Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

venerdì 29 marzo 2024

Omelia di S.E.R. Mons. Carlo Maria Viganò per il solenne Pontificale della Messa Crismale nel Giovedì Santo - 28 Marzo 2024



Et ego dispono vobis sicut disposuit mihi Pater meus regnum.
Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me.

Lc 22, 29



La solenne Liturgia del Giovedì Santo ci introduce nel cuore dei Misteri pasquali e costituisce una sorta di parentesi tra il lungo itinerario quaresimale – culminato nelle due ultime Domeniche – e la celebrazione della Passione e Morte del Signore, che avrà luogo domani. Due sono i grandi momenti che ci riuniscono intorno all’altare: il primo, la Messa Crismale; il secondo, la Messa in Cœna Domini. In entrambi, la Chiesa richiama la nostra attenzione sull’Ordine Sacro, sicché a giusto titolo possiamo considerare il Giovedì Santo come una festa in onore di Cristo Sommo Sacerdote e di riflesso di tutti i sacri Ministri, che all’unico Sacerdozio di Cristo attingono il proprio Ministero.

Nella Messa Crismale il Vescovo – che possiede la plenitudo Sacerdotii – raccoglie intorno a sé il proprio Presbiterio per consacrare gli Olii Santi, necessari all’amministrazione dei Sacramenti: Consecrare tu dignare, Rex perennis patriæ, hoc olivum, signum vivum, jura contra dæmonum (Hymn. O Redemptor). Nella Messa in Cœna Domini celebriamo l’istituzione del Santo Sacrificio, della Santissima Eucaristia e dello stesso Sacerdozio, la cui sacra Unzione richiama Cristo, l’Unto del Signore. La composta solennità di questi riti – che un susseguirsi compulsivo di riforme bugniniane, portate avanti tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta dai fautori del Novus Ordo, ha in gran parte stravolto e sfigurato – ci riporta al Cenacolo e a quelle parole che il Redentore rivolge ai Suoi Discepoli, in un momento di grande oppressione e paura. Sono le ore in cui incombe sui Dodici quel senso di assedio e di pericolo imminente che anche noi oggi sperimentiamo; le ore in cui i ripetuti tentativi dei Giudei di catturare e uccidere il Signore – sino ad allora falliti – stanno per avere successo, a causa del tradimento di Giuda; le ore in cui sembra inevitabile il trionfo dei malvagi, riusciti a corrompere un Apostolo per imprigionare, processare e mettere a morte il Figlio di Dio, pochi giorni prima accolto in Gerusalemme dalla folla festante come Re d’Israele. Tacciono gli Osanna dei fanciulli, la folla è scomparsa, nessuno pare ricordarsi dei miracoli compiuti dal Maestro negli ultimi tre anni e i rami di palme giacciono abbandonati ai lati della via che conduce al Tempio.

Non è difficile, in questa nostra fase cruciale della Storia dell’umanità e della Chiesa, immedesimarci negli Apostoli, oppressi da quella sensazione di ineluttabilità del Male che cerca di strappare dai cuori la speranza e instilla lo sconforto e la delusione, dopo la gioia e l’entusiasmo dell’entrata nella Città Santa. Anche il Corpo Mistico di Cristo, che nel corso dei secoli ripercorre le tappe del Ministero pubblico del suo Capo divino, ha vissuto quegli entusiasmi dei Discepoli per la predicazione e i miracoli compiuti, oggi quasi eclissati nell’abbandono delle folle, nella cospirazione del Sinedrio pronto a mandare le proprie guardie, nel tradimento di nuovi Giuda. Questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre (Lc 22, 53), dirà fra qualche ora Nostro Signore ai sommi sacerdoti e alle guardie del tempio venuti a catturarLo.

Ma proprio mentre incombe l’impero delle tenebre – che stoltamente, ma umanamente gli Apostoli credono vittoriose – il Signore fa preparare il Cenacolo in una grande sala sontuosamente addobbata, per celebrarvi la Pasqua. Un luogo nel quale, dopo la Crocifissione del Maestro, vedremo riunirsi nuovamente i Discepoli assieme alla Vergine Madre, con le porte sprangate e le imposte chiuse per paura dei Giudei. E sui quali cinquanta giorni dopo, januis clausis, lo Spirito Santo discenderà, compiendo ciò che era stato prefigurato nella consacrazione del tempio da parte del re Salomone (2 Par 7, 1).

La serenità e la dignità con cui il Salvatore affronta le ultime ore prima della Passione disorienta gli Apostoli, che non solo non comprendono cosa si vada preparando, ma sono talmente confusi da chiedersi chi di loro doveva essere considerato il maggiore (Lc 22, 24), mentre Pietro si dice pronto ad affrontare il carcere e la morte (ibid., 33), inconsapevole del triplice rinnegamento che di lì a poco avrebbe compiuto: Non cantabit hodie gallus, donec ter abneges nosse me, abbiamo sentito ieri nel Passio.

Voi dunque, rinchiusi come gli Apostoli in questa cappella attorno al vostro Vescovo per celebrare la Pasqua, vi sentite assediati e in pericolo, ricercati come discepoli dello stesso Gesù Nazareno che le guardie stanno per arrestare. E forse siete stupiti anche voi, carissimi fratelli, per la serenità con cui vi esorto ad affrontare gli eventi con lo stesso spirito di umile ed obbediente abbandono alla volontà di Dio. Ecce Satanas expetivit vos ut cribraret sicut triticum: Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano (Lc 22, 31). La prova si avvicina, perché senza cimentarsi nell’agone non è possibile conseguire il bravio – il premio della vittoria – e senza passare per l’ignominia della Croce non vi può essere gloria della Resurrezione. Ed è prova forse meno cruenta di quella che dovettero attraversare gli Apostoli, ma dinanzi alla quale occorre lo stesso stato d’animo che il Signore intima loro di avere: Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem (Lc 22, 46). Rimanete svegli e pregate.

In un mondo ostile a Cristo – ieri come oggi – l’umiltà del sacerdote è l’unico presidio per non cedere alla tentazione: l’umiltà di riconoscersi fragili e incapaci di fronteggiare gli eventi avversi, se non grazie all’aiuto di Dio che possiamo ottenere solo con la vigilanza e con la preghiera. Ce lo dice Nostro Signore: Il più grande fra di voi sia come il minore e chi governa come colui che serve (Lc 22, 26). Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi (Gv 13, 13-15). La Liturgia del Giovedì Santo prevede la ripetizione di quel gesto antico e solenne, nella consapevolezza tanto della nostra umana fragilità, quanto dell’incommensurabile dignità del Sacerdozio che ci è stato conferito da Cristo. Nos autem gloriari oportet in cruce Domini Nostri Jesu Christi, canteremo questa sera nell’Introito della Messa in Cœna Domini, e nella luce sfolgorante del Sacerdozio di Cristo intoneremo al suono delle campane, dopo il silenzio quaresimale, il Gloria in excelsis che tacerà ancora fino alla Veglia pasquale. Piccoli squarci di cielo che riescono a riportarci al cospetto della Maestà divina e a farci contemplare le cose del mondo sub specie æternitatis, e quindi a vederle nella loro dimensione transeunte.

Le Messe di oggi ci ricordano, ciascuna con i suoi riti antichissimi, l’importanza e l’indispensabilità del Sacerdozio, che potremmo considerare come una sorta di καθῆκον (2 Tess 2, 6), che trattiene ed impedisce che si manifesti l’Anticristo. Nel corso della Storia esso fu identificato con la Chiesa, con il Papato, con il Sacro Romano Impero. Ma se San Paolo ci dice che il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene (ibid., 7), possiamo comprendere perché il Sacerdozio cattolico è fatto oggetto della furia di Satana: senza sacerdoti non vi è Messa, e senza Messa non vi è offerta del Santo Sacrificio. D’altra parte, è lo stesso profeta Daniele che ci spiega come, sotto il regno infernale dell’Anticristo, tacerà il sacrificio perenne. Se dunque il Sacerdozio non costituisce il καθῆκον, di sicuro lo è la Santa Messa, intrinsecamente legata ad esso.

Sant’Agostino spiega: La prima persecuzione (quella dei Cesari), fu violenta: per costringere i cristiani a sacrificare agli idoli, si proscrivevano, si tormentavano, si scannavano. La seconda, quella attuale, è insidiosa e ipocrita: gli eretici ed i fratelli sleali ne sono gli autori. Più tardi ne succederà un’altra, più funesta delle precedenti; perché aggiungerà la seduzione alla violenza, e questa sarà la persecuzione dell’Anticristo. Nel corso dei secoli i fedeli del Signore hanno subìto la persecuzione dei pagani, poi quella degli eretici e dei modernisti, infine quella sottile e seducente dell’apostasia: prima il culto dei falsi dèi, poi quello di un Dio del Quale si è adulterata l’essenza e infine quello di Satana. E quel che è inflitto ai battezzati sarà a maggior ragione fatto subire ai sacerdoti, mediante la seduzione dell’Anticristo: affascinante nell’aspetto e nell’eloquio, socialmente affermato, capace di indurre a seguirne il potere e il prestigio fino ad accettare le sue bestemmie e i suoi orrendi crimini. E la Bestia aprì la sua bocca in bestemmie contro Dio, a bestemmiare il suo nome e il suo tabernacolo e gli abitatori del cielo (Ap 13, 6). E questo nel silenzio dell’autorità: Tutte le nazioni si accordarono per obbedire (1Mac 1, 44). Tre anni e mezzo di inferno in terra: un tempo che ci sembrerà non finire mai, ma che sarà certamente limitato e durante il quale dovremo fronteggiare – se già non lo stiamo facendo – quella stessa sensazione di oppressione e assedio che fu degli Apostoli nei tre giorni della Passione, e che dopo la discesa del Paraclito si mutò in eroica testimonianza portandoli ad affrontare i tormenti del Martirio.

