Chiesa e dalla società del suo tempo, inizia la meditazione e la dettatura del suo “Libro”, e ne dà notizia a Raimondo scrivendogli di suo pugno (Lett. 272).

Per incarico di Gregorio si reca quindi a Firenze, per concludere la pace tra il papa e i Fiorentini. Alla morte di Gregorio (27 marzo 1378), viene eletto suo successore Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, con il nome di Urbano VI (8 aprile). A Firenze Caterina, durante l’estate, rischiò di essere uccisa nel cosiddetto “tumulto dei Ciompi”, ma si giunse infine alla pace tra la città e il papato (28 luglio).

Tornata a Siena Caterina completò la composizione del “Libro”, che si concluse alla metà di ottobre. Nel frattempo però l’intransigenza di Urbano VI aveva suscitato malcontento all’interno della Curia, e il 20 settembre i cardinali, francesi per la maggior parte, riunitisi a Fondi elessero un antipapa, Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. Aveva così inizio uno scisma che avrebbe lacerato la Chiesa e l’Europa fino al 1417.

Il 28 novembre 1378 Caterina, per ordine di Urbano VI, arrivò a Roma per sostenere spiritualmente la Curia e contribuire a catalizzare intorno a Urbano il consenso degli Stati europei. Occorreva ormai accantonare anche il progetto del “passaggio” tra i non cristiani (cf. Lett. 274 e 340). Con la preghiera e un’intensa attività diplomatica, sollecitando anche per lettera l’impegno dei governanti e la preghiera dei contemplativi, Caterina si spese totalmente per l’unità e la riforma della Chiesa. Il papa avrebbe voluto mandarla anche personalmente a Napoli presso la regina Giovanna d’Angiò, insieme alla figlia della defunta Brigida di Svezia (anche lei si chiamava Caterina): ma i timori della giovane svedese e di Raimondo convinsero Urbano a desistere da quel proposito, con grande delusione della Benincasa (Legenda maior 3, 1, 11-12, p. 364 Nocentini; Processo Castellano, p. 149,5-6 Laurent).

Dopo un’intensa attività diplomatica, fecondata da un’ininterrotta preghiera e penitenza, Caterina morì a Roma il 29 aprile 1380 nella casa di Paola del Ferro (cf. Tommaso de Petra cit. da Bartolomeo Dominici in Processo Castellano, p. 350,16 Laurent) in cui aveva preso alloggio con i suoi discepoli, in via del Papa (Legenda maior 3, 3, 8, p. 374 Nocentini), oggi piazza S. Chiara 14. Fu sepolta nella vicina chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva. Sul suo epitaffio (oggi conservato nella sacrestia della stessa basilica) fra Raimondo fece scrivere che Caterina «si fece carico dello zelo per il mondo moribondo» (mundi zelum gessit moribundi).





lunedì 29 aprile 2024

Il Santo del Giorno "San Pietro da Verona"



Carissimi amici e lettori,

oggi la Santa Madre Chiesa, fa memoria di un grande Santo Pietro da Verona (c. 1205-1252)  nacque da genitori vicini al catarismo, cioè l’eresia che egli combatterà lungo tutta la sua vita, operando numerose conversioni. E tra i santi più raffigurati per le circostanze del suo martirio.Si convertì alla fede cattolica da bambino, imparando a recitare il Credo a sette anni, e in seguito studiò all’Università di Bologna. In questa città, ancora quindicenne, incontrò Domenico di Guzmán e secondo il Martirologio “ricevette l’abito dallo stesso san Domenico”, fondatore dell’Ordine dei Predicatori ( 8 agosto 1170, 6 agosto 1221).
Pietro operò il suo ministero di predicazione in diverse città dell’Italia centro-settentrionale, da Roma a Milano, dove esercitò su mandato dei pontefici per debellare l’eresia catara che vi si era diffusa a macchia d’olio. Nel 1244 venne inviato a Firenze e anche qui riuscì a riportare alla vera fede molte anime che erano cadute nell’errore. Le sue brillanti prediche nella città toscana suscitarono l’ammirazione dei sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria: divenne il loro padre spirituale e dopo ardenti preghiere ottenne dalla Beata Vergine la conferma che quel nuovo ordine era nato per precisa ispirazione celeste.
Il suo zelo nel difendere l’ortodossia gli procurarono negli anni molti nemici tra gli eretici e, allo stesso tempo, diversi estimatori tra i cristiani, che potevano constatare la sua austerità di vita e la grande familiarità con le Sacre Scritture. Nel 1251, Innocenzo IV lo nominò inquisitore per la Lombardia, ma qui le sette catare di diverse città cospirarono contro di lui. L’idea di morire a causa della fede non lo spaventava affatto e, anzi, un giorno confidò a un confratello che ogni volta che sollevava il calice con il Sangue di Cristo chiedeva la grazia del martirio. Il 6 aprile 1252, mentre si recava a piedi da Como a Milano, fu raggiunto da un sicario dei catari che gli spaccò il cranio con un colpo di falcastro e ferì mortalmente un suo confratello, di nome Domenico, che si spense dopo alcuni giorni di agonia.
Prima dell’ultimo respiro terreno, Pietro intinse un dito nel suo sangue e scrisse a terra: Credo in unum Deum. Il sicario gli conficcò infine un pugnale nel petto. Il corpo del martire fu subito trasportato a Milano (dal 1340 è custodito nella splendida Arca di San Pietro Martire, realizzata da Giovanni di Balduccio e posta all’interno della Basilica di Sant’Eustorgio) e il suo culto si espanse rapidamente, anche grazie ai miracoli attribuiti alla sua intercessione e alla sua velocissima canonizzazione, avvenuta appena undici mesi dopo la morte. 
Il suo omicida si chiamava Carino Pietro da Balsamo, che si pentì e poco tempo dopo entrò come converso nel convento domenicano di Forlì, dove passò in preghiera e penitenza gli ultimi quarant’anni della sua vita, sotto la guida spirituale del beato Giacomo Salomoni. La conversione di Carino fu tale che morì in fama di santità e dal 1822 è venerato come beato, il che è certamente tra le più grandi grazie scaturite dal martirio di san Pietro da Verona.

