Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

martedì 31 marzo 2015

La sapienza divina di Maria


don Leonardo maria Pompei
La sapienza. Etimologicamente il termine “sapienza” viene da “sapida scientia”, cioè “scienza saporita”. Ha dunque a che fare con il sale, di cui Gesù parla espressamente nel Vangelo (“voi siete il sale della terra”). La sapienza è dunque una virtù fondamentalmente intellettuale, che penetra la profondità delle cose, sa rispondere ai perché, sa contemplare i divini misteri. San Tommaso d’Aquino afferma che la sapienza è quella virtù che anzitutto dispone la nostra intelligenza alla contemplazione dei divini misteri, a formarci un retto giudizio sulle cose divine ed a regolare tutte le cose umane ed anche tutti i nostri atti umani secondo leggi e criteri divini (discernimento). Con la sapienza si penetra la profondità delle cose e dei misteri, e si impara a vedere la relazione che tutte le cose create hanno con Dio e con i suoi disegni. È una virtù meravigliosa, a cui non si giunge se non attraverso insistente preghiera, grande distacco dal peccato, specialmente da quelli carnali che offuscano l’intelletto, grande custodia dei sensi, molto studio e molta meditazione. San Gregorio Magno aggiunge che la sapienza è il gusto delle cose eterne e nutre l’anima con la speranza e la certezza dei beni eterni.
Maria ebbe una sapienza divina. La vergine santissima, totalmente esente da ogni minima macchia di peccato, anima profondamente raccolta e contemplativa, anima di profondissima orazione ed incline alla meditazione, era perfettamente disposta in relazione a questa virtù, che non solo possedette ma possedette in una forma ed in un grado talmente grandi da non essere accessibili a noi mortali. Ella, infatti, divenne Madre della Sapienza eterna e increata ed è invocata, nelle litanie lauretane, come sede della sapienza. Vale a dire che se uno cerca la sapienza, la desidera davvero ma non sa dove trovarla, vada da Maria e lì sicuramente la troverà, in due sensi: primo, perché Maria renderà partecipe il suo devoto della sua sapienza; secondo, perché conoscere e contemplare Maria, vedere come Ella si è comportata e come ha agito, è scuola perfetta per imparare la sapienza.

lunedì 30 marzo 2015

Il terribile vizio dell'ira Figlie, specie e gradi dell'ira

di don Leonardo Maria Pompei
Il quarto vizio capitale, secondo la tradizione cattolica occidentale sistematizzata nel VI secolo da san Gregorio Magno papa, è l’ira. Un vizio molto diffuso, radicato e oltremodo pericoloso, in quanto è sotto la sua spinta che l’uomo arriva a compiere una notevole serie di atti disordinati: bestemmie, imprecazioni, volgarità, percosse, tumulti, insulti e, in alcuni casi, violenze (anche efferate) e omicidi. A detta dei filosofi classici, infatti - Aristotele in primis, seguito anche in questo da san Tommaso d’Aquino – l’ira è la più violenta delle passioni e, se non è controllata, diventa una marea montante capace di far perdere ogni freno inibitore rendendo l’uomo capace delle peggiori azioni. Alcune persone presentano una particolare inclinazione a tale vizio per ragioni temperamentali, in particolare i sanguigni e, più ancora, i collerici. Per queste categorie dominare l’ira diventa un’impresa a dir poco titanica, anche se santi del calibro di san Francesco di Sales e san Giovanni Maria Vianney, passati alla storia come emblemi e campioni di mansuetudine e dolcezza, confessavano candidamente di essere collerici per temperamento. Una battaglia dunque dura per tutti, molto dura per alcuni, ma non impossibile da vincere. Vediamo anzitutto nel dettaglio le caratteristiche di questo quarto vizio capitale.
Il dottore Angelico qualifica l’ira come direttamente contraria alla virtù della mansuetudine e ne individua sei figlie, tre specie e tre gradi. Afferma, inoltre, che oggetto proprio di questo vizio è il fastidio e l’irritazione che l’uomo prova di fronte a ciò che ne contraria la volontà, in particolare nei casi in cui un individuo ostacola il perseguimento dei propri progetti o delle proprie aspirazioni, oppure semplicemente ne oscura in qualche modo il prestigio o l’eccellenza. Quando l’ira si muove contro un individuo, assume spesso i contorni del desiderio di vendetta, consistente nella brama di infliggere un male all’avversario come personale e arbitraria retribuzione alla presunta ingiustizia subita. 