Vigilate et orate, cari fratelli. Vigilate rimanendo saldi nella fede e pregate il Signore di non lasciarvi sedurre dal fascino dell’uomo iniquo e doloso, del leone che vaga cercando la preda da sbranare. Attingete la vostra forza da Cristo e dal Suo eterno Sacerdozio del quale il vostro è perpetuazione: Tu es sacerdos in æternum (Sal 109, 4). È Cristo Pontefice che celebra la liturgia celeste, e che dall’altare della Croce intona l’antifona che dà inizio al rito: Deus, Deus meus: quare me dereliquisti? Sono le stesse parole che leggiamo nell’Ufficio di questi giorni benedetti, che riecheggiano con Geremia il dolore e lo sconforto dell’Eterno Padre nei riguardi di Gerusalemme infedele, e con Ezechiele l’ira per il tradimento dei Suoi ministri: Figlio dell’uomo, vedi che cosa fanno costoro? Guarda i grandi abomini che la casa d’Israele commette qui per allontanarmi dal mio santuario! Ne vedrai altri ancora peggiori (Ez 8, 6). In questa terribile visione di Ezechiele i sacerdoti del Signore adorano Baal, demone cui sono offerti i bambini in sacrificio: difficile non scorgere negli orrori del mondo d’oggi la stessa abominazione, gli stessi tradimenti, la stessa apostasia, le stesse offese alla Maestà di Dio e la medesima collera dell’Altissimo.

Quando guardiamo lo stato della Chiesa, dei nostri seminari, dei conventi, delle comunità religiose e le conseguenze delle infedeltà della Gerarchia, non possiamo ignorare le parole terribili del Signore indignato: Profanate pure il tempio, riempite di cadaveri i cortili (Ez 9, 7). È Dio stesso, nella Sua santa ira, che ordina ai Suoi nemici di compiere le Sue vendette sulle membra infedeli della Chiesa, che nel segreto delle stanze del tempio adorano gli idoli del mondo. Riempite di cadaveri i cortili: i chiostri dei monasteri, le navate delle chiese sono cosparsi dei cadaveri di vocazioni perdute, di religiosi mancati, di fedeli fuggiti.

Rimane il pusillus grex, il καθῆκον del Sacerdozio cattolico, che nessuna potenza terrena né infernale potrà mai cancellare dalla faccia della terra. Voi custodite in voi stessi, nelle vostre stesse carni, il pignus, il tesoro dato in pegno alla Chiesa da Cristo Sommo Sacerdote: finché avrete la forza di tenere un’ostia e un calice tra le mani e di pronunziare le parole della Consacrazione, voi avrete il potere di rinnovare il Sacrificio di Cristo che ha distrutto per sempre la tirannide di Satana sulle anime. Finché potrete levare la vostra mano a benedire, a santificare, ad assolvere, l’opera del demonio potrà apparire vittoriosa, ma non riuscirà mai a prevalere.

Sappiamo che l’Anticristo – e tutti i suoi precursori con lui – sono maestri di seduzione. Ma seduzione è anche corruzione, capacità di trascinare comprandoci, come fu comprato l’Iscariota. Hai visto, figlio dell’uomo, quello che fanno gli anziani della casa d’Israele nelle tenebre, ciascuno nella stanza recondita del proprio idolo? Vanno dicendo: «Il Signore non ci vede, il Signore ha abbandonato il paese» (Ez 8, 12). Ma il Signore vede le loro colpe e non abbandona la Chiesa, perché essa è Suo Corpo Mistico, parte di Lui, Sue membra vive e sante. Tutto ciò che cadrà, tutto ciò che apparirà dietro il muro crollato nella sua corruzione e nei suoi tradimenti non impedirà la vittoria finale, ed anzi sarà di sprone a tutti noi per rimanere fedeli al nostro Dio e Signore proprio quando il tempio sembrerà vuoto e l’altare deserto.

Mentre i traditori e i malvagi cercano di nascondersi allo sguardo di Dio nei recessi delle loro conventicole, i Discepoli si rifugiano nel Cenacolo per sfuggire ai Giudei. I primi confidano nelle creature e nel mondo di cui è principe Satana; i secondi nel Creatore e nel Redentore, vincitore del mondo. Rimaniamo dunque in questo mistico Cenacolo, in fraterna concordia, vigilando e pregando assieme alla Vergine Santissima, Madre della Chiesa e Madre del Sacerdozio, mentre passa l’Angelo sterminatore. Passerà l’ora delle tenebre. E così sia.

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

28 Marzo 2024
Feria V in Cœna Domini

Giovedì santo. L’ abluzione dell’altare papale di S. Pietro

 

Altare della Confessione



Carissimi amici e lettori,

un interessante articolo molto profondo e stato scritto da Francesco G. Tolloi - e pubblicato nel 2016 su Rerum Liturgicarum e ripreso da diversi blog, anche noi che pubblichiamo questo delizioso lavoro ci complimentiamo con l'autore, per la precisione e la minuzie che ne esalta il racconto - di un singolare aspetto della Settimana Santa che si svolgeva a Roma in tempi non sospetti,  dove  fede e  tradizione non erano ancora messe all'indice da chi la doveva custodire e trasmetterla fedelmente. (A.P)




Una breve premessa.


Tra le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. L’anonimo autore di un piccolo volume , ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo particolare costume liturgico, ci riferisce che – fin dalle testimonianze da lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa cerimonia: talmente numerosa era la moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra le ali di folla [1]. L’allora popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898 – pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni, laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del basamento delle colonne berniniane [2]. Altrettanto – sebbene con un’incisione, questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci – si evince da «L’illustrazione popolare».


Descriverò qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.


L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -



L'abluzione dell'altare papale (Paolocci)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -

Svolgimento.


Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il clero beneficiato e i restanti canonici. Il canonico officiante, sopra il rocchetto, portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici. Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares.


Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio romano in uso al clero della basilica vaticana [3].


Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31), sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si proseguiva “senza canto”[4]. Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa, spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che questi aspergilli erano dei serti fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella opportunamente composti ed intrecciati [5]. Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano, dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in fine, i seminaristi.


Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i cappellani detto il versetto Christus factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto – cui faceva seguito l’orazione Respice, quaesumus, Domine.


Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza – facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia, della Croce e del santo Sudario.

Origine e qualche riferimento storico.


Decisamente diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare le origini dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio israelitico (in particolare Esodo XXIX), a fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne vorrebbe rintr
acciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati, trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6]. Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti, in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente facilitato e agevolmente sarebbe venuto ad insinuarsi nelle incombenze da farsi in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati col mero pretesto della comodità [7].


Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto, voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.


Se prima ho fatto cenno all’ampio concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):


I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.





Tra i testi più vetusti ove si trova contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale: “Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur, vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8].


Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio: “Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9].


L’autore citato di La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6) poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave simbolica, e non una mera - parafrasando qui il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma anche solo convincente.


Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+ 856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10]. Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo rito [11]. Quanto alla menzione di tale uso liturgico nell’ambito degli Ordines romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu). La redazione di tale Ordo rimonta al X secolo: “Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa Domino sacrata purificentur” [12]. Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e – infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il giorno dopo, nel venerdì in Parasceve, situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni luoghi esso si compiva in camice e stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta. Diversità si riscontra anche nell’uso degli aspergilli: chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia – che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla mensa mondata dei ceri in forma di croce [13]. Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.


Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani, quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta, inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito sia stato ristabilito appena nel 1635 [14]; a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco fornito dal vescovo di Porto.


Quasi a voler frenare questo decadimento credo si possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII – quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani dell’antica osservanza e dei domenicani[15].


Una brevissima conclusione.


Qui mi sono limitato – e spero almeno di essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano: certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita analisi non sono certamente pochi. La messe documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa. Raccoglierla e confrontarla in modo sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della memoria ne pereat.


Tu autem in sancto habitas, laus Israel!


Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com




[1] La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome, Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.
[2] «La Tribuna illustrata della Domenica», anno VI, n. 15, 10 aprile 1898.
[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp. 260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.
[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.
[5] Idem, p. 100.
[6] R. HOSPINIANUS, De Festis christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.
[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise, Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..
[8] De eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.
[9] Homilia VIII, de Coena Domini, in P.L., t. LXXXVIII, col 623.
[10] De institutione clericorum, cap. XXXVI, De Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.
[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es. E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss. (Lib. IV, cap. XXII).
[12] M. ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.
[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.
[14] La cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.
[15] Per una compiuta descrizione dell’uso domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain, 1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani, debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..

martedì 26 marzo 2024

La Passione di Cristo nella vita di San Paolo della Croce




Gli era stata impressa fìsicamente nel cuore dal Signore. Il fatto straordinario è narrato da Paolo stesso a Rosa Calabresi, sua confidente e discepola spirituale.

« Un Venerdì Santo, mentre stavo pregando avanti al Santo Sepolcro, Gesù si degnò di stamparmi nel cuore la sua Santissima Passione, e subito tre coste sul cuore si alzarono. Perché se no, non avrei potuto resistere, né vivere.

« Tutti gl’istrumenti della sua Passione me li scolpi nel cuore, e, in mezzo ad esso, il Santo Segno Jesu Christi Passio, anzi con la sua Passione m’impresse nel cuore anche i dolori della sua cara Madre.

« Oh, che dolori provavo, oh, che amore! Un misto di estremo dolore e di eccessivo amore! Que­ st’amorosa e dolorosa impressione della Passione mi fa gemere massime dal giovedì sera fino alla domenica di ciascuna settimana » (Rom. 1997).

Questo fenomeno eccezionale delle tre coste ar­ cuate sopra il cuore, fu accertato dopo la morte di Paolo, alla presenza di una sessantina di persone ragguardevoli e di tutta la Comunità dei SS. Giovanni e Paolo, quando, prima della sepoltura, il notaio stilò l’atto di ricognizione delle spoglie del grande privilegiato e apostolo della Croce.

« Mi pareva di stare in Paradiso! »

A tale straordinario favore, fece seguito un altro non meno eccezionale.

« Un giorno — narra ancora Paolo — dissi al Si­gnore: Signore, nascondetemi nelle vostre Piaghe, perché io non posso stare senza fare dimostrazioni! Allora il SS.mo Crocifisso, avanti a cui oravo, staccò le braccia dalla croce, e mi abbracciò stretto stretto, e mi mise al suo SS.mo Costato, ove mi tenne per tre ore. Oh, mi pareva di stare positivamente in Paradiso! » (Rom. 1997).

«Mi pareva di stare in Paradiso! ». Qui è tutto Paolo della Croce: abbracciato al Crocifisso, men­tre beve torrenti di amore alla Piaga del Sacro Co­ stato. Davvero, il Crocifisso è il suo Paradiso!

Matrimonio spirituale

Fosse bastato questo! L’amore al Crocifisso ormai lo divorava e consumava incessantemente, struggendolo con la brama d’immedesimarsi con Lui piagato e sanguinante.