sabato 27 aprile 2024

Il Giubileo dei santi



Così fu chiamato l’Anno Santo del 1450 che vide il pellegrinaggio a Roma di personaggi come Rita da Cascia e Giovanni da Capestrano, ma che fu funestato da incidenti e pestilenze


di Serena Ravaglioli


L’avvenimento di spicco dell’Anno Santo 1450 fu, il 24 maggio, domenica di Pentecoste, la canonizzazione di san Bernardino da Siena, il riformatore francescano morto soltanto sei anni prima a L’Aquila. Alla solenne cerimonia, insieme a moltissimi altri fedeli, parteciparono anche più di tremila frati, venuti a Roma da ogni parte d’Europa, oltre che per la canonizzazione, anche per il capitolo generale dell’Ordine e l’elezione del nuovo vicario generale. I cronisti raccontano che quel giorno la processione dei frati fu così lunga che quando «i primi erano già entrati in San Pietro, gli ultimi non finivano di uscire dal convento sul Campidoglio», e dentro la Basilica la folla era così immensa che «nessuno poteva muoversi isolatamente, ma come l’onda del mare si dovevano muovere tutti insieme verso una sola direzione». Il panegirico in onore di san Bernardino fu pronunciato dal Papa stesso, Niccolò V. Non è coincidenza da poco che ben quattro tra i frati presenti sarebbero a loro volta saliti alla gloria degli altari: Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca, Pietro Regalado e Diego di Alcalà.
Del resto non a caso l’Anno Santo 1450 è stato chiamato “Giubileo dei santi”. Infatti i quattro francescani non furono i soli pellegrini venuti a Roma in quell’anno destinati a essere proclamati santi. Secondo una tradizione, è da collegare a questo Giubileo il pellegrinaggio a Roma di santa Rita da Cascia. La biografia narra che in occasione della visita romana, per poter circolare tra gli altri romei senza suscitare il loro ribrezzo, santa Rita chiese al Signore la grazia di farle chiudere temporaneamente la piaga che aveva sulla fronte, segno della sua totale partecipazione alla passione del Redentore; questa infatti normalmente, essendo purulenta e fetida, la costringeva alla segregazione. Le date della vita della santa, tuttavia, sono tutt’altro che definitivamente chiarite (alcuni ne pongono la morte nel 1457, altri nel 1447) e quindi dare per sicura la sua presenza a Roma nel 1450 può essere un azzardo.
Invece furono certamente a Roma in quell’anno, santa Caterina Vegri da Bologna e sant’Antonino Pierozzi, arcivescovo di Firenze, che guidò il pellegrinaggio della sua diocesi. Fu proprio sant’Antonino, nella sua Chronica, a dare al 1450 l’appellativo di «Anno d’oro».
In realtà non è chiarissimo se con questa definizione l’arcivescovo facesse riferimento all’affluenza dei pellegrini, che fu davvero eccezionale (un cronista senese, Giannozzo Manetti, per dare un’idea del brulichio nelle strade dei romei che andavano in fretta da una chiesa all’altra ricorse al pittoresco paragone con uno sciame di formiche incolonnate), o al fervore delle pratiche religiose o invece, con una punta di polemica, all’intensa attività economica che si accompagnò agli aspetti religiosi di quel Giubileo.
Certo è che gli incassi di quell’anno furono molto elevati non solo per tutti i romani più o meno direttamente coinvolti nell’accoglienza dei pellegrini, ma anche per il Papa, che aveva affidato a Cosimo de’ Medici l’appalto del servizio di tesoreria. I guadagni furono in larga parte investiti per proseguire l’intensa attività architettonica e artistica di cui Niccolò V si era fatto promotore, convinto della necessità di fare di Roma la splendida espressione visiva della fede, e per acquistare libri e codici, che andarono a costituire il primo nucleo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Fra gli artisti impegnati a Roma troviamo un altro frate cui la tradizione attribuisce fama di santità, fra Giovanni da Fiesole, più noto con l’appellativo di Beato Angelico. In occasione del Giubileo dipinse la Cappella del Sacramento a San Pietro e la cappella privata situata nella torre di Niccolò III nei Palazzi Vaticani.
Nel clima di rinnovato interesse letterario e artistico per l’antichità che contraddistingueva l’Umanesimo, non fa sorpresa che molti dei pellegrini più colti approfittassero dell’occasione giubilare per conoscere da vicino ciò che restava di Roma antica, con una armoniosa integrazione di fervore religioso e interessi culturali. È quanto emerge per esempio dalla relazione di viaggio contenuta nello Zibaldone del mercante fiorentino Giovanni Rucellai, che così descrive il soggiorno trascorso nell’Urbe insieme al cognato, al genero e alle donne della famiglia nel febbraio 1450: «E nel tempo che noi stemmo a Roma osservavamo questa regola, che la mattina montavamo a cavallo andando a visitare le quattro chiese e di poi, dopo mangiato, rimontavamo a cavallo cercando e vedendo tutte quelle muraglie antiche e cose degne di Roma, e la sera tornati a casa ne facevo ricordo...». Nello Zibaldone sono riferiti fatti veri, leggende e miracoli alla maniera dei vecchi libri devoti a uso e consumo dei pellegrini. Fra le notizie più fantasiose, ve ne è una relativa a «due donne murate in due pilastri solo con una buca dove si porge loro da mangiare» nella Basilica di San Pietro.
Rucellai appare anche ben informato sulle opportunità gastronomiche della città: «Erano in Roma in questo anno del Giubileo osterie milleventidue che tengono insegna fuori. E senza insegna, anche un gran numero in più». Anche un altro cronista del tempo, Paolo del Mastro, parla delle osterie e delle taverne, indicandole fra le attività più redditizie per i romani, «massime chi le fece per le strade di fuori». Evidentemente tutto ciò non bastava se altre fonti riferiscono dei gravi problemi di approvvigionamento alimentare che angustiarono la città per tutto quell’anno, tanto da indurre il Papa ad abbreviare da quindici a cinque giorni la lunghezza della visita dei pellegrini ai luoghi sacri, necessaria a ottenere «tutta la perdonanza».
Ma il problema dell’approvvigionamento non fu il solo aspetto negativo dell’Anno Santo 1450. Ve ne furono altri, anche più gravi. Alla fine di maggio un’ennesima epidemia di peste investì la città mietendo come sempre vittime a migliaia. Anche il convento francescano dell’Ara Coeli fu colpito: nell’assistenza ai frati malati si prodigò il futuro santo Diego di Alcalà, che, come abbiamo visto, era venuto a Roma dalla Spagna insieme al confratello Alfonso de Castro per la canonizzazione di san Bernardino. La peste interruppe per alcuni mesi l’afflusso dei pellegrini e lo stesso Papa, durante l’estate, quando l’epidemia raggiunse il culmine, preferì allontanarsi dalla città, riparando a Fabriano.
In autunno, passato il contagio, le attività giubilari ripresero in pieno il loro svolgimento, ma il 19 dicembre accadde un nuovo grave incidente. Al tramonto, quando la gente faceva ritorno dalla benedizione pontificia gremendo le strade provenienti da San Pietro e soprattutto quel passaggio obbligato che era rappresentato dal ponte Sant’Angelo, una mula e un cavallo s’imbizzarrirono in mezzo al ponte, colpendo con gli zoccoli le persone intorno. Queste si fermarono, la folla che sopraggiungeva continuò ad avanzare spingendo: si venne a creare così un tale scompiglio che nella calca morirono soffocate o calpestate centosettantadue persone; molte altre cercarono scampo buttandosi a fiume e scomparvero nel Tevere. Il Papa fu assai rattristato da questo incidente: dispose cerimonie di suffragio per le vittime, fece edificare all’imbocco del ponte due cappelle commemorative e ordinò una risistemazione edilizia della zona, fra l’altro facendo abbattere quanto restava dell’arco di Graziano. Intanto la notizia della sciagura, riferita dai pellegrini che tornavano in patria, fece il giro di tutta Europa, destando ovunque grande impressione.