domenica 29 marzo 2015

L'invidia e le sue cinque figlie



di don LeonardoM.Pompei

"L'invidia è un peccato che molti cattolici commettono, ma che quasi nessuno confessa". Così un noto politico italiano dello scorso secolo rispondeva quando gli si chiedeva di parlare del quinto vizio capitale, probabilmente il più odioso, antipatico e meschino fra tutti e sette. Difficile concepire qualcosa di più piccino di un uomo che si rode nell'invidia, che asseconda questa bassissima passione, madre - come vedremo - dell'odio e per questo, a detta di san Tommaso d'Aquino, formalmente e direttamente contraria alla carità. L'invidia non è un altro che una forma particolare della passione della tristezza - già di per se ordinariamente da non assecondare eccettuate rarissime eccezioni - e insiste precisamente nel rattristarsi per il bene altrui (materiale o spirituale) percepito come male proprio o come bene più grande del proprio. Una piovra con due distinti tentacoli, che danno vita a due complementari specie: rattristarsi di fronte a un bene, un successo o una qualità dell'altro e rallegrarsi dinanzi a un male, a un fallimento o a un difetto dell'altro. Vedremo che dentro questo vizio è contenuto anche un gravissimo peccato contro lo Spirito Santo (l'invidia della grazia altrui) e come sotto la spinta di questa passione l'uomo può divenire capaci di grandi "bassezze". Come tutti i vizi, tende ordinariamente a nascondersi o camuffarsi, o addirittura celarsi sotto le spoglie di presunta o supposta virtù. Si pensi solo al caso, umanamente parlando, dell'uccisione di Gesù Cristo che fu invocata sotto l'ipocrita e specioso pretesto di eliminare un falso profeta, un bestemmiatore e un sobillatore mentre, come evidenziano gli evangelisti, perfino il proconsole pagano si era accorto che gli era stato consegnato solo per invidia. Gesù era santo, faceva i miracoli, folle oceaniche pendevano dalle sue labbra. Presumibilmente, per contro, i rigidi schemi religiosi, affettatamente e apparentemente santi, di scribi e farisei non incontravano altrettanto favore e successo. Quindi?... Il capitolo secondo del libro della Sapienza tratteggia in maniera plastica e assai precisa le modalità caratteristiche di questo odioso vizio e le conseguenze a cui porta, fornendo una sorta di storia anticipata di quel che accadde in quei drammatici Giovedì e Venerdì di due millenni or sono, in una lugubre sequenza destinata sciaguratamente a reiterarsi ogni qual volta il giusto si staglia nella sua luminosa statura e santità di fronte alla fiorde becere e scatenate degli empi insolenti, ipocriti e beffardi. In esso si leggono, tra le altre, queste parole di sconcertante attualità: "Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle. Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Una volta spenta la vita, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. E' diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siam da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre.Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà». La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure" (cf Sap 1,16-2,22). Nelle parole degli empi, insieme al sinistro profetico sibilo di ciò che sarebbe accaduto a nostro Signore, si sente risuonare non poco del pensiero occidentale di questi ultimi decenni. Pensiero che tende alla distruzione del bene e di chiunque osi viverlo e proclamarlo. Pensiero che genera odio. Sia nei confronti dei virtuosi sia nei confronti di chi, avendo di più, può godersi maggiormente i bagordi dell'intemperanza. Pensiero che uccide l'amore, la compassione e i rapporti interpersonali. Pensiero da cui guardarsi e da conoscere in tutte le sue sfaccettature e risvolti. 