Il Martire del Calvario, se non volle vederlo morire di puro amore, dovette unirlo a sé con l’unione più sublime che conosca la mistica cristiana: il matrimonio spirituale.

L’avvenimento fu celebrato con solennità il 21 novembre 1723, nell’incantevole solitudine del monte Argentaro.

Mentre immerso nell’orazione stava tutto raccolto in Dio, con giubilo grande del suo spirito, gli apparve la Vergine Immacolata.

Era bella e sorrideva ; aveva il Bambino Gesù in braccio.

Apparvero Angeli e Santi, fra i quali riconobbe S. Paolo Apostolo, S. Giovanni Evangelista, Sant’Elisabetta, S. Giovanni della Croce, S. Teresa d’Avila e S. Maria Maddalena de’ Pazzi.

Si buttò con la faccia a terra, e pensava al motivo di quella visione eccezionale. La Madonna gli spiegò il movente della visita e terminò dicendo:

« Paolo, sei contento di sposarti misticamente col Divin Verbo? ».

Non rispose. In cuor suo però pensava che non era degno di ricevere simile grazia. Allora venne sollevato da terra dagli Angeli, che lo confortaro­ no a ricevere l’anello del mistico matrimonio.

In quel momento la Madonna gli si accostò, e gli pose in dito un anello d’oro prezioso, tutto in­tarsiato con gli strumenti della Passione. Gesù Bambino, sorretto dalla Vergine, fini di infilar­ glielo.

Dopo questa solenne cerimonia la Regina del cielo gli disse:

« Paolo, da questo giorno, nel quale ti sei unito in mistico matrimonio col mio Divin Figlio, devi sempre ricordarti della sua acerbissima Passione e dell’amore che porta all’anima tua».

Uguale esortazione gli fecero in coro gli Angeli e i Santi presenti.

L’estasi si protrasse a lungo, finché la visione scomparve, lasciandolo inondato di gioia celeste.

Quando narrava questo favore a Rosa Calabresi, terminava il racconto piangendo di tenerezza per la grazia ricevuta (Rom. 2009). Dopo la quale Paolo, unito inseparabilmente al suo Amore Crocifisso, poteva ripetere con l’Apostolo:

« Sono crocifisso con Cristo; e non vivo più io, ma Cristo vive in me » (Galat. 2, 19-20).

« Un Dio morto per me! »

Conseguenza naturale di questi doni fu che non potesse fare a meno di parlare spesso e con fuoco del suo Amore Crocifisso.

Nelle missioni, quando dettava la meditazione della Passione di Gesù, le sue parole erano come punte di spada che penetravano nel profondo del cuore. Si accendeva in volto e con gli occhi grondanti lacrime esclamava con accento pieno di ammirazione e di mistero:

« Un Dio morto per mei Un Dio flagellato per mei Un Dio legato per mei ».

E il popolo prorompeva in un profluvio di pianto. Non era possibile resistere perché, dice un teste con frase lapidaria, « avrebbe fatto struggere anche i marmi per la compassione e la compunzione » (Rom. 836. Vetr. 870).

Nella città di Camerino, per la grande folla accorsa, dovette predicare in piazza. Il suo compagno di missione, Padre Gianmaria, notò che quando iniziò a parlare della Passione del Signore, tutti presero « a piangere dirottamente, come si piange alla morte del figlio primogenito » (Vetr. 168).

Ad Ischia, la sera che parlò di Gesù coronato di spine, fece dei colloqui così teneri con Cristo, mostrando ora la sua corona, ora il suo sangue e le sue piaghe aperte, che il popolo non potè trattenere le lacrime. A un certo punto prese la corona di spine del Signore e ponendosela sul capo esclamò:

«A me si conviene questa corona, non a voi, Signore! ».

E se la pressò cosi fortemente in testa che ne usciva sangue. Le lacrime e i singhiozzi aumentarono. Quando terminò la predica, i pianti continuarono in chiesa ancora per mezz’ora. Nel ritornare a casa, per le strade si sentiva solo piangere e sospirare (Rom. 462).

« Io ho convertito tanti peccatori col Crocifisso »

Non tralasciava mai nelle missioni la predica del Cristo Morto. In essa riusciva cosi efficace, che gli uditori non sapevano trattenere i gemiti «tanto che talvolta, per farli quietare, bisognava che si intonassero le Litanie, o altro cantico spirituale, e talora persino suonare i campanelli per intimare silenzio » (Rom. 836).

E dire che non diceva cose alte o concetti peregrini con ricercatezze letterarie; annunziava solo a il Verbo della Croce» con semplicità, dicitura piana, disadorna, ma con tanta forza di convinzione e con tale abbondanza di fervore che riempiva tutti di stupore e spremeva lacrime anche dai cuori di pietra.

La predica della Passione di Gesù egli la considerava «l’anima e il midollo delle missioni» (Rom. 1017).

«Io ho convcrtito tanti peccatori col Crocifisso — diceva — che non ne so dire il numero! » (Rom. 1017).

« Si tocca sempre più con mano che il mezzo più efficace per convenire le anime anche più perdute è la Passione di Gesù» (Rom. 1701). E aggiungeva:

« La devozione alla Passione di Gesù Cristo è la strada più facile per salvarsi. Nella Passione di Cristo non ve inganno. Il Crocifisso è un libro dove s’apprende ogni virtù. Per inabissarsi nell’infinito Tutto, la porta deifica è Gesù Crocifisso » (Vetr. 1145, 73. Lett. vol. II, 234, Luca, Spirito, 19).

Non si permise mai di omettere la predica del Cristo Morto, perché allora le ultime renitenze alla Grazia di Dio cessavano. Infatti, nessuno avrebbe potuto resistere alla potenza divina del Sangue e delle Piaghe d’un Dio Crocifisso presentato dall’eloquenza appassionata d’un apostolo come lui.

Apostolo del Crocifisso

Impossibile ripetere quanto operò per diffonde­ re la devozione alla Passione di Cristo. Oltre alla fondazione della Congregazione dei Missionari Passionisti, diede vita alla confraternita della Passione, scrisse migliaia di lettere, in cui tratta di questo argomento, diffuse moltissimi piccoli crocifissi, ne parlava nelle conferenze alle anime che dirigeva nelle vie dello spirito, la inculcava nelle confessioni sacramentali, nelle conversazioni…

Ad Anagni, per esempio, i signori più distinti della città gli fecero visita e lo pregarono di qualche spirituale avvertimento. Disse loro con grazia:

« Fate ogni giorno un po’ di meditazione. Me­ditate specialmente la Passione di Nostro Signore. I primi pensieri della giornata si formino dalla lettura di questo libro: il Crocifisso, se volete passarla bene ».

Quei signori persuasi si dissero:

« Conviene farlo, e principiare una buona volta » (Rom. 2193).

A questo apostolato si era legato con voto, e gli sembrava sempre di avere fatto troppo poco per il suo Amore Crocifisso.

Troppo poco che suscitò le meraviglie dei contemporanei.

lunedì 25 marzo 2024

La morte redentrice di Cristo nel disegno divino della salvezza




Il processo di Gesù

Divisioni delle autorità ebraiche a riguardo di Gesù

595 Tra le autorità religiose di Gerusalemme non ci sono stati solamente il fariseo Nicodemo [Cf ⇒ Gv 7,50 ] o il notabile Giuseppe di Arimatea ad essere, di nascosto, discepoli di Gesù, [Cf ⇒ Gv 19,38-39 ] ma a proposito di lui [Cf ⇒ Gv 9,16-17; ⇒ Gv 10,19-21 ] sono sorti dissensi per lungo tempo al punto che alla vigilia stessa della sua passione, san Giovanni può dire di essi che “molti credettero in lui” anche se in maniera assai imperfetta (⇒ Gv 12,42). La cosa non ha nulla di sorprendente se si tiene presente che all’indomani della Pentecoste “un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (⇒ At 6,7) e che “alcuni della setta dei farisei erano diventati credenti” (⇒ At 15,5) al punto che san Giacomo può dire a san Paolo che “parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge” (⇒ At 21,20).

596 Le autorità religiose di Gerusalemme non sono state unanimi nella condotta da tenere nei riguardi di Gesù [Cf ⇒ Gv 9,16; ⇒ Gv 10,19 ]. I farisei hanno minacciato di scomunica coloro che lo avrebbero seguito [Cf ⇒ Gv 9,22 ]. A coloro che temevano che tutti avrebbero creduto in lui e i Romani sarebbero venuti e avrebbero distrutto il loro Luogo santo e la loro nazione [Cf ⇒ Gv 11,48 ] il sommo sacerdote Caifa propose profetizzando: È “meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera” (⇒ Gv 11,49-50). Il Sinedrio, avendo dichiarato Gesù “reo di morte” (⇒ Mt 26,66) in quanto bestemmiatore, ma avendo perduto il diritto di mettere a morte, [Cf ⇒ Gv 18,31 ] consegna Gesù ai Romani accusandolo di rivolta politica, [Cf ⇒ Lc 23,2 ] cosa che lo metterà alla pari con Barabba accusato di “sommossa” (⇒ Lc 23,19). Sono anche minacce politiche quelle che i sommi sacerdoti esercitano su Pilato perché egli condanni a morte Gesù [Cf ⇒ Gv 19,12; 596 ⇒ Gv 19,15; ⇒ Gv 19,21 ].

Gli Ebrei non sono collettivamente responsabili della morte di Gesù

597 Tenendo conto della complessità storica del processo di Gesù espressa nei racconti evangelici, e quale possa essere il peccato personale dei protagonisti del processo (Giuda, il Sinedrio, Pilato), che Dio solo conosce, non si può attribuirne la responsabilità all’insieme degli Ebrei di Gerusalemme, malgrado le grida di una folla manipolata [Cf ⇒ Mc 15,11 ] e i rimproveri collettivi contenuti negli appelli alla conversione dopo la Pentecoste [Cf ⇒ At 2,23; ⇒ At 2,36; ⇒ At 3,13-14; ⇒ At 4,10; 597 ⇒ At 5,30; ⇒ At 7,52; ⇒ At 10,39; ⇒ At 13,27-28; ⇒ 1Ts 2,14-15 ]. Gesù stesso perdonando sulla croce [Cf ⇒ Lc 23,34 ] e Pietro sul suo esempio, hanno riconosciuto l’“ignoranza” (⇒ At 3,17) degli Ebrei di Gerusalemme ed anche dei loro capi. Ancor meno si può, a partire dal grido del popolo: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” (⇒ Mt 27,25) che è una formula di ratificazione, [Cf ⇒ At 5,28; 597 ⇒ At 18,6 ] estendere la responsabilità agli altri Ebrei nel tempo e nello spazio:

Molto bene la Chiesa ha dichiarato nel Concilio Vaticano II: “Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. . . Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura” [Conc. Ecum. Vat. II, Nostra aetate, 4].

Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo

598 La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che “ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle. . . sofferenze” del divino Redentore [Catechismo Romano, 1, 5, 11; cf ⇒ Eb 12,3 ]. Tenendo conto del fatto che i nostri peccati offendono Cristo stesso, [Cf ⇒ Mt 25,45; ⇒ At 9,4-5 ] la Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei:

È chiaro che più gravemente colpevoli sono coloro che più spesso ricadono nel peccato. Se infatti le nostre colpe hanno tratto Cristo al supplizio della croce, coloro che si immergono nell’iniquità crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono [Cf ⇒ Eb 6,6 ] con un delitto ben più grave in loro che non negli Ebrei. Questi infatti – afferma san Paolo non avrebbero crocifisso Gesù se lo avessero conosciuto come re divino [Cf ⇒ 1Cor 2,8 ]. Noi cristiani, invece, pur confessando di conoscerlo, di fatto lo rinneghiamo con le nostre opere e leviamo contro di lui le nostre mani violente e peccatrici [Catechismo Romano, 1, 5, 11].

E neppure i demoni lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a crocifiggerlo, e ancora lo crocifiggi, quando ti diletti nei vizi e nei peccati [San Francesco d’Assisi, Admonitio, 5, 3].



II. La morte redentrice di Cristo nel disegno divino della salvezza

“Gesù consegnato secondo il disegno prestabilito di Dio”

599 La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio, come spiega san Pietro agli Ebrei di Gerusalemme fin dal suo primo discorso di Pentecoste: “Egli fu consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (⇒ At 2,23). Questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno “consegnato” Gesù (⇒ At 3,13) siano stati solo esecutori passivi di una vicenda scritta in precedenza da Dio.

600 Tutti i momenti del tempo sono presenti a Dio nella loro attualità. Egli stabilì dunque il suo disegno eterno di “predestinazione” includendovi la risposta libera di ogni uomo alla sua grazia: “Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d’Israele [Cf ⇒ Sal 2,1-2 ] per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse” (⇒ At 4,27-28). Dio ha permesso gli atti derivati dal loro accecamento [Cf ⇒ Mt 26,54; ⇒ Gv 18,36; ⇒ Gv 19,11 ] al fine di compiere il suo disegno di salvezza [Cf ⇒ At 3,17-18 ].

“Morto per i nostri peccati secondo le Scritture”

601 Questo disegno divino di salvezza attraverso la messa a morte del Servo, il Giusto, [Cf ⇒ Is 53,11; 601 ⇒ At 3,14 ] era stato anticipatamente annunziato nelle Scritture come un mistero di redenzione universale, cioè di riscatto che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato [Cf ⇒ Is 53,11-12; 601 ⇒ Gv 8,34-36 ]. San Paolo professa, in una confessione di fede che egli dice di avere “ricevuto”, che “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture ” (⇒ 1Cor 15,3) [Cf ⇒ At 3,18; ⇒ At 7,52; ⇒ At 13,29; 601 ⇒ At 26,22-23 ]. La morte redentrice di Gesù compie in particolare la profezia del Servo sofferente [Cf ⇒ Is 53,7-8 e ⇒ At 8,32-35 ]. Gesù stesso ha presentato il senso della sua vita e della sua morte alla luce del Servo sofferente [Cf ⇒ Mt 20,28 ]. Dopo la Risurrezione, egli ha dato questa interpretazione delle Scritture ai discepoli di Emmaus, [Cf ⇒ Lc 24,25-27 ] poi agli stessi Apostoli [Cf ⇒ Lc 24,44-45 ].

“Dio l’ha fatto peccato per noi”

602 San Pietro può, di conseguenza, formulare così la fede apostolica nel disegno divino della salvezza: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato, già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi” (⇒ 1Pt 1,18-20). I peccati degli uomini, conseguenti al peccato originale, sono sanzionati dalla morte [Cf ⇒ Rm 5,12; ⇒ 1Cor 15,56 ]. Inviando il suo proprio Figlio nella condizione di servo, [Cf ⇒ Fil 2,7 ] quella di una umanità decaduta e votata alla morte a causa del peccato, [Cf ⇒ Rm 8,3 ] “colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (⇒ 2Cor 5,21).

603 Gesù non ha conosciuto la riprovazione come se egli stesso avesse peccato [Cf ⇒ Gv 8,46 ]. Ma nell’amore redentore che sempre lo univa al Padre, [Cf ⇒ Gv 8,29 ] egli ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (⇒ Mc 15,34; 603 ⇒ Sal 22,2). Avendolo reso così solidale con noi peccatori, “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (⇒ Rm 8,32) affinché noi fossimo “riconciliati con lui per mezzo della morte del Figlio suo” (⇒ Rm 5,10).

Dio ha l’iniziativa dell’amore redentore universale

604 Nel consegnare suo Figlio per i nostri peccati, Dio manifesta che il suo disegno su di noi è un disegno di amore benevolo che precede ogni merito da parte nostra. “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (⇒ 1Gv 4,10) [Cf ⇒ 1Gv 4,19 ]. “Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (⇒ Rm 5,8).

605 Questo amore è senza esclusioni; Gesù l’ha richiamato a conclusione della parabola della pecorella smarrita: “Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (⇒ Mt 18,14). Egli afferma di “dare la sua vita in riscatto per molti ” (⇒ Mt 20,28); quest’ultimo termine non è restrittivo: oppone l’insieme dell’umanità all’unica persona del Redentore che si consegna per salvarla [Cf ⇒ Rm 5,18-19 ]. La Chiesa, seguendo gli Apostoli, [Cf ⇒ 2Cor 5,15; ⇒ 1Gv 2,2 ] insegna che Cristo è morto per tutti senza eccezioni: “Non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto” [Concilio di Quierzy (853): Denz. -Schönm.,624].

III. Cristo ha offerto se stesso al Padre per i nostri peccati

Tutta la vita di Cristo è offerta al Padre

606 Il Figlio di Dio “disceso dal cielo non per fare” la sua “volontà ma quella di colui che” l’ha “mandato” (⇒ Gv 6,38), “entrando nel mondo dice: . . Ecco, io vengo. . . per fare, o Dio, la tua volontà. . . Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (⇒ Eb 10,5-10). Dal primo istante della sua Incarnazione, il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (⇒ Gv 4,34). Il sacrificio di Gesù “per i peccati di tutto il mondo” (⇒ 1Gv 2,2) è l’espressione della sua comunione d’amore con il Padre: “Il Padre mi ama perché io offro la mia vita” (⇒ Gv 10,17). “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (⇒ Gv 14,31).

607 Questo desiderio di abbracciare il disegno di amore redentore del Padre suo anima tutta la vita di Gesù [Cf ⇒ Lc 12,50; ⇒ Lc 22,15; ⇒ Mt 16,21-23 ] perché la sua Passione redentrice è la ragion d’essere della sua Incarnazione: “Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (⇒ Gv 12,27). “Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?” (⇒ Gv 18,11). E ancora sulla croce, prima che tutto sia compiuto, [Cf ⇒ Gv 19,30 ] egli dice: “Ho sete” (⇒ Gv 19,28).

“L’Agnello che toglie il peccato del mondo”

608 Dopo aver accettato di dargli il battesimo tra i peccatori, [Cf ⇒ Lc 3,21; ⇒ Mt 3,14-15 ] Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù “l’Agnello di Dio.. . che toglie il peccato del mondo” (⇒ Gv 1,29) [Cf ⇒ Gv 1,36 ]. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello [Cf ⇒ Is 53,7; 608 ⇒ Ger 11,19 ] e porta il peccato delle moltitudini [Cf ⇒ Is 53,12 ] e l’agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima Pasqua [Cf ⇒ Es 12,3-14; e anche ⇒ Gv 19,36; ⇒ 1Cor 5,7 ]. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: “servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(⇒ Mc 10,45)

Gesù liberamente fa suo l’amore redentore del Padre

609 Accogliendo nel suo cuore umano l’amore del Padre per gli uomini, Gesù “li amò sino alla fine” (⇒ Gv 13,1) “perché nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici” (⇒ Gv 15,13). Così nella sofferenza e nella morte, la sua umanità è diventata lo strumento libero e perfetto del suo amore divino che vuole la salvezza degli uomini [ Cf ⇒ Eb 2,10; ⇒ Eb 2,17-18; ⇒ Eb 4,15; ⇒ Eb 5,7-9 ]. Infatti, egli ha liberamente accettato la sua passione e la sua morte per amore del Padre suo e degli uomini che il Padre vuole salvare: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso” (⇒ Gv 10,18). Di qui la sovrana libertà del Figlio di Dio quando va liberamente verso la morte [Cf ⇒ Gv 18,4-6; 609 ⇒ Mt 26,53 ].

Alla Cena Gesù ha anticipato l’offerta libera della sua vita

610 La libera offerta che Gesù fa di se stesso ha la sua più alta espressione nella Cena consumata con i Dodici Apostoli [Cf ⇒ Mt 26,20 ] nella “notte in cui veniva tradito” (⇒ 1Cor 11,23). La vigilia della sua passione, Gesù, quand’era ancora libero, ha fatto di quest’ultima Cena con i suoi Apostoli il memoriale della volontaria offerta di sé al Padre [Cf ⇒ 1Cor 5,7 ] per la salvezza degli uomini: “Questo è il mio Corpo che è dato per voi” (⇒ Lc 22,19). “Questo è il mio Sangue dell’Alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (⇒ Mt 26,28).

611 L’Eucaristia che egli istituisce in questo momento sarà il “memoriale” [Cf ⇒ 1Cor 11,25 ] del suo sacrificio. Gesù nella sua offerta include gli Apostoli e chiede loro di perpetuarla [Cf ⇒ Lc 22,19 ]. Con ciò, Gesù istituisce i suoi Apostoli sacerdoti della Nuova Alleanza: “Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (⇒ Gv 17,19) [Cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm. , 1752; 1764].