Papa Borgia e l’Anno Santo


Alessandro VI mise una particolare cura nell’organizzazione logistica e spirituale del Giubileo del 1500


di Serena Ravaglioli


La fama di Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, Pontefice dal 1492 al 1503, è prevalentemente legata, in negativo, alla licenziosità dei costumi morali, all’avidità delle pratiche simoniache e alla spregiudicatezza con cui favorì, economicamente e politicamente, i suoi figli, soprattutto il pluriassassino Cesare, detto il Valentino, e la bionda Lucrezia, più volte disinvoltamente vedova.
Molto meno rinomata è la sua opera di difensore dell’ortodossia, di riformatore di monasteri e di ordini religiosi, e di promotore di missioni nei Paesi orientali e nel Nuovo Mondo appena scoperto. E ancor meno nota è la sincera devozione con cui praticò e promosse varie forme di pietà e di preghiera. Così per esempio favorì largamente il culto di sant’Anna e della Madonna, facendo ripristinare, fra l’altro, il suono dell’Angelus. Ma è soprattutto l’impegno che profuse nella preparazione del Giubileo del 1500 che testimonia come, nonostante la sregolatezza della sua vita e l’ambizione sconfinata per sé e per i suoi figli, Alessandro VI fosse un sincero credente, almeno a tratti consapevole dei suoi doveri.
La preparazione all’Anno Santo si svolse su due piani: pratico e spirituale. Dal primo punto di vista gli interventi furono di carattere urbanistico e organizzativo, e fra di essi spicca soprattutto la costruzione di una nuova strada rettilinea da Castel Sant’Angelo a piazza San Pietro, attraverso la quale, secondo il progetto, sarebbe potuta passare la maggior parte dei pellegrini, evitando gli ingorghi che avevano funestato il Giubileo del 1450. La costruzione iniziò nell’aprile 1499 e i lavori procedettero così veloci che l’inaugurazione poté avvenire alla vigilia di Natale. La strada prese il nome di via Alessandrina, ma poi fu comunemente chiamata dai romani “Borgo Nuovo”.
Per quanto riguarda l’organizzazione andarono a buon fine i provvedimenti presi per assicurare l’approvvigionamento alimentare (mediante la raccolta di grandi quantità di vettovaglie nei magazzini e il calmieramento dei prezzi) e per offrire ai pellegrini alloggiamenti adeguati, con l’apertura di ospizi. Meno successo ebbero i tentativi, invero in molti casi del tutto falliti, di tutelare la sicurezza delle strade di accesso alla città, frequentemente infestate dai briganti, in particolar modo la Cassia. A protezione dei pellegrini provenienti dal mare, che erano minacciati dai pirati, Alessandro VI fece stazionare a Ostia un incrociatore.
Dal punto di vista spirituale, si deve ad Alessandro VI la definizione delle cerimonie di inaugurazione e di chiusura degli anni santi, che fino ad allora non avevano seguito riti specifici. Alessandro VI stabilì invece un cerimoniale solenne e di alta spiritualità, da allora rimasto sostanzialmente inalterato.
In questa elaborazione ebbe compagno e consigliere prezioso Giovanni Burcardo, che dal gennaio 1484 ricopriva la carica di maestro della Cappella papale e che descrisse diligentemente le cerimonie religiose vaticane, cui aveva assistito o che aveva organizzato, nel suo diario, il Liber notarum, ricca fonte di notizie sulla vita curiale e cittadina della Roma dei suoi tempi. Può essere curioso ricordare che a Burcardo si deve un toponimo romano fra i più famosi: “Argentina”; il maestro pontificio chiamò infatti così la casa-torre che possedeva nel centro di Roma, in onore della sua città natale, Strasburgo, in latino Argentoratus, e il nome passò poi a tutta quella zona della città.
Alessandro VI volle che l’inizio dell’anno giubilare fosse segnato da un evento di forte impatto simbolico e lo individuò nell’apertura della Porta Santa, esplicito richiamo alle parole del Vangelo di Giovanni: «Io sono la porta. Chi per me passerà sarà salvo». Dispose quindi che si estendesse anche alle altre tre Basiliche patriarcali l’uso, fino allora seguito soltanto a San Giovanni, di riservare una porta ai pellegrini degli anni santi, mantenendola murata per tutto il resto del tempo. L’apertura della Porta Santa di San Pietro sarebbe stata riservata al Pontefice, quella nelle altre tre Basiliche a suoi legati.
L’individuazione delle porte in quella prima occasione non fu indenne da confusioni. Così a San Paolo, il legato del Papa non trovò alcuna indicazione relativa a quale fosse la porta giusta e per sicurezza ne fece aprire tre. Nella stessa San Pietro la localizzazione della Porta fu frutto di un equivoco: poiché infatti una tradizione antica, ma incerta, parlava di una “porta aurea”, si pensò di ripristinare quella, individuandola in una nicchia della cappella della Veronica. Ma quando i lavori iniziarono fu subito evidente l’infondatezza della notizia.