L'invidia, secondo l’insegnamento di san Tommaso, ha cinque figlie: l’invidia della grazia altrui, l’odio di Dio, la detrazione del prossimo, la mormorazione e l’esultanza per le avversità degli altri (nonché la forma speculare del rattristarsi per gli altrui successi).
Circa l’invidia della grazia altrui, secondo la tradizione cattolica è una delle sei forme che può assumere la bestemmia o peccato contro lo Spirito Santo di cui Gesù, nei Vangeli, afferma la non perdonabilità e remissibilità né in questa né nell’altra vita (cf Mt 12,31-32 e Mc 3,29). Questo comportamento è ben diverso dall’invidia santa che può (anzi dovrebbe) prenderci dinanzi agli edificanti esempi mostrati dai santi, consistente nel desiderio di emulare, per quanto possibile, le loro virtù, il loro zelo, il loro eroismo. Si tratta, invece, di quell’avversione che sorge nel cuore alla vista delle virtù altrui, motivata dal semplice fatto che esse sono una denuncia tacita ma eloquente di una vita di vizio e di peccato da cui non si ha alcuna intenzione di emendarsi. Fu questo il peccato che, storicamente, causò la condanna a morte di Gesù di Nazareth e fu anche a causa di questo gravissimo disordine che la terra bevve per la prima volta il sangue di un uomo, quello di Abele assassinato per invidia dal fratricida Caino. È una forma di chiusura irreversibile alla grazia (ecco perché è uno dei peccati contro lo Spirito), in quanto distrugge uno dei canali dei quali il Signore si serve per muoverci a conversione, ossia l’esempio e la parola dei suoi servi e amici. Chi dinanzi a tale dono si irrigidisce odiando il giusto solo perché dice e opera la verità, si autoesclude, inesorabilmente, dal circuito di salvezza innescato dalla Grazia e si condanna ad un indurimento del cuore potenzialmente irreversibile e ordinariamente orientato all’eliminazione (ingiusta e sovente cruenta) di chi ha come unica colpa quella di voler servire e glorificare Dio. Con questo peccato, infatti, come giustamente insegna il Doctor Angelicus, si perpetra, a ben considerare, un tentativo di distruzione della gloria di Dio, che si esalta ed è sommamente manifestata nella vita luminosa dei santi.
L’odio di Dio - in quanto percepito come male proprio a causa della sua straordinaria e irraggiungibile eccellenza - è peccato luciferino e demoniaco nel senso più stretto del termine. Ciò che mosse gli angeli a ribellarsi all’Altissimo fu proprio, come la Tradizione della Chiesa insegna, l’invidia della Sua eccelsa grandezza e l’impossibilità di tenervi testa neanche da parte del più grande e luminoso degli angeli, quale era Lucifero prima della caduta. Tutti coloro che si ribellano a Dio a causa delle esigenze della sua legge oppure che cercano di farsi una fede a propria immagine e somiglianza illudendosi e ingannandosi dietro una distorta caricatura della sua bontà e misericordia, incorrono in questo grave peccato, anche quando non giungono alla bestemmia in senso stretto oppure a quelle forme di ateismo sistematico e militante - ampiamente attestato dagli ultimi due secoli e mezzo di storia del vecchio continente - teso a distruggere perfino l’idea di Dio nelle menti e nei cuori delle persone.