L’agonia del Getsemani

612 Il calice della Nuova Alleanza, che Gesù ha anticipato alla Cena offrendo se stesso, [Cf ⇒ Lc 22,20 ] in seguito egli lo accoglie dalle mani del Padre nell’agonia al Getsemani [Cf ⇒ Mt 26,42 ] facendosi “obbediente fino alla morte” (⇒ Fil 2,8) [Cf ⇒ Eb 5,7-8 ]. Gesù prega: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!” (⇒ Mt 26,39). Egli esprime così l’orrore che la morte rappresenta per la sua natura umana. Questa, infatti, come la nostra, è destinata alla vita eterna; in più, a differenza della nostra, è perfettamente esente dal peccato [Cf ⇒ Eb 4,15 ] che causa la morte; [Cf ⇒ Rm 5,12 ] ma soprattutto è assunta dalla Persona divina dell’ “Autore della vita” (⇒ At 3,15), del “Vivente” (⇒ Ap 1,17) [Cf ⇒ Gv 1,4; ⇒ Gv 5,26 ]. Accettando nella sua volontà umana che sia fatta la volontà del Padre, [Cf ⇒ Mt 26,42 ] Gesù accetta la sua morte in quanto redentrice, per “portare i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (⇒ 1Pt 2,24).

La morte di Cristo è il sacrificio unico e definitivo

613 La morte di Cristo è contemporaneamente il sacrificio pasquale che compie la redenzione definitiva degli uomini [Cf ⇒ 1Cor 5,7; ⇒ Gv 8,34-36 ] per mezzo dell’“Agnello che toglie il peccato del mondo” (⇒ Gv 1,29) [Cf ⇒ 1Pt 1,19 ] e il sacrificio della Nuova Alleanza [Cf ⇒ 1Cor 11,25 ] che di nuovo mette l’uomo in comunione con Dio [Cf ⇒ Es 24,8 ] riconciliandolo con lui mediante il sangue “versato per molti in remissione dei peccati” (⇒ Mt 26,28) [Cf ⇒ Lv 16,15-16 ].

614 Questo sacrificio di Cristo è unico: compie e supera tutti i sacrifici [Cf ⇒ Eb 10,10 ]. Esso è innanzitutto un dono dello stesso Dio Padre che consegna il Figlio suo per riconciliare noi con lui [Cf ⇒ 1Gv 4,10 ]. Nel medesimo tempo è offerta del Figlio di Dio fatto uomo che, liberamente e per amore, [Cf ⇒ Gv 15,13 ] offre la propria vita [Cf ⇒ Gv 10,17-18 ] al Padre suo nello Spirito Santo [Cf ⇒ Eb 9,14 ] per riparare la nostra disobbedienza.

Gesù sostituisce la sua obbedienza alla nostra disobbedienza

615 “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (⇒ Rm 5,19). Con la sua obbedienza fino alla morte, Gesù ha compiuto la sostituzione del Servo sofferente che offre “se stesso in espiazione ”, mentre porta “il peccato di molti”, e li giustifica addossandosi “la loro iniquità” [Cf ⇒ Is 53,10-12 ]. Gesù ha riparato per i nostri errori e dato soddisfazione al Padre per i nostri peccati [Cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1529].

Sulla croce, Gesù consuma il suo sacrificio

616 È l’amore “sino alla fine” (⇒ Gv 13,1) che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell’offerta della sua vita [Cf ⇒ Gal 2,20; ⇒ Ef 5,2; ⇒ Ef 5,25 ]. “L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (⇒ 2Cor 5,14). Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti. L’esistenza in Cristo della Persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce Capo di tutta l’umanità, rende possibile il suo sacrificio redentore per tutti .

617 “Sua sanctissima passione in ligno crucis nobis justificationem meruit – La sua santissima passione sul legno della croce ci meritò la giustificazione” insegna il Concilio di Trento [Denz. -Schönm., 1529] sottolineando il carattere unico del sacrificio di Cristo come “causa di salvezza eterna” (⇒ Eb 5,9). E la Chiesa venera la croce cantando: “O crux, ave, spes unica – Ave, o croce, unica speranza” [Inno “Vexilla Regis”].

La nostra partecipazione al sacrificio di Cristo

618 La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (⇒ 1Tm 2,5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo”, [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22] egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo, [Cf ⇒ Mt 16,24 ] poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme [Cf ⇒ 1Pt 2,21 ]. Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari [Cf ⇒ Mc 10,39; ⇒ Gv 21,18-19; ⇒ Col 1,24 ]. Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice [Cf ⇒ Lc 2,35 ].

Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo [Santa Rosa da Lima; cf P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668].

IN SINTESI

619 “Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture” (⇒ 1Cor 15,3).

620 La nostra salvezza proviene dall’iniziativa d’amore di Dio per noi poiché “è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (⇒ 1Gv 4,10). “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (⇒ 2Cor 5,19).

621 Gesù si è liberamente offerto per la nostra salvezza. Questo dono egli lo significa e lo realizza in precedenza durante l’ultima Cena: “Questo è il mio Corpo che è dato per voi” (⇒ Lc 22,19).

622 In questo consiste la redenzione di Cristo: egli “è venuto per. . . dare la sua vita in riscatto per molti” (⇒ Mt 20,28), cioè ad amare “i suoi sino alla fine” (⇒ Gv 13,1) perché essi siano “liberati dalla” loro “vuota condotta ereditata dai” loro “padri” (⇒ 1Pt 1,18).

623 Mediante la sua obbedienza di amore al Padre “fino alla morte di croce” (⇒ Fil 2,8), Gesù compie la missione espiatrice [Cf ⇒ Is 53,10 ] del Servo sofferente che giustifica molti addossandosi la loro iniquità [Cf ⇒ Is 53,11; 623 ⇒ Rm 5,19 ].

domenica 24 marzo 2024

- Conferenza Spirituale nella Domenica II di Passione o delle Palme tenuta dall' Arcivescovo Mons. Carlo Maria Viganò



 
QUIS EST ISTE REX GLORIÆ?

Conferenza Spirituale
nella Domenica II di Passione o delle Palme



Exsulta satis, filia Sion, jubila filia Jerusalem.
Ecce Rex tuus venit tibi.

Za 9, 9


Le solenni celebrazioni della Settimana Santa iniziano con l’entrata trionfale di Nostro Signore in Gerusalemme, salutato come Re di Israele. La Santa Chiesa, popolo della Nuova ed Eterna Allenza, fa proprio il tributo di pubblici onori al suo Signore: Hi placuere tibi, placeat devotio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.

Tuttavia, quasi a mettere in evidenza quanto sia volubile e manipolabile la moltitudine, oggi vediamo la folla festante con rami di palme e di olivo, e pochi giorni dopo la sentiamo gridare il Crucifige e mandare a morte quello stesso Re, sul patibolo riservato agli schiavi.

Non ci è dato sapere se quanti accolsero esultanti il Signore alle porte della Città Santa fossero gli stessi che si riunirono dinanzi al Pretorio e vennero sobillati dai Sommi Sacerdoti e dagli scribi del popolo; ma non è difficile supporre – anche sulla base di altri episodi analoghi nel corso della Storia – che molti fossero presenti in entrambe le circostanze, per il semplice gusto di assistere ad un evento, di seguire la massa, di “farsi un selfie” diremmo oggi. D’altra parte, non furono gli stessi Ebrei nel deserto a costruirsi un vitello d’oro, mentre Mosè riceveva sul Sinai le tavole della Legge? E quante altre volte quegli stessi Ebrei che avevano acclamato al Dio di Israele finirono con l’accogliere “ecumenicamente” i sacerdoti di Baal e contaminarsi con gli idolatri, meritando i castighi annunciati dai Profeti e pentendosi poi della loro infedeltà, per ricominciare poco dopo? Questa è la massa, cari fratelli; la massa che assiste alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla guarigione dei lebbrosi, degli storpi, del servo del centurione e alla resurrezione di Lazzaro, ma poi si assiepa lungo il sentiero che porta al Golgota per insultare e sputare su Nostro Signore, o anche solo per stare a guardare, ut videret finem (Mt 26, 57): per vedere come andava a finire.

Chi era assente all’entrata regale del Signore a Gerusalemme? L’autorità civile e quella religiosa, così come erano assenti i potenti alla Nascita del Salvatore in quella remota capanna di Betlemme la notte del 25 Dicembre di duemilaventiquattro anni fa. Non c’erano i Sommi Sacerdoti, né gli scribi, né Erode; i quali in realtà non erano nemmeno considerabili come vere autorità, dal momento che tanto i Sommi Sacerdoti Anna e Caifa quanto il re Erode erano saliti al potere con frodi e nomine manipolate – nihil sub sole novi – e non rappresentavano quindi il potere legittimo. In particolare Caifa non era della casa di Aronne – la tribù sacerdotale degli Ebrei – ma era stato nominato Pontefice da Valerio Grato nel 25 d.C. ed era riuscito a rimanere in carica sino al 36 d.C., quando venne deposto dal Governatore della Siria Lucio Vitellio. Nomina imperiale, dunque, e non diritto ereditario come stabilito da Dio e come fatto ininterrottamente fino all’epoca dei Maccabei (1 Mac 10, 20), quando Gionata assunse il Pontificato. Nemmeno il re di Galilea era legittimo, perché la sua nomina fu decisa dal padre Erode il Grande che divise il regno tra i figli Archelao (il quale ebbe la Giudea, l’Idumea e la Samaria meridionale), Erode Filippo (che ebbe la regione nordorientale del lago di Tiberiade) e Erode Antipa (nominato Tetrarca della Galilea e della Perea). Erode Antipa governò dal 4 a.C. al 39 d.C. su mandato dell’autorità imperiale e quindi poteva essere considerato più un fantoccio al servizio di Roma che un vero sovrano. Non doveva essere molto diverso da un odierno Trudeau o da un Macron, allevati dal World Economic Forum e messi dal deep state a fare gli interessi dell’élite in Canada o in Francia. D’altra parte anche Erode era stato alla corte imperiale a Roma, dove aveva iniziato una relazione con Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, e che poi aveva sposato – contravvenendo alla legge mosaica – meritando la condanna del Battista, che per questo fu arrestato e giustiziato. Il fatto che Nostro Signore non abbia voluto rispondere a Erode – quando Ponzio Pilato glielo fece condurre perché Lo giudicasse essendo sotto la sua giurisdizione – conferma che Cristo stesso considerava la sua autorità illegittima.