In ogni modo alla vigilia di Natale 1499 tutto era pronto per il rito solenne, che Burcardo ha descritto nei minimi particolari. Prima dei Vespri Alessandro VI, accompagnato dal suono di tutte le campane della città, si fece portare in sedia gestatoria fino al portico di San Pietro, seguito dal corteo dei cardinali che avevano lunghi ceri accesi. Mentre il coro cantava le parole del salmo «Aperite mihi portas iustitiae...», bussò tre volte e più con un martello al centro della Porta, poi si sedette in trono e aspettò che gli operai finissero di scoprirla. Quando fu aperta, il Papa si inginocchiò, recitò una preghiera da lui stesso composta e finalmente, sorretto dal Burcardo, oltrepassò la soglia, recando nella mano sinistra un cero mentre con la destra impartiva la benedizione. Il cerimoniale avrebbe previsto a questo punto la recita del Te Deum, ma – è sempre Burcardo a raccontare – tanta fu la «pressura et angustia» che il Papa se lo dimenticò. Il canto del Vespro concluse la cerimonia che, come si è detto, da allora non ha subito modifiche di rilievo.
Identico rito si svolse contemporaneamente a San Giovanni, a Santa Maria Maggiore e a San Paolo, presieduto da un cardinale legato. Le Porte Sante dovevano restare aperte notte e giorno, custodite da quattro chierici a turno ed era vietato ai mendicanti e agli infermi sostare nelle loro vicinanze. Nei pressi della Porta Santa di San Pietro il Papa fece sistemare una grande cassa per l’elemosina, con tre serrature le cui chiavi erano affidate a tre diversi dignitari della corte papale. Chiunque volesse ottenere il perdono e le grazie del Giubileo doveva passare per la Porta Santa e deporre il suo obolo. Fu questa circostanza a favorire l’impressione che per ottenere l’indulgenza bisognasse pagare, e a far nascere quella polemica contro il “commercio delle indulgenze”, che pochi anni più tardi avrebbe portato alle 95 tesi di Lutero.
Alessandro VI volle seguire egli stesso, come i comuni pellegrini, la pratica della visita alle quattro Basiliche per l’acquisto dell’indulgenza giubilare. Lo fece nella settimana santa, il 13 aprile, con lo sfarzoso accompagnamento degli ambasciatori, dei familiari e dei prelati di palazzo.
Il giorno di Pasqua il Papa celebrò un solenne pontificale in San Pietro, dopo il quale impartì la benedizione e l’indulgenza. Stando al Burcardo, a quella solennità avrebbero assistito circa 200mila persone, cifra probabilmente esagerata, ma che certamente rende l’idea del concorso di folla che quell’Anno Santo richiamò. Fra i romei celebri è da ricordare Nicolò Copernico, che giunse a Roma verso Pasqua e vi si trattenne un anno intero.
Il Giubileo si concluse il 6 gennaio 1501. Ancora una volta fu mostrato il sudario della Veronica, ma il Papa, malato, non partecipò al rito, presieduto in sua vece da due cardinali. Dopo i Vespri cantati nella Basilica di San Pietro e seguiti da una solenne processione, i cardinali iniziarono a murare la Porta, uno dall’esterno cominciando con un mattone dorato, l’altro dall’interno con un mattone argentato. Subito dopo gli addetti tirarono su un muro da entrambe le parti, mentre si recitavano Pater noster e Oremus. Da allora è sempre stato il Papa ad aprire e richiudere la Porta Santa di San Pietro, in ossequio alle parole di Isaia: «Se egli apre nessuno chiuderà e se egli chiude nessuno aprirà».

venerdì 26 aprile 2024

Mons. Carlo Maria Viganò FIRMAMENTUM MEUM



Carissimo lettore,
Le Rogazioni - dette anche Litanie - sono giorni di preghiera pubblica per ottenere la fecondità della campagna, la tranquillità delle case, e la santità delle persone, insomma la benedizione di Dio in tutte quante le cose. Ricorrono due volte l’anno: il 25 aprile con nome di Litanie Maggiori e nei tre giorni precedenti l’Ascensione del Signore col nome di Litanie Minori. Durante la processione si cantano le Litanie dei Santi in cui si manifesta la carità della Comunione dei Santi che unisce la Chiesa trionfante, la Chiesa militante e la Chiesa purgante.
(A.di J.)

Omelia nelle Litanie Maggiori, o Rogazioni
Pozzolatico (Firenze)
25 Aprile 2024




Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et liberator meus.
Il Signore è mia roccia, mia fortezza e mio liberatore.

Ps 17, 3

Le Rogazioni riportano molti di noi a tempi remoti, nei quali il 25 Aprile era dedicato alla Benedizione dei campi. Ed era nelle campagne, un tempo nemmeno troppo distanti dalle città, che vedevamo processioni di fedeli e popolo seguire il sacerdote al canto delle Litanie. Ut fructus terræ dare et conservare digneris… Contadini vestiti con l’abito della festa accompagnavano i nostri parroci fino ai loro poderi, dove la sua preghiera echeggiava in un silenzio rotto solo dal canto degli uccelli. Gli alberi da frutto erano in fiore e nell’aria volavano i semi dei pioppi. E si sapeva, nell’intimo di una coscienza che parlava ancora, che il Signore premia il giusto e punisce il malvagio: non solo perché questo era ciò che si sentiva predicare in chiesa, ma anche perché questa giustizia semplice nella comprensione e divina nelle sue manifestazioni mandava le cavallette nel campo di chi lavorava la domenica, e rendeva feconde le coltivazioni, generosi i fianchi delle mucche e delle pecore di chi viveva in Grazia di Dio.