Quando l’invidia colpisce il prossimo, sia essa di tipo spirituale (invidia della grazia e della santità altrui), morale (invidia della posizione sociale, delle doti di intelligenza, etc.) o materiale (invidia della bellezza, del denaro, dei beni altrui, etc.), porta quasi sempre con sé il gravissimo (e diffusissimo) peccato delladetrazione, ovvero il tentativo di distruggere la gloria o semplicemente la buona fama altrui o con la maldicenza (diffondere malefatte e difetti altrui veri ma non pubblici), oppure con la critica (diffondere difetti o vizi manifesti), o seminando zizzania (sparlare del prossimo con chi è suo amico per mettere discordia e inimicizia) oppure con la calunnia (diffondere difetti o malefatte totalmente inesistenti e inventate). Si badi che tutte queste distinte forme di detrazione costituiscono gravi peccati. San Francesco d’Assisi, con i frati che si abbandonavano alla detrazione, era severissimo, non esitando a giungere perfino al gravissimo provvedimento dell’espulsione dall’ordine. Nulla infatti è tanto contrario alla carità come questo peccato e nulla come questo distrugge la concordia e la comunione. Del resto, altro non ci si potrebbe aspettare dalle figlie del vizio che, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, è formalmente opposto e contrario all’aurea e adorabile virtù cardinale della carità e tanto simile al peccato che causò la ribellione degli angeli decaduti.                                               

Il Sacerdozio cattolico (Mons. Lefebvre)


Il Sacerdozio cattolico

Non si può definire il sacerdote senza il sacrificio né il sacrificio senza il sacerdote. Essi sono legati essenzialmente. Il sacerdote è fatto per il sacrificio[10] e non può esserci sacrificio senza sacerdote. Occorre quindi riflettere su cos’è il sacrificio per sapere esattamente cos’è il sacerdote. Il sacrificio è un qualcosa di misterioso, profondo, divino. E’ un tesoro sul quale potete meditare per tutta la vostra vita sacerdotale, senza che sia esaurito al momento della vostra morte. Solo nell’al di là capiremo bene cosa sia questo sacrificio di Nostro Signore che rinnoviamo tutti giorni sull’altare[11]. Già nel Vecchio Testamento, il grande sacerdote entrava ogni anno nel Santo dei santi e, come dice san Paolo (Eb. 9, 7-11), non entrava senza il sangue delle vittime. Questa è un’immagine di ciò che sarebbe stato in futuro il sacrificio di Nostro Signore. Neanche Lui, il Santo per eccellenza, sarebbe entrato nel tabernacolo che non era opera dell’uomo senza il suo sangue prezioso[12]. Ed è quello che fa il sacerdote oggi, riproduce il sacrificio di Nostro Signore facendo discendere sull’altare il suo sangue, il sangue dell’espiazione, della riparazione e della Redenzione. Quanto è più grande, quanto più efficace, quanto più sublime, quanto più divino è il sacrificio che i sacerdoti offrono oggi di quello che un tempo offriva il grande sacerdote una volta l’anno, quando penetrava nel Santo dei santi[13]!