In Israele, ai tempi di Cristo, non vi era dunque una vera e propria autorità religiosa né civile. Perché questa latitanza, questa vacatio? Eppure i Giudei riconoscevano i Sommi Sacerdoti ed Erode, come oggi si riconoscono Bergoglio e i capi di governo delle Nazioni, nonostante sia evidente la loro estraneità al vero potere voluto da Dio. La risposta che possiamo dare è che la Provvidenza abbia voluto che la venuta secundum carnem di Nostro Signore mostrasse che era Lui il vero Re e Pontefice, non solo come autore e garante dell’autorità terrena, ma anche come legittimo detentore di quell’autorità per diritto divino, di nascita e – di lì a poco – di conquista. Ecco il perché di questa assenza di re, pontefici e scribi Ebrei, tanto alla Nascita di Cristo quanto alla Sua Epifania e all’ingresso in Gerusalemme.

Cerchiamo ora, cari fratelli, di osservare la scena che ci si presenta dinanzi. È il 10 del mese di Nisan, sei giorni prima della Pasqua ebraica, quando la Legge prescrive agli Ebrei di procurarsi l’agnello pasquale. Qui vediamo dunque l’Agnus Dei – secondo le parole del Battista (Gv 1, 29) – che cinque giorni dopo, all’ora nona del Venerdì Santo – ossia della Parasceve – sarebbe spirato sulla Croce, nello stesso momento in cui gli Ebrei infilzavano l’agnello su due spiedi per arrostirlo, in ricordo della fuga dall’Egitto e del passaggio del Mar Rosso verso la terra promessa. Agli occhi del popolo fedele, quella simbologia non poteva sfuggire.

Assiso sull’asina bardata, come il re Salomone al momento della sua incoronazione (1 Re 1, 38-40); onorato al Suo passaggio con fronde di palma e mantelli stesi per terra (2 Re, 9-13), Cristo riassume in Sé ogni autorità terrena, temporale e spirituale, mostrandoSi nella plenitudo potestatis e venendo osannato dal popolo: Benedictus qui venit in nomine Domini, esclamano i pueri Hebræorum. Hosanna filio David, ossia al discendente della casa un tempo regnante, al Messia promesso, al prefigurato dal profeta Zaccaria (Zac 9, 9):

Esulta grandemente figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.

Come si evince dalla narrazione evangelica, l’incoronazione del Signore avviene sul Monte degli Ulivi, a meno di tre chilometri dalla Città Santa, e la processione regale si muove verso il Tempio, richiamando il Salmo 23:

O porte, alzate i vostri frontoni;
e voi, porte eterne, alzatevi;
entri il Re della gloria.
Chi è questo Re della gloria?
È il Signore, forte e potente,
il Signore potente in battaglia.
O porte, alzate i vostri frontoni;
alzatevi, o porte eterne,
entri il Re della gloria.
Chi è questo Re di gloria?
È il Signore degli eserciti;
egli è il Re della gloria.

L’offerta di una vittima sull’altare, presentata quando ormai è sera (Mc 11, 11) allude all’imminente Passione di Nostro Signore. Possiamo immaginare la preoccupazione che tale imponente manifestazione suscitò tra le autorità. E non è un caso: questo rito civile e religioso – caratterizzato dalla ripetizione di un preciso cerimoniale ben noto ai sacerdoti e agli scribi – doveva in qualche modo rappresentare la restaurazione del regno ebraico in vista della Passione, perché fosse il Re e il Sommo Sacerdote di Israele ad ascendere l’altare del Golgota per offrirSi alla Maestà del Padre in riscatto delle colpe del Suo popolo. Vedremo il Signore nuovamente rivestito di vesti regali – il mantello scarlatto e la corona, ancorché di spine – presentarSi alla loggia del Pretorio. Ecce rex vester (Gv 19, 13), dice Pilato ai Giudei; i quali rispondono, confessando la vacanza del trono di Davide: Non habemus regem, nisi Cæsarem (ibid., 14). E ancora, nel titulus crucis, è ribadita la stessa verità: Jesus Nazarenus, Rex Judæorum (ibid., 19). Perché se Cristo non fosse stato riconosciuto Re e Pontefice nell’atto supremo del Sacrificio, Egli non avrebbe rappresentato dinanzi al Padre né i singoli né le nazioni oggetto della Redenzione.

Se volessimo fare un parallelo tra quegli eventi e quelli odierni, potremmo riscontrare un’inquietante analogia tra l’azione del Sinedrio e la Gerarchia Cattolica che usurpa il potere in Roma. Immaginiamo quale potrebbe essere, oggi, la preoccupazione di certi Prelati – e dello stesso Bergoglio – per la minaccia di vedersi scoperti nella loro frode da Cristo in persona, che viene a riprendersi quell’autorità usurpata ed esercitata non per aprire le Scritture ai fedeli, ma per tenerli nell’ignoranza e consentire a sé di mantenere il potere. Credete che la reazione sarebbe così diversa da quella del Sinedrio, suscitata dal concorso di popolo in Gerusalemme per proclamare Re uno sconosciuto profeta della Galilea? Cosa credete che direbbe il novello Caifa, al veder minacciato il proprio prestigio di Sommo Sacerdote e svelato l’inganno che lo ha portato al potere? Al sentirsi ricordare di essere vicario di un’autorità non sua, e non padrone? Pensate che accetterebbe di rinunciare al Papato che usurpa, per lasciar salire al Soglio il Signore, nel nome del Quale costui dovrebbe governare la Chiesa? O non si rivolgerebbe piuttosto alle autorità civili, facendo capire ai funzionari e ai politici corrotti che lo riconoscono come Papa che quel Galileo minaccia anche il loro potere, parimenti usurpato? Non invocherebbe l’intervento dell’esercito per sedare la rivolta e condannare il Signore a morte per sedizione e alto tradimento? Anzi: non vi sembra che il motivo della condanna sia proprio che Egli abbia osato proclamarSi Re e Figlio di Dio – quia Filium Dei se fecit (Gv 19, 7) – in un mondo che si dice democratico e che non riconosce altro re che Cesare – ossia il potere pagano di un invasore – né altro dio che l’uomo? E in questo quadro non troppo ipotetico, come riporterebbero la notizia i media mainstream, ammesso che la censura o qualche legge contro gli hate speech non impediscano di parlarne e fingano che nulla sia accaduto?

Secondo alcuni Padri, la processione trionfale di Cristo in Gerusalemme è composta da due schiere: nel significato allegorico delle Scritture, coloro che precedono il Signore sarebbero gli Israeliti, e quelli che Lo seguono i pagani convertiti. E forse tra gli Ebrei vi erano anche degli zeloti, che speravano in una rivolta popolare contro l’invasore romano e che poi abbandonarono il Signore quando fu loro chiaro che Egli non si sarebbe lasciato usare politicamente: sarebbero loro, delusi nelle proprie aspettative rivoluzionarie, ad aver poi gridato il Crucifige.

Abbiamo dunque tre categorie di persone: coloro che hanno acclamato Cristo; coloro che hanno gridato il Crucifige e coloro che hanno fatto entrambe le cose. Fedeli i primi, infedeli e perfidi i secondi, desolatamente mediocri i terzi. Chiediamoci allora: Tra chi sarei stato, io? Forse non tra la turba sobillata dal Sinedrio per estorcere a Pilato la condanna a morte di Cristo: costoro sono nemici dichiarati di Dio e non esitano ad invocare il Suo Sangue, nella vertigine del loro accecamento. Avremmo dovuto essere piuttosto tra quanti osannavano il Signore e durante la Passione erano con Giovanni, Maria e le Pie Donne ai piedi della Croce. Ma spesso, dolorosamente, dobbiamo riconoscere che la nostra infedeltà – al pari di quella del popolo che fu l’eletto – ci porta a schierarci con Cristo quando trionfa, e a gridare contro di Lui o a negare di conoscerLo – come Pietro – quando è arrestato, processato, insanguinato, coronato di spine, vestito come i pazzi e coperto di obbrobri. Cattolici impegnati sotto Pio XII e tiepidi modernisti col Concilio; eroici difensori della Fede in tempi di pace in una nazione cattolica, e muti esecutori della mentalità mondana in tempi di persecuzione in stati anticattolici; devoti fedeli della Messa antica quando Benedetto XVI la permette, e scrupolosi esecutori di Traditionis Custodes quando il Gesuita di Santa Marta ne limita la celebrazione o la proibisce.

Ma perché – mi chiedo – questa insofferenza per il trascendente? Perché questa repulsione per il sacro, e quindi anche per la sacralità dell’autorità di Cristo, Re e Pontefice, che irrompe nella nostra umanità? Cosa disturba tanto il potere dei Sommi Sacerdoti ai tempi di Nostro Signore? Cosa disturba tanto da oltre duecento anni il potere delle istituzioni civili, e da sessant’anni quello del Sinedrio modernista? Credo che la risposta sia nell’orgoglio di noi poveri, miserabili mortali, che non vogliamo accettare e sottometterci alla potestà di Cristo perché sappiamo che se lo facessimo non vi sarebbe più spazio per il nostro particulare, per i nostri meschini interessi, per la nostra brama di potere. In definitiva, è il Non serviam di Lucifero che si perpetua nella Storia, nel tragico tentativo di sovvertire l’ordine divino e nell’ancor più tragica illusione di poter bastare a noi stessi, di considerare il mondo come una meta e non come un luogo di passaggio, di poterci creare un Paradiso in terra in cui libertà, fraternità e uguaglianza siano il contraltare umano di Fede, Speranza e Carità. Abbiamo paura che Cristo regni, perché sappiamo che dove l’autorità appartiene a Cristo ed è conforme alla Sua Legge non siamo più noi a comandare, e il potere che amministriamo come luogotenenti di Cristo non può essere usato come pretesto, dietro cui nascondere la nostra folle presunzione di essere sicut dii. E questo vale tanto nella sfera civile quanto in quella ecclesiastica. Eppure essere vicari di Cristo nelle cose temporali o spirituali dovrebbe essere un onore, non un’umiliazione. Per questo, cari fratelli, è terribile che colui che siede sul Soglio di Pietro consideri “scomodo” fregiarsi del titolo di Servo dei servi di Dio e abbia cancellato quello di Vicario di Cristo. Scrollatosi cosi di dosso la necessaria soggezione a Cristo, si è assunto anche la piena e totale responsabilità dei propri errori, delle proprie eresie, degli scandali di cui è causa; e allo stesso tempo, orgogliosamente, egli rifiuta quelle Grazie di stato che il Signore avrebbe altrimenti concesso al Suo Vicario in terra. Questa presunzione taglia alla radice la legittimità dell’autorità stessa, che o viene da Dio o è odiosa e illegittima tirannide.