La nostra educazione radicatamente cattolica ci mostrava incastonati in un elaboratissimo disegno della Provvidenza; ed anche se il Creato ci era ostile dopo la cacciata dall’Eden, eravamo nondimeno aiutati dal ritmo sereno delle stagioni e dallo scandire confortante delle ricorrenze religiose a condurre una vita ancora rispondente all’armonia voluta dal Creatore.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore…

Potevamo ancora ammirare all’alba, in questa stagione, il cielo che si schiariva e brillava nel suo blu radioso: oggi ci siamo ormai abituati alla grigia coltre di cieli irrorati artificialmente. E comprendiamo, solo oggi, quanto dessimo per scontata la luce del sole, che qualche autoproclamato filantropo vorrebbe schermare:

de te, Altissimo, porta significatione.

Pensiamoci bene: l’odio del Nemico sembra progressivamente mostrarsi con sempre maggior arroganza, e privare il genere umano della luce del sole è un’inquietante figura dell’oscuramento di Cristo, Sol justitiæ, da parte dei servi dell’Avversario.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Quella società ancora cattolica, pur essendo minata dagli errori del liberalismo o del materialismo ateo, è riuscita a sopravvivere fino agli Anni Sessanta perché era tenuta in vita dall’opera santificatrice della Chiesa e da una generazione di sacerdoti formati secondo l’impostazione tradizionale. Per far ingoiare a questi buoni parroci e religiosi l’indigesto boccone del Vaticano II furono necessari anni e anni di rieducazione e di epurazioni, ma nel frattempo – anche dove il rito riformato aveva sostituito la Messa cattolica – dai pulpiti veniva ancora predicata la Fede di Cristo. Solo per questo gli errori moderni non poterono attecchire ovunque: rimaneva nelle anime il timor di Dio, il rispetto della santità della vita, il riconoscimento del ruolo sociale della famiglia, la volontà di Bene. Nel frattempo il cancro conciliare si diffondeva nelle Università pontificie, nei Seminari, nei Conventi, nelle associazioni cattoliche.

Fu allora che la Gerarchia Cattolica lasciò cadere le Rogazioni, considerandole una vieta manifestazione di fideismo quasi superstizioso. La mente orgogliosa e superba dei novatori non poteva tollerare che il popolo cristiano chiedesse perdono per i propri peccati, invocando la misericordia del Signore e propiziando le Sue benedizioni sui campi. Era una visione “medievale”, indegna delle elevate e adulte coscienze dei modernisti. Era un ostacolo al dialogo religioso, perché riconosceva alla Maestà divina una centralità che l’uomo moderno rivendicava a sé e alla sua dignitas infinita – intelligenti pauca. Così la Provvidenza venne bandita sia nel Suo intervento nella Storia, sia nella nostra possibilità di invocarLa. Il Vaticano II, con la sua visione orizzontale, ci ha precluso quella consolante consapevolezza di essere parte di un cosmo in cui la nostra esistenza individuale è insostituibile perché frutto dell’amore provvidente del Dio Creatore, Redentore e Santificatore.

La voce della “chiesa conciliare” ci faceva credere che eravamo tutti salvi per il solo fatto che Cristo fosse uomo come noi; e quindi che non vi poteva essere nessuna punizione perché non vi era alcuna colpa da punire; dunque non vi era più un Dio da implorare perché fermasse il braccio della Sua giusta ira su di noi peccatori. Questo voleva dire – e lo vediamo confermato oggi – che non serviva nemmeno un Redentore, e che il Sacrificio della Croce era inutile. Ma se tutti si salvano, a cosa serve la Chiesa? Se non c’è diluvio, a cosa serve l’Arca? Se il mondo può vivere in pace e in armonia senza Dio, perché dovremmo pregarLo? Se vogliamo la pioggia, ce la facciamo cadere noi, e se i campi inaridiscono facciamo crescere piante ogm in idrocultura, creiamo la carne sintetica, sostituiamo il frumento con gli scarafaggi, la natura con i pannelli solari, la vita con la sua grottesca replica in provetta.

Nelle Rogazioni è riassunta l’anima del popolo cattolico, perché nell’invocare la misericordia e la benedizione di Dio sui frutti della terra che vanno maturando nei campi e lungo i filari, quel popolo si riconosceva con umile realismo peccatore, capace di emendarsi, di far penitenza, di difendere la propria Fede con il generoso e sincero impeto di Pietro: Signore, con Te sono pronto ad andare in prigione e alla morte (Lc 22, 33).

Quel mondo cristiano, cari fratelli, è stato cancellato: in molte nazioni seguirne i principi è considerato un reato. Ma se è umanamente arduo pensare che sia possibile ricostruire quel modello sulle rovine di un’umanità abbrutita e ribelle, abbiamo tuttavia la possibilità di formare piccole comunità in cui sia custodita e conservata la Fede cattolica secondo quel modo di vivere antico e sacro, nella consapevolezza che dovremmo forse adattarci anche alla clandestinità e alla macchia. Sarà allora che i nostri figli scopriranno con stupore e incredulità quanto sia preferibile arare un campo, dissodare un orto, coltivare frutta, allevare il bestiame, pascolare le pecore, saper fare il formaggio e cuocere il pane. Perché quel benedetto sudore della fronte ci riporta alla concretezza della nostra condizione di exsules filii Hevæ ma ci affranca dalla servitù dei call center, dall’usura, dalla necessità di comprare e mangiare quel che altri hanno deciso.