1. Il sacerdozio di Cristo

La definizione forse più bella, più completa del sacerdozio di Cristo si trova nell’epistola di san Paolo agli Ebrei. Tutta la prima parte di essa è destinata a farci conoscere cosa sia il sacrificio di Nostro Signore. E’ davvero meravigliosa. San Paolo è stato certamente ispirato quando scriveva queste pagine. Egli mostra innanzitutto che Gesù è superiore agli angeli (Eb. 1, 4-14 e 2). Poi spiega che Gesù è superiore a Mosè, il maggiore dei profeti (Eb. 3). Mentre Mosé balbettava il Nome di Dio, Gesù è la Parola sostanziale, il Verbo eterno, disceso fino a noi per salvarci. I segreti dei cuori sono messi a nudo ai suoi occhi. Ben superiore quindi a quel che poteva essere Mosè. In terzo luogo, Gesù è incomparabilmente superiore ai grandi sacerdoti dell’antica Legge. Il sacerdozio di Cristo è in effetti il più perfetto che si possa concepire[14] . Donde gli viene queste perfezione? Lo vediamo facilmente considerando la triplice unione del sacerdote con Dio, con la vittima che offre e con il popolo per il quale la offre. Più il sacerdote è unito a Dio e più il suo sacrificio è perfetto; più è unito alla vittima e più ugualmente il suo sacrificio è perfetto. Infine, più è unito al popolo con il quale lo offre e più il suo sacrificio è perfetto. Quindi, più il sacerdote sarà unito a Dio, più il sacerdozio sarà perfetto, poiché il sacerdote deve supplire con la sua santità all’imperfezione dell’adorazione, della riconoscenza, dell’espiazione e della supplica del popolo, come spiega san Tommaso. Più la vittima sarà pura, preziosa ed interamente consumata in onore di Dio, più il sacrificio sarà perfetto. L’olocausto era il più perfetto dei sacrifici della vecchia Legge perché tutta la vittima era consumata in onore di Dio, per significare che l’uomo deve offrirsi a lui interamente. Più il sacerdote e la vittima saranno uniti, più il sacrificio sarà perfetto, poiché l’oblazione e l’immolazione esteriori della vittima non sono che il segno dell’oblazione e dell’immolazione interiori del cuore del sacerdote che compie in tal modo l’atto più grande della virtù di religione. Infine, più il sacerdote ed il popolo saranno uniti, più il sacerdozio sarà perfetto, poiché il sacerdote deve riunire tutte le adorazioni, rendimenti di grazie, preghiere, riparazioni dei fedeli in un’unica elevazione a Dio. E’ sufficiente applicare questi principi al sacerdozio di Nostro Signore per concludere immediatamente che è il maggiore di tutti quelli che si possano concepire. Infatti, Gesù Cristo sacerdote non è soltanto puro da ogni colpa originale e personale, da ogni imperfezione, ma è la Santità stessa. Non è possibile immaginare un sacerdote più unito a Dio. E’ egli stesso Dio grazie alla sua unione ipostatica[15]. Di conseguenza, grazie alla sua unione con Dio, non può che essere il sacerdote più perfetto. Non può esistere un’unione più perfetta tra Nostro Signore, sacerdote, e la sua vittima. La vittima è egli stesso(Ep 5,2) e non si può immaginare una vittima più perfetta di Nostro Signore. Anche qui, Egli è la perfezione assoluta, che supera tutto quanto si possa immaginare. L’unione tra il sacerdote e la vittima non può essere più intima, il legame del sacrificio esteriore e di quello interiore non può essere più stretto, poiché è il sacerdote stesso ad essere vittima[16], non solo nel suo corpo, ma nel suo cuore e nella sua anima. Il suo dolore più intenso è generato dalla sua carità alla vista del male immenso che ha la missione di cancellare. Questa unione tra il sacerdote e la vittima si è manifestata sempre di più nell’ultima Cena, al Calvario e dopo la Resurrezione. L’eucaristia, nel Cenacolo, è l’inizio della Passione; ne è anche la conseguenza. Quindi, il sacerdote e la vittima non possono essere uniti più perfettamente che in Nostro Signore immolato per noi. Infine, neppure l’unione tra il sacerdote ed il popolo fedele può essere maggiore che in Nostro Signore, perché egli è il capo del corpo mistico. Non può esistere un unione più grande che quella che vi è tra le membra ed il capo del corpo mistico perché noi siamo uniti a lui, nel corpo mistico, tramite la partecipazione alla sua grazia. E’ quindi Gesù, in qualche modo esteso al corpo mistico, che offre il sacrificio[17].