Cari fratelli, questi tempi di apostasia non sono diversi dai tempi della Passione, perché la passio Christi di allora deve necessariamente compiersi nella passio Ecclesiæ di oggi e della fine dei tempi: ciò che il Capo ha affrontato, deve affrontarlo anche il Corpo Mistico. Ma fate attenzione: un altro cercherà di presentarsi come re e papa, e sarà l’Anticristo, contraffazione infernale e diabolico sovvertimento del Principe della pace. Anche in quei giorni di tenebra – che il profeta Daniele ci indica della durata di tre anni e mezzo – vi sarà una folla che inneggerà a quell’uomo adorandolo come Dio, e altri che lo riconosceranno come impostore e servo di Satana. Gli inganni e i prodigi del figlio della perdizione ci faranno credere che abbia conquistato il potere, che la Chiesa sia definitivamente cancellata, nella vacanza dell’autorità civile e religiosa. Sarà allora che San Michele ucciderà l’Anticristo, allora che la Vergine schiaccerà la testa del Serpente, allora che il Signore verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, tornando di nuovo come Figlio di Dio, Re e Pontefice. Facciamo in modo di essere trovati nel numero di quel pusillus grex, quel piccolo gregge, che non si è lasciato ingannare e che è rimasto fedele. Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re (Za 9, 9). E così sia.

+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

24 Marzo 2024
Dominica II Passionis seu in Palmis



fonte exsurge domine

SECONDA DOMENICA DI PASSIONE "DETTA DELLE PALME"



Altare della Crocifissione, XII stazione di via Dolorosa, nota anche come Calvario greco, ritenuta il luogo in cui fu posta la croce di Gesù, nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme.


San Pietro d’Alcantara (1499-1562) francescano, fu ammirabile soprattutto per la sua vita austera, senza mitigazioni, dalla gioventù alla morte.

Vicino al convento, fece fabbricare un devoto calvario, affinchè i religiosi e il popolo avessero un incentivo per ricordare di continuo la passione e morte di Gesù Cristo.

Ai piedi della croce versava copiose lacrime; offriva se stesso in olocausto a Dio; faceva lunghe ore di preghiera con le braccia aperte in forma di croce. Sovente rimaneva rapito in estasi col corpo elevato da terra parecchi palmi.

Due volte al giorno si flagellava con aspre discipline, versando sangue in gran copia, fino a bagnare le mura e il pavimento.

Camminava col capo scoperto, a piedi scalzi, con sulla nuda carne solo un ruvido saio. Aveva il corpo coperto di piaghe causate dagli orribili cilizi; dormiva solo due ore di notte con la testa poggiata ad un piolo, in una strettissima cella.

Tutto questo per assomigliare a Gesù crocifisso.

Soleva dire : « In vista della croce di Gesù, stimo tutto un nulla ».

San Giuliano Eymard diceva : « Non v’è santo che non sia stato crocifisso dal mondo, che non si sia crocifisso da se stesso, e che Dio non lo abbia crocifìsso in maniera ammirabile ». « Le grandi cose sono fondate sul terreno del Calvario. La prova vale più che il successo, la croce più che il Tabor ».

Grandi verità, che dovremmo meditare sovente, sforzandoci di attuarle in noi stessi.

Auguro che queste letture sulla passione di Gesù Cristo siano uno stimolo efficace alla meditazione.

2. Il fatto storico

Il centurione, che stava di fronte a Gesù, vedendo quello che era accaduto, glorificava Dio, dicendo : « Realmente quest’uomo era giusto, Figlio di Dio! ». Anche quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, e tutta la folla che era convenuta per assistere a quello spettacolo, visto il terremoto e quello che accadeva, ebbe gran timore, e diceva : « Veramente costui era figlio di Dio ! ». E battendosi il petto, se ne tornava.
Frattanto tutti i conoscenti di Gesù stavano a distanza. Erano là molte donne, che osserva­ vano da lontano. Tra di loro erano Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo il minore e di Giovanni, Salome, madre dei figli di Zebedeo, le quali, quando Gesù era in Galilea, lo seguivano e lo servivano ; e molte altre che erano salite insieme con Gesù a Gerusalemme.

I giudei, poiché era la vigilia della Pasqua, affinchè i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato, domandarono a Pilato che si spezzassero loro le gambe e fossero tolti via. Vennero, dunque, i soldati, e spezzarono le gambe ai due ladroni; arrivati a Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati, con la lancia, gli trafisse il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.

3. Spiegazione

Pochi giorni prima della sua morte Gesù disse ai suoi discepoli : « Quando sarò innalzato da terra (sopra la croce), trarrò tutto a me».

Questa profezia si avverò subito dopo la morte di Gesù sul Calvario.

3.1. Veramente costui era figlio di Dio

Il centurione e i soldati di guardia:

a) di fronte ai fenomeni straordinari che accompagnarono la morte di Gesù;

b) di fronte alla pazienza con cui egli soffrì, alla generosità con cui perdonò;

c) dì fronte alla mansuetudine con cui ascoltò, alla dolcezza con cui rispose;

d) di fronte alla religione con cui pregò, all’autorità con cui comandò;

e) dì fronte al tono della voce con cui gridò, alla tranquillità con cui morì,

il centurione e i soldati restarono meravigliati e commossi; si convinsero che Gesù era innocente, giusto, santo, vero figlio di Dio.

E questa loro ammirazione e convinzione manifestarono esternamente, pubblicamente : « Costui era giusto; era veramente figlio di Dio ! ».

Questa loro confessione:

• accusò pubblicamente i sacerdoti di deicidio;

• condannò l’ingiustizia di Pilato;

• non si vergognò degli obbrobri patiti dall’innocente condannato ;

• non si scandalizzò della sua morte;

• benché Gesù fosse morto, lo credette ancora vivo;

• benché pendente ancora dalla croce, lo credette regnare nei cieli.

3.2. Glorificò Dio

San Luca, raccontando la strepitosa conversione, dice che il centurione e i soldati « glorificarono Dio ». Ciò vuoi dire che il centurione e i soldati non attribuirono a Gesù crocifisso il titolo di « figlio di Dio », nel senso in cui i romani idolatri davano un tale titolo ai loro dèi. In questo caso essi non avrebbero « glorificato Dio », ma l’avrebbero disonorato. Dissero che il morto sulla croce era « Figlio di Dio » nel senso teologico e cristiano.

Siamo di fronte ad una vera conversione al cristianesimo; ad una vera fede cristiana, la quale comincia dal cuore, si manifesta al di fuori con la confessione, e finisce con le opere.

« Qui amat, zelai »
, chi ama, è un apostolo. Così avvenne al centurione. Egli, per primo, confessò l’innocenza e la divinità di Gesù crocifisso, e, sul suo esempio, i suoi soldati, compresi dallo stesso timore, illuminati dalla medesima luce, docili alla medesima grazia, mostrarono il medesimo pentimento, confessarono la medesima fede.

3.3. Da persecutori a confessori

Chi era il centurione, chi i soldati?

Gli stessi che flagellarono Gesù Cristo; che lo incoronarono di spine; che gli posero nelle mani lo scettro di canna e sulle spalle lo straccio di porpora;, che lo bruttarono coi loro sputi. Gli stessi che lo percossero con bastoni, che lo insultarono con gli schiaffi, che lo schernirono quale re da burla. Gli stessi che sul Calvario lo attossicarono col fiele, che lo stirarono e lo confissero barbaramente sulla croce, che tirarono a sorte le sue vesti; che insultarono la sua pazienza; che si schernirono del suo dolore.

Ed ora eccoli cambiati: sostituiscono le loro bestemmie con le benedizioni, la loro nerezza con la pietà, i loro insulti con le lodi, il loro disprezzo con la confessione della sua innocenza e della sua divinità, le loro colpe col pentimento sincero.

Chi illuminò le loro cieche menti, spezzò i loro duri cuori, ammansi la loro barbarie, cangiò in un istante quei crocifissori in credenti, in apologisti, in evangelisti della divinità di Gesù. Cristo?

Il Crocifisso del Calvario ! « Quando sarò innalzato da terra, trarrò tutto a me! ».

3.4. Tutte le folle, battendosi il petto, se ne tornavano

Questa frase di san Marco ci dice che sul Calvario, durante le tre ore di agonia di Gesù, v’erano due gruppi di persone amiche del Re­ dentore :

• il primo gruppo, quello più vicino alla croce, era formato dalla Madonna, dal discepolo prediletto san Giovanni, da Maria Cleofa e Maria Maddalena;

• il secondo gruppo, più numeroso ma più lontano, era formato da donne che piangevano e si lamentavano; erano le donne che avevano assistito Gesù nel suo ministero, che lo avevano seguito a Gerusalemme.

– I suoi conoscenti stavano a distanza

Dietro l’esempio del centurione e dei soldati romani, anche la folla mutò contegno. San Luca dice : « Tutti i gruppi, che avevano assistito alla morte di Gesù, di fronte al grido del morente, al boato del terremoto, all’aprirsi delle voragini, allo squarciarsi della montagna, se ne tornarono percuotendosi il petto, ed esclamando: ” Veramente costui era figlio di Dio ” ».

Morto Gesù, partiti i sinedriti, il popolo si sentì libero dalla paura: ebbe il coraggio di esprimere la sua simpatia e la sua venerazione verso il Martire divino. Quasi irrorato dal sangue di Lui, se ne tornò in città, raccontando ai familiari ciò che aveva visto e udito.

3.5. La lanciata

I giudei, preoccupati della grande giornata del domani (la Pasqua) chiesero a Pilato di spezzare le gambe ai crocifissi al fine di gettarli nella fossa prima del tramonto.

Pilato non oppose difficoltà alla richiesta; inviò altri soldati, diversi da quelli che stavano di guardia alle croci, affinchè praticassero sui crocifissi il « crurifragio », e quindi li deponessero dalle croci.

I soldati, avendo trovato Gesù già morto, « uno dei soldati, con la lancia, gli ferì il costato ed uscì subito sangue ed acqua ».