Tornare alla Fede è possibile creando piccole comunità tradizionali, in cui confrontarsi con gli elementi, seguire i ritmi delle stagioni, la fatica dell’estate e il riposo dell’inverno, la preghiera costante a punteggiare le giornate; giornate in cui ci si alza con la luce del Sole e il segno della Croce, e alla fine delle quali ci si corica con il nome di Gesù e di Maria sulle labbra; giornate in cui la grandine si allontana con una giaculatoria e accendendo la candela benedetta, in cui l’agonia di un’anima è accompagnata dal rintocco della campana, e non dall’arroganza di medici corrotti e infermieri senza cuore.

Ecco perché preghiamo oggi: perché vi siano agricoltori nei campi, vignaioli nelle vigne, pastori per le greggi, operai infaticabili nei tempi di sereno e di tempesta, nella canicola e con la galaverna. E questo vale per le coltivazioni e il bestiame, ma anche e soprattutto per il campo del Signore, per la Sua vigna, per il Suo gregge: è il motivo per cui nelle Litanie invochiamo di essere risparmiati a fulgure et tempestate, a peste, fame et bello, ma anche per cui preghiamo ut domnum Apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris. A questo servono i Ministri dell’Altissimo: a dissodare e seminare la Parola di Dio con la predicazione; a moltiplicare i grappoli dell’unica vite; a pascere le pecore che il Signore ha affidato loro.

L’anniversario dell’Ordinazione sacerdotale di don Lorenzo e don Emanuele e della mia Consacrazione episcopale ci ricordano l’importanza del Sacerdozio cattolico, specialmente in un’epoca in cui i Ministri rimasti fedeli a Cristo sono sempre meno. Il Collegium Traditionis è appunto un seminarium, un luogo – e lo comprenderanno bene quanti conoscono la vita di campagna – in cui il seme della Vocazione è fatto crescere e portato a sviluppo, prima che la pianta possa esser messa a dimora e irrobustirsi dando frutto. Chiediamo anche noi, sull’esempio e per l’intercessione del glorioso Apostolo ed Evangelista Marco, di veder benedetti i frutti soprannaturali di questo vivaio di futuri sacerdoti: per la gloria di Dio, l’onore della Chiesa, la salvezza delle anime. E così sia.



+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

25 Aprile 2024
S.cti Marci Ev.


domenica 21 aprile 2024

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana Testimonianze storiche ed archeologiche (II)


Segue; QUI la prima parte dell’articolo.


Un elemento mobile

Nel Vaticanus Reginensis 316, noto anche come Sacramentario Gelasiano, databile al 750 circa, nelle pagine che descrivono il rito del Venerdì Santo, si legge: “hora nona procedunt omnes ad ecclesiam; et ponitur crux super altare”; non è chiaro se sia un resto di riti gerosolimitani o il ritorno della croce, celata durante la quaresima, ma è certo che la croce è messa sull’altare subito dopo l’ingresso; dopo alcune orazioni “ ingrediuntur diaconi in sacrario. Procedunt cum corpore et sanguinis Domini quod ante die remansit, et ponunt super altare. Et venit sacerdos ante altare adorans crucem Domini et osculans”[47]. L’identificazione tra altare e Calvario è palese anche nei suoi aspetti di mistica e didattica eucaristica, non senza analogie col sermone di S. Agostino: “accostatevi a prendere da questo altare con timore e tremore; sappiate riconoscere nel pane ciò che pendette dalla croce e nel calice ciò che sgorgò dal costato”[48]. Il testo del Sacramentario parla inoltre chiaramente di croce sull’altare prima del dispiegamento delle tovaglie per accogliere le specie eucaristiche; la croce doveva essere sull’altare, ma in posizione distaccata dalla mensa, per non intralciare la disposizione delle sacre specie.
In Occidente fonti più tarde attestano che la croce veniva portata sull’altare solo nel momento della celebrazione eucaristica; Innocenzo III riferisce nel De Sacro Altaris Mysterio: “inter duo candelabra in altari crux collocatur media”[49]; nell’Ordo Bernhardi si specifica che durante il canto della Messa “crux a mansionariis super altare maius ponitur” [50]. Abbiamo inoltre l’attestazione che in alcune diocesi di Francia fino al secolo XVI vigeva la norma che fosse il celebrante a portare la croce sull’altare[51]. Il grande numero di croci astili realizzate nel Medioevo in modo da poter essere staccate dall’asta e che presentano la possibilità di essere infisse su un piedistallo trova forse una ragione anche in questa logica[52]; in proposito il Cӕremonialis Episcoporum fa fede di un utilizzo che prevede una croce mobile, indipendente dall’elemento che la sorregge, allorquando per l’adorazione del Venerdì Santo parla di “staccare la croce dal piedistallo”[53].
La prova di questi usi giustificherebbe il perché di tante rappresentazioni dell’altare senza croce anche nell’inoltrato XV secolo, quando ormai la croce sull’altare durante la Messa è attestata ovunque; è probabile che in alcuni luoghi essa venisse portata all’altare solo in alcuni momenti, giacchè il vero e proprio sacrificio non si compie durante l’arco di tutta la celebrazione, ma solo a momento della consacrazione, né possiamo escludere che in alcune zone per uso antico, o per abuso recente, essa fosse assente o collocata altrove. L’esigenza di rendere visibile la croce durante la “crocifissione incruenta” rappresentata dalla Messa è anche da mettere in connessione coi limiti dell’umana comprensione, per la quale non vi è l’evidenza sensibile del mistero celebrato. Già S. Ambrogio diceva “etsi nunc Christus non videtur offerre, tamen ipse offertur in terris quando corpus Christi offertur”[54]; la rappresentazione visibile diviene quindi anche una naturale esigenza.