2. Il nostro sacerdozio

San Paolo e quindi lo Spirito di Dio, che gli ha dettato queste parole, afferma: “Il sacerdote, che è scelto tra gli uomini, è costituito sacerdote per gli uomini” (Eb. 5,1). Facciamo attenzione a questa prima affermazione, che potrebbe forse giustificare il nuovo orientamento che si vuole dare al sacerdote oggi: un uomo costituito solo per gli uomini. Ma che dice dopo san Paolo? Precisa: “per gli uomini, per ciò che riguarda il culto di Dio” (Eb. 5,1). E’ costituito per gli uomini, senza dubbio, ma nelle cose che sono di Dio, per condurli a Dio. E’ questa la finalità del sacerdozio[18]. San Paolo prosegue: “Affinché offra doni e compia il santo sacrificio per la Redenzione dei peccati” (Eb. 5,1). Ed aggiunge anche: “Poiché è egli stesso soggetto a debolezza, deve compatire ed essere indulgente con coloro che sono nell’errore e nell’ignoranza” (Eb. 5,2). Lì si trova tutto il segreto del sacramento della penitenza. Il sacerdote è quindi costituito per offrire il santo sacrificio e diffondere le grazie del sacrificio, in modo particolare tramite il sacramento della penitenza, per chinarsi su coloro che sono nell’errore e nell’ignoranza. Dato che egli stesso è peccatore, deve offrire il santo sacrificio per i suoi propri peccati e non solo per i peccati del popolo di Dio. Vedete che in poche righe, san Paolo ha riassunto ciò che costituisce l’essenza stessa del sacerdote. Allora, è importante che tutti quelli che sono chiamati a salire all’altare per ricevere un’ordinazione che li prepara ad offrire questi sacri misteri di Nostro Signore Gesù Cristo meditino queste parole di san Paolo. Devono sapere che anche loro sono deboli, e tuttavia Dio li ha scelti. E’ ancora san Paolo a dirlo: “Nessuno si attribuisce da se stesso questo onore; ma ci si è chiamati come Aronne” (Eb. 5,4), come i leviti, per offrire il vero sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo[19]. Quale mistero! Dio che vuole scegliere degli esseri umani per santificare gli uomini, per consacrarli alla continuazione della sua opera di Redenzione affidando loro il suo proprio sacrificio! E’ questo un grande mistero d’amore, di carità verso di noi e tutti quelli che attraverso il sacerdozio, nel corso dei secoli, riceveranno grazie di santificazione[20]. 

Mons. Marcel Lefebvre
La sainteté sacerdotale p. 191 e ss.

sabato 28 marzo 2015

Le relazioni della Fraternità S. Pio X con Roma, secondo Mons. Pozzo


Dal mondo della Tradizione

In occasione della consacrazione di don Jean-Michel Faure da parte di Mons. Richard Williamson, il 19 marzo 2015 al monastero Santa Cruz di Nova Friburgo (Brasile), l’agenzia romana I.Media ha interrogato Mons.Guido Pozzo, segretario della Commissione Ecclesia Dei.

Quest’ultimo ne ha approfittato per fare il punto sullo stato delle relazioni tra la Fraternità S. Pio X e Roma, dichiarando che aldilà delle difficoltà dottrinali che perdurano, i problemi sono «interni alla Fraternità». Secondo il prelato romano citato da I.Media: «Il Papa attende che la Fraternità decida di entrare (nella Chiesa ndr) e noi siamo sempre disponibili con un progetto canonico che è già conosciuto», vale a dire la creazione di una prelatura personale. «E’ necessario un po’ di tempo affinché le cose si chiariscano all’interno e Mons. Fellay possa ottenere un consenso abbastanza ampio prima di compiere questo gesto». – Siamo noi a evidenziare quest’affermazione.

Alla Casa generalizia della Fraternità S. Pio X, ci si interroga sull’intenzione di Mons. Pozzo nella sua ultima frase che non corrisponde alla realtà: È questa la sua visione della situazione? Un suo personale auspicio? O la volontà d’introdurre una divisione all’interno della Fraternità?

Mons. Fellay ha già risposto alla Commissione Ecclesia Dei, a più riprese, oralmente e per iscritto, che sono essenzialmente le «difficoltà dottrinali» - ossia la richiesta fatta da Roma di accettare il concilio Vaticano II e le riforme che sono seguite in una «ermeneutica di continuità» - che rendono il riconoscimento canonico, sotto la forma di una prelatura personale, impossibile al momento.