Dunque i due ladroni sopravvissero a Gesù e furono uccisi col « crurifragio ».

3.6. La profezia adempiuta

Senza volerlo, i sinedriti e i soldati adempi­rono due profezie riguardanti il Messia :

1) la prima riguardava l’agnello pasquale, del quale gli ebrei non dovevano spezzare alcun osso, quando lo mangiavano nella cena di Pasqua. Ora Gesù Cristo, vera vittima redentrice, era adombrato dall’antico agnello pasquale .

2) la seconda profezia era quella di Zaccaria il quale profeta scorgeva nel futuro la nazione giudaica fare cordoglio su un trafitto come si fa cordoglio per la morte dell’unigenito.

3.8. Nome del lanciere

Come si chiamava il soldato che trafisse il cuore di Gesù?

Fu denominato, dalla tradizione cristiana, col nome di « Longino ».

La tradizione cristiana afferma che questo Longino si convertì alla religione cristiana; venne consacrato vescovo dagli apostoli; divenne martire di Cristo; la sua festa è celebrata il 15 marzo con messa e ufficio proprio. Nella basilica vaticana di san Pietro esiste una magnifica statua di san Longino.

3.9. La ferita

Quando la famiglia reclamava il cadavere del giustiziato, il carnefice doveva colpire il cadavere al cuore prima che il cadavere fosse ceduto, al fine di assicurarsi della sua morte. Questo colpo al cuore, diretto al lato destro del petto, era studiato e conosciuto bene nella scherma dell’esercito romano. Esso dava ogni sicurezza sulla morte reale del condannato. Perciò il colpo al cuore era il gesto regola­mentare che si doveva compiere per poter de­ porre il corpo per la sepoltura. Quindi un gesto naturale e benevolo per preparare la deposizione, conforme al regolamento e non già un gesto di crudeltà.

3.10. La piaga del cuore

Dove si trova il cuore nel corpo umano?

Il cuore occupa una posizione mediana ed anteriore e riposa sul diaframma, tra i due polmoni, dietro il piastrone sternocostale, nel mediastino anteriore. Solo la sua punta è net­ tamente a sinistra, mentre la base supera a destra lo sterno.

In quale punto del costato fu inferto il colpo di lancia?

Sul lato destro del cadavere. Il colpo raggiunse l’orecchietta destra del cuore, perforando il pericardio. La lancia scivolò sulla sesta costa, perforò il quinto spazio intercostale, penetrò in profondità, incontrando la pleura ed il polmone.

Quali sono le proporzioni della ferita?

Essa si estende in alto per una larghezza di almeno 6 centimetri, per una altezza di almeno 15 centimetri.

3.11. L’uscita di sangue

Come si spiega l’uscita del sangue dalla piaga del cuore di Gesù?

In ogni cadavere, la parte del cuore, che supera a destra lo sterno, è l’orecchietta destra : essa è sempre piena di sangue.

In Gesù Cristo il colpo di lancia aprì l’orecchietta destra del cuore ed il sangue uscì lungo la lama, attraverso la breccia aperta nel polmone. Pertanto il sangue uscito dalla piaga del costato di Gesù, proveniva dal suo cuore divino, e soltanto dal suo cuore.

3.12. L’uscita dell’acqua

Di dove venne l’acqua uscita dalla ferita del costato?

In ogni cadavere, da poche ore morto, il pericardio contiene sempre una certa quantità di siero (idropericardio), sufficiente per essere visto uscire all’atto della incisione del fogliet­ to parietale. In alcuni casi, esso è anche molto abbondante.

Se si immerge brutalmente il coltello, si vede uscire dalla piaga una larga colata di sangue, ma sui suoi bordi si può distinguere una quantità di siero del pericardio.

Pertanto l’acqua uscita dalla ferita del costato di Gesù era liquido pericardio, in quantità abbondante, almeno sufficiente, da permet­ tere a san Giovanni (testimonio oculare) di vedere distintamente l’uscita di sangue e di acqua. Il siero non poteva essere per san Giovanni se non acqua, di cui ha l’apparenza.

3.13. Dichiarazione

Le notizie riportate in questo punto III sono prese dall’opera del dottor Pierre Barbet, il quale le ha potute ricavare dall’esame scientifico della santa sindone di Torino e attraverso le esperienze da lui eseguite su persone morte da poco. Si tratta quindi di affermazioni scientificamente sicure.

Le medesime affermazioni sono state fatte da altri eminenti scienziati, quali il professor Judica-Cordiglia, il dottor Hynek, e altri.

4. Commento dei santi padri

Riporto alcuni commenti dei santi padri ri­guardanti  questa lettura.

4.1. Il centurione e i suoi soldati

San Leone Magno: « Quanto è bello vedere che, mentre i giudei — adoratori del vero Dio, illuminati nella scienza divina — si ostinavano a negare la divinità del Messia loro promesso, da loro tanto aspettato, per loro particolarmente venuto, insultavano e bestemmiavano Iddio, loro salvatore, i soldati romani, idolatri, pieni di errori, colmi di vizi, ignoranti del vero Dio, si convenivano, riconoscevano e glorifica­ vano questo Dio vero e confessavano il mistero del suo unico Figlio ».

San Beda: « Ecco qui le primizie e il saggio dell’umiltà, della docilità, della prontezza dei popoli gentili nell’ascoltare la predicazione evangelica, nel riconoscere e nel confessare Gesù Cristo. Ecco una bella profezia che la vera fede passerà dalla sinagoga alla Chiesa cattolica, da Gerusalemme a Roma. Roma confesserà Gesù Cristo figlio di Dio. O Roma, tu prendesti fin d’allora il possesso di questa fede ».

Padre Ventura: « Roma cominciò sullo stesso Calvario ad esercitare la missione di predicare la fede in Cristo, poiché la moltitudine dei giudei che si trovavano sul Calvario, tratti dall’esempio del centurione e dei soldati romani, riconobbe e confessò la divinità di Gesù Cristo ».

4.2. Il crurifragio

San Giovanni Crisostomo: « I giudei, non contenti di aver disonorato il Salvatore divino, facendolo crocifiggere in mezzo a due ladroni, vollero disonorarlo ancora nel farlo morire con l’orribile tormento della frattura delle gambe. Ma Dio disperse il loro malvagio desiderio, poiché non permise che fossero rotte le gambe al suo divin Figlio, ma che gli fosse prati­ cata una ferita nuova, quale compimento di grandi e teneri misteri ».

Cornelio A Lapide: « La premura degli ebrei a levar presto dalla croce Gesù Cristo, non fu scrupolo di religione, ma timore, vergogna, rimorso, paura ».

4.3. La piaga del cuore

San Giovanni Crisostomo: « Oh tratto ammirabile della provvidenza divina! Gli ebrei operarono con animo maligno e perverso, ma essi, senza accorgersene, servirono alla verità e cooperarono al compimento di un grande disegno di Dio. Una forza invisibile arrestò le mani che volevano rompere le ossa del Signore; diresse il braccio che lo trafìsse; guidò la punta della lancia in quella parte in cui era il cuore; ne fece scaturire sangue ed acqua, affinchè l’uno e l’altra servissero al compimento di amore e di consolazione. Da quella ferita, da quel sangue e da quell’acqua nacquero la Chiesa di Gesù, la sua sposa, i suoi figli».

Teofilatto: « Per fare cosa gradita ai giudei, il soldato trafisse il cuore a Gesù. Ma mentre essi intendevano fare onta al corpo di Cristo, lo onorarono, cambiando l’onta in un prodigio mistico».

Sant’Agostino: « Èva, che fu formata dalla costala di Adamo dormiente, era figura della Chiesa, la quale nacque dal costato di Gesù già morto».

San Giovanni Crisostomo ed altri santi padri:

« La Chiesa si forma e si mantiene coi santi sacramenti: nasce col battesimo, si corrobora con la cresima, si alimenta con l’eucaristia, si risana con la confessione, si fortifica con l’estrema unzione, si governa con l’ordine, si propaga col matrimonio. Ora questi sacra­menti, i quali formano l’esistenza, la durata, la forza, la santità e la gloria della Chiesa, uscirono dalla ferita del sacro costato di Gesù, dalla piaga del suo cuore sacratissimo ».

San Cipriano: « Possiamo dire veramente che il sangue e l’acqua che uscirono dal cuore di Gesù, fu­rono tutti i sacramenti, i quali, una volta stabiliti, sarebbero sempre durati a fecondare la Chiesa uni­versale, assicurandone l’esistenza e la perpetuità ».

4. Non gli spezzarono le ossa

Sant’Agostino: « Gran mistero dell’integrità delle ossa del Salvatore! Invano i soldati sì presentano dinanzi alla croce col disegno di fare a Gesù quello che hanno fatto ai due ladri. Una forza irresistibile lì arresta, una voce intcriore li avverte, un comando autorevole li obbliga a sospendere l’opera, a mutare disegno: invece di spezzare le gambe, aprono una ferita nel cuore del Signore. Chi poteva disporre così bene ciò che deve fare, come lo dispose Gesù crocifisso? » .

5. Conclusione

Quale la conclusione? È duplice.

5.1. Grande fiducia in Gesù Cristo

Gesù volle avere ferito il suo cuore, per dimostrare l’amore verso di noi che lo consuma. Dunque andiamo a lui fiduciosi : vi saremo ricevuti a braccia aperte. Imitiamo la Maddalena, Pietro, la Samaritana, il buon ladrone. Come furono accolti essi, saremo accolti anche noi. Andiamovi con spirito di umiltà e di illimitata confidenza.

5.2. Noi siamo membra di Gesù Cristo

Membra del suo corpo, di cui egli è il « Capo supremo », stiamogli uniti con la santità della vita, con l’integrità dei costumi, con la mor­tificazione dei nostri sensi.

Applichiamo a noi le raccomandazioni che san Paolo apostolo faceva ai Corinti : 
« Procurate di mortificare, di contenere le vostre voglie, in modo che nel vostro corpo mortale non venga a regnare l’immodestia, l’intemperanza, la lascivia, né alcuna specie di peccato, ma la purità, la modestia, il candore, la mortificazione di Gesù Cristo, affinchè tutti vedano che noi siamo veramente cristiani; che la vita di Gesù Cristo si manifesta in noi, e portando in noi Gesù Cristo, veniamo a glorificare il Dio che ci ha santificati e redenti ».


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