Prove di una croce sull’altare in ambito orientale nel V-VI secolo


Un collegamento s’impone con la raffigurazione, sulla pisside del Cleveland Museum of Art, di una mensa d’altare tripode sotto un ciborio, sulla quale si trovano una croce e un libro chiuso[55]; nonostante le difficoltà sulla datazione, che si aggira intorno al secolo V-VI, abbiamo la prova di una croce in posizione centrale rispetto alla mensa, in evidente funzione rituale. Essa si trova inoltre al centro della curva di un altare tripode a sigma, nella posizione opposta al celebrante, che era sempre sul lato retto; non è escluso che la croce avesse un piedistallo proprio ed indipendente dalla mensa; sul ritrovamento della pisside sussistono alcuni dubbi per la sua provenienza da collezione, ma l’ipotesi concordemente avanzata è l’ambito siro-palestinese.
Interrogativi solleva anche la raffigurazione di un sarcofago restituito dalla necropoli di Takadyn, in Asia Minore, che sembra riprodurre un altare sormontato da una croce, sotto un baldacchino ad arco; si nota che la croce rappresentata è dotata di un piedistallo, il che indurrebbe a pensare ad un elemento mobile[56]. La datazione della necropoli e del sarcofago è piuttosto incerta, potrebbe collocarsi nei secoli V, VI.


Di particolare rilievo è la notizia che, nel secolo VI, nelle chiese nestoriane di Mesopotamia, fosse corrente e prescritta la presenza della croce su una mensola soprastante l’altare addossato al muro, il cosiddetto “Katastroma”[57]. Ad esso era rivolto il sacerdote durante la consacrazione. Siamo in presenza di alcuni dati che testimoniano di usi comuni o similari nell’Oriente cristiano antico per un epoca che non oltrepassa il secolo V-VI.

Conclusioni

“Legimus in Veteri testamento quod semper Dominus Moysi et Aron ad ostium tabernacoli sit locutus” scrive Girolamo[58]. Per rivolgersi a Dio e riceverne benedizioni è naturale che ci si indirizzi verso di Lui o verso ciò che indica la Sua presenza e il Suo legame con gli uomini. Nel vecchio rituale del tempio di Gerusalemme il sacrificio e la preghiera erano rivolti verso l’Arca dell’Alleanza e, dopo che l’arca fu depredata, verso la pietra che la sosteneva, la cosiddetta sethiya. Nelle sinagoghe, dove non era possibile sacrificare, si andava per pregare e ci si rivolgeva verso Gerusalemme[59], nella cui direzione era una nicchia contenente i libri sacri, così come l’Arca aveva contenuto le tavole della legge (i ritrovamenti archeologici della sinagoga di Doura Europos hanno reso un esempio di tale nicchia ricavata nel muro con precisa orientazione).

Il sacerdote è mediatore e, nel suo ruolo d’intercessore, non può che rivolgersi a Dio o a ciò che lo figura. Come l’Arca nell’Antico Testamento così la Croce è il simbolo della Nuova Alleanza suggellata da Cristo, del nuovo legame tra Dio e gli uomini. Il mosaico di S. Pudenziana a Roma, dal carattere più liturgico che decorativo, sembra testimoniare particolarmente di questa idea della Croce come ponte fra il divino e l’umano, come unico mezzo per il raggiungimento della Gerusalemme celeste verso cui indirizzarsi[60]. La Croce è il fulcro verso il quale lo sguardo di celebrante e fedeli si “orienta”. Secondo la tesi di Stefan Heid la croce e l’abside assumono in questo caso la funzione di “Oriente ideale” verso cui rivolgere la preghiera, specie negli edifici in cui manca un orientamento “fisico” verso il sorgere del sole, come a Roma[61]. E’ anche ipotizzabile che in antico la croce non obbligasse sempre e comunque ad un rivolgimento diretto verso di essa, ma che essa fosse presente, in posizioni diverse, ma sempre centrali, come segno visibile del rinnovarsi del sacrificio di Cristo sugli altari: un monito per celebrante e fedeli. Per visibilia ad invisibilia. In un contesto eucaristico ove altro è quel che si vede, altro è quel che è, l’immagine del mistero che si realizza ha la sua più che ragionevole collocazione.

E’ comunque un dato di fatto che il rivolgimento verso la croce prevale nella liturgia romana fino a diventare generale almeno a partire dal Basso Medioevo. Non si può forse affermare con certezza la diffusione universale di questa pratica in epoca tardo antica e non è certo che fin dai primi secoli ovunque si sia pregato “versus crucem”. In ambito romano e ravennate tuttavia è probabile che già nel corso del V-VI secolo, nello spazio presbiterale, la croce potesse essere sospesa ad una certa altezza nella navata o nel presbiterio, oppure che fosse collocata in prossimità dell’altare, forse su un piedistallo indipendente dalla mensa[62], oppure, come accennato sopra, che fosse rappresentata nell’abside. Analoghe appaiono le datazioni per l’ambito orientale.
E’ forse possibile che per il rito romano la generalizzazione uniforme degli usi non si sia avuta prima del XII secolo, ma la celebrazione verso la croce o la centrale presenza di essa in ambito liturgico sono difficili da negare già per il secolo V e le testimonianze archeologiche e documentali sembrano andare in tal senso.