I recenti incontri informali tra membri della Fraternità S. Pio X e alcuni vescovi, richiesti dalla CommissioneEcclesia Dei, permettono di far meglio conoscere la Fraternità e le sue opere, ma prima di tutto le sue posizioni dottrinali. Gli interlocutori romani della Fraternità sono obbligati a riconoscere che molte questioni restano «aperte», in altre parole che le difficoltà dottrinali sono lontane dall’essere risolte.

In questo modo il Superiore Generale conferma la necessità di presentare alle autorità romane le posizioni della Fraternità nella loro integralità, e di non cambiare queste posizioni che non sono in fondo che quelle di tutti i Papi prima del Vaticano II.

(...)

Riguardo ai "problemi pratici" che potrebbero essere risolti tramite gesti concreti, ricordiamo che durante il pellegrinaggio a Roma delle Domenicane insegnanti di Fanjeaux, svoltosi dal 9 al 14 febbraio scorso, 200 religiose, 950 alunne accompagnate da un centinaio di professori e genitori non hanno potuto beneficiare di una chiesa perché i loro cappellani potessero celebrare la S. Messa tradizionale... perché erano membri della Fraternità San Pio X. Le parole lenitive sono volatili, i fatti concreti sono ben più eloquenti.

Fonte. DICI

F.S.S.P.X Orari della Settimana Santa - Priorato di Albano laziale


Orari della Settimana Santa

al Priorato di Albano laziale
e
CAPPELLA DI SANTA CATERINA DA SIENA VIA URBANA 85 ROMA

Domenica delle Palme - 29 marzo

Ore 8.00 Messa letta

Ore 10.30 Benedizione delle Palme, processione e Messa cantata

"CAPPELLA DI SANTA CATERINA DA SIENA VIA URBANA 85 ROMA ore 11:00"

Giovedì Santo - 2 aprile

Ore 7.30 Canto delle Tenebre

Ore 19.00 Messa in Coena Domini

a seguire: processione al sepolcro, spoliazione degli altari, adorazione fino a mezzanotte

Venerdì Santo - 3 aprile

Ore 7.30 Canto delle Tenebre

Ore 15.00 Via Crucis

Ore 18.00 Funzione liturgica pomeridiana

Sabato Santo - 4 aprile

Ore 7.30 Canto delle Tenebre

Ore 21.30 Veglia pasquale

Domenica di Pasqua - 5 aprile

Non ci sarà la Messa alle ore 8.00

Ore 10.30 Messa cantata

CAPPELLA DI SANTA CATERINA DA SIENA VIA URBANA 85 ROMA
SANTA MESSA CANTATA DELLA DOMENICA DI PASQUA ORE 11 

venerdì 27 marzo 2015

Il Santo Rosario l’arma per la conversione


Basilica di San Pietro


Il nostro piccolo gruppo di amici, si vuole fare corona di rose per la Santa Vergine e di Gesù, riparare con questa meravigliosa preghiera gli oltraggi che ogni giorno vengono compiuti, trafitti i SS.mi sacri Cuori di Gesù e Maria.Ieri Giovedì, ultimo di Quaresima ci siamo riuniti, alle 20:30 in piazza San Pietro davanti all'obelisco, e li abbiamo implorato l'aiuto di Colei che ha schiacciato la testa dell'antico serpente, a Colei che ai piedi della Croce riceveva nelle sue mani il testamento del Redentore moribondo che la proclamava Madre della Chiesa. Il Cristo c'è la donava e ci affidava a Essa.Li noi abbiamo pregato per i sacerdoti perchè da lei si facciano istruire perchè corrano alla scuola di Maria in questi tempi così difficili dove la Chiesa corre il serio rischio di cadere nella più grande "Apostasia" constatando che i peccati degli uomini sono di ostacolo alla conversione.

Il santo Rosario, essendo sostanzialmente composto dalla recita del Padre nostro e dall’Ave Maria e dalla meditazione dei misteri di Gesù e di Maria, è senza dubbio la prima e la principale devozione in uso presso i fedeli, dal tempo degli Apostoli e dei primi discepoli. Tuttavia, nella forma e nel metodo in cui è recitato attualmente, fu ispirato alla Chiesa e suggerito dalla Vergine a san Domenico per convertire gli Albigesi e i peccatori, soltanto nel 1214.

mercoledì 25 marzo 2015

Il 25 marzo 1991, festa dell’Annunciazione Mons. Lefebvre rende la sua anima a Dio.

Breve Biografia

"Ho combattuto la  buona Battaglia ho conservato la Fede"
S. Ecc. Mons. Marcel Lefebvre
Requiescat in pace
29 novembre 1905 - 25 marzo 1991

Marcel Lefebvre nasce il 29 novembre 1905 da una famiglia di industriali del nord della Francia. Dopo gli studi secondari, raggiuge il fratello maggiore nel seminario francese di Roma, nell’ottobre 1923. Mons. Lefebvre conserverà sempre una grande stima per il direttore del seminario francese, Padre Henri Le Floch, che gli fece amare e riverire l’insegnamento dei papi. Il Padre spiegava con forza le grandi encicliche contro gli errori moderni come il liberalismo, il modernismo o il comunismo. Il 21 settembre del 1929, Marcel Lefebvre viene ordinato sacerdoteda Mons. Liénart a Lilla.


In seguito ritorna a Roma per preparare il suo dottorato in teologia, mentre svolge il compito di gran cerimoniere del seminario. Già titolare di un dottorato in filosofia, ottiene il dottorato in teologia il 2 luglio del 1930.

Dal 1930 al 1931 è vicario in una periferia operaia di Lilla, mentre aspetta dal suo vescovo il permesso di entrare nella Congregazione missionaria dei Padri dello Spirito Santo. Il 1 settembre del 1931 inizia il suo noviziato.

Dopo aver emesso la sua professione religiosa, l’8 settembre 1932, il 12 novembre s’imbarca per Libreville (Gabon), ove viene nominato professore nel seminario, posto che occuperà fino al 1934, quando gli verrà affidata la direzione fino al 1938. In quest’anno, soffrendo di paludismo e completamente esaurito, fu mandato a “riposarsi in campagna”.

Dal 1938 al 1945, il Padre Marcel è il Superiore di diverse missioni in Gabon. Egli dimostra un gran senso dell’organizzazione e si rivela un eccellente amministratore. Attento alla modernizzazione delle installazioni per facilitare gli incarichi di tutti, fa installare gruppi elettrogeni, macchine, acqua corrente… Nell’ottobre del 1945 viene richiamato in Francia dove gli viene affidato lo scolasticato di filosofia degli Spiritani, a Mortain (Manche). Egli si dedica alla riparazione della casa, che era stata danneggiata dalla guerra, e alla formazione dei seminaristi secondo l’insegnamento dei papi.

Il 25 giugno 1947 viene nominato vicario apostolico a Dakar, e il 18 settembre 1947 è consacrato vescovo.


Nel 1948, Pio XII lo nomina delegato apostolico per l’Africa nera francofona, l’equivalente di Nunzio apostolico. Dal momento che il delegato doveva avere il rango di arcivescovo, Mons. Lefebvre viene nominato arcivescovo titolare di Arcadiopolis in Europa. Egli è rappresentante del Papa in una diocesi, 26 vicariati e 17 prefetture apostoliche, su un territorio che andava dal Marocco e dal Sahara fino al Madascascar e a Le Reunion, passando per l’Africa Orientale Francese, il Camerun francese, l’Africa Equatoriale e la Somalia, con una popolazione cattolica di più di due milioni di