Don Stefano Carusi

[47] A. Chavasse, Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentare du “Vaticanus reginensis 316” in Textes liturgiques de l’Eglise de Rome, Paris 1997, p. 98-103 ; Id., La liturgie de la Ville de Rome du Vᵉ au VIIᵉ siècle, Roma 1993 (Studia Anselmiana 112 - Analecta liturgica 18), p. 191, l’autore rimanda questa pratica liturgica del Venerdì Santo alla liturgia titolare.
[48] Aug., serm. CCXXVIII B (PL 46, 827-828). Miscellanea Agostiniana, vol. I, Sancti Augustini sermones post Maurinos reperti, ed. G. Morin O.S.B., Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1930, pp. 18-20.
[49] Innoc. III, De Sacro Alt. Myst., II, c. 21 (PL 217, 811). Il sacrosanto mistero dell’altare (De sacro altaris mysterio), a cura di Stanislao Fioramonti, Città del Vaticano 2002 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 15).
[50] Ludwig Fischer (ed.), Bernhardi cardinalis et Lateranensis ecclesiae prioris Ordo Officiorum Ecclesiae Lateranensis, München u. Freising 1916, p. 98; M. Righetti, Manuale, p. 536 ss.
[51] Ibidem.
[52] Già l’Ordo Romanus I, 125-126 (Andrieu), parla di “cruces portantes”, sebbene la loro funzione non sia stata del tutto chiarita.
[53] Cӕremonialis Episcoporum, l. II, cap. XXV, 23 (ed. 1752).
[54] Ambr., Explan. psalm. XII, XXXVIII, 25, 3 (ed. Petschenig, CSEL 64/6).
[55] Archer St. Clair, The Visit to the Tomb:Narrative and liturgy Three Early Christian Pyxides, in Gesta, t. 18 (1979) p. 131 ss., fig. 9.
[56] Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980, p. 305.
[57] Si tratta delle omelie dello Pseudo-Narsai, cfr. Richard Hugh Connolly, The liturgical homilies of Narsai, Cambridge 1909, Cfr. Sebastian P. Brock, Diachronic aspects of syriac word formation : an aid for dating anonymous texts, in V Symposium Syriacum (Katholieke Universiteit, Leuven, 29-31 août 1988), Roma 1990, pp. 321-330, (OCA 236); Louise Abramowski, Die liturgische Homilie des Ps. Narses mit dem Meßbekenntnis und einem Theodor-Zitat, in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 78 (1996), p. 87-100.
[58] Hier., epist. XVIII A (ad Damasum), 8, 1 (CSEL 54/1).
[59] Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano 1994, pp. 16 e ss.
[60] S. Heid, Kreuz, Jerusalem, Kosmos, Munster 2001, pp. 169 e ss.
[61] S. Heid, Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit. in Rivista di Archeologia Cristiana 82 (2006).
[62] Quest’ultima soluzione risolverebbe, nel caso di Roma, il famoso nodo di una croce sull’altare prima dell’attestato dispiegamento delle tovaglie da parte dei diaconi.

Pubblicato da Disputationes Theologicae

sabato 20 aprile 2024

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana Testimonianze storiche ed archeologiche (I)




" da Disputationes Theologicae"
Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.


Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.

E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].

Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti.

Status quaestionis

La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.

E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.

In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).

Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.
Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.

Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi

Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant”[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.

Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.
Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo”[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.
Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].
L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce, pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.
La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].

Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur”[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.

Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalis di Roma e Ravenna

Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani”[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dal Liber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.
Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]: sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.
Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].

La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31]. L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.

Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nella Basilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari, ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.
Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare “super locum Beati Pauli”[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis”[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri”[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare”[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore”[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore”[39], la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.

Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40]; per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro”[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42].

La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.
L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità.

Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit”[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat”[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].

...CONTINUA

* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine


[1] Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp. 349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine), pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp. 387-453 ; Id., De la valeur historique du dogme, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp. 229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507. Cfr. Pierre Gauthier, Newman et Blondel : tradition et développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio fidei, 147) ; Rèné Virgoulay, Blondel face à l'historicisme : Histoire et dogme, in De Renan à Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. Il problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel (febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-Pierre Sardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la France, 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.
[2] Cfr. Martin Klöckener, Conversi ad Dominum in Augustinus-Lexikon, t. 1, col. 1280-1282 ; Id. Die Bedeutung der neu entdeckten Augustinus-Predigten (Sermones Dolbeau) für die liturgiegeschichtliche Forschung, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 153-154 ; François Dolbeau, Augustin d'Hippone, Vingt-six sermons au peuple d'Afrique retrouvés à Mayence, Paris 1996, pp. 171-175 e 623 ; Noël Duval, Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Rome, 1971 (BEFAR 218 bis), pp. 303 ss. e 350-351 ; Id., Les installations liturgiques dans les églises paléochrétiennes, in Hortus artium medievalium 5, Zagreb (1999), p. 15 ; Id., Commentaire topographique et archéologique de sept dossiers des nouveaux sermons, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 196-198; Id., Architecture et liturgie : les rapports de l’Afrique et de l’Hispanie à l’époque byzantine, in V reunió d’arqueologia cristiana hispànica (Cartagena, 1998), Barcelone, 2000, p. 16; Raymond Étaix, Le sermon 17 de saint Césaire d'Arles. Texte complet, in Philologia sacra. Biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem siebzigsten Geburtstag, t. 2, Fribourg, 1993 (AGLB 24), pp. 560-567; Sible de Blaauw, In vista della luce, in Arte medievale, le vie dello spazio liturgico, a cura di Paolo Piva, Milano 2010, pp. 15-45.
[3] Marius Lepin, L’idée du Sacrifice de la Messe, Parigi 1926, pp. 37-94.
[4] Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine, Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in Mario Righetti, Manuale di storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene essa mancasse di un solido fondamento archeologico.
[5] Michel Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Moyen Age 2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.
[6] Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.
[7] Ibidem, p. 108, 109.
[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1961-1969, vol. VII, p. 864 s.
[9] Evodio Assemani, Acta Hipparchi, Philothei et sociorum, in Acta sanctorum martyrum orientalium et occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.
[10] Ibidem, p. 125.
[11] Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945), p. 52.
[12] Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutis. Gebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA 115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severern bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia Einzelschriften 185).
[13] Tert., Apol. XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).
[14] F.J. Dölger, Sol Salutis.
[15] Klaus Gamber, Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.
[16] Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles 1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson, La Croce, p. 53.
[17] [Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).
[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).
[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL 1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.
[20] E. Peterson, La Croce, p. 63.
[21] Mt, 24, 30.
[22] Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.
[23] Min. Fel., Oct., IX, 4 (ed. B. Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann, Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma 1992, pp. 59-60.
[24] Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo, Rocca San Casciano 1962, p. 24.
[25] cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacra, passim.
[26] Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp. 172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann, GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit Basilicam, Leuven 2004.
[27] Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.
[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935, pp. 179-186.
[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss.
[30] Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p. 327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978 (Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)
[31] S. de Blaauw, Cultus et Decor, t. 2, p. 470 e ss.
[32] Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp. 566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.
[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.
[34] LP, 34, 21.
[35] LP, 62, 2.
[36] LP, 59, 2.
[37] LP, 98, 49 .
[38] LP, 98, 87.
[39] LP, 105, 56.
[40] LP, 48, 2-3.
[41] LP, 53,7.
[42] LP, 98, 50; 98, 86.
[43] Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.
[44] Ibidem.
[45] G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello”, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.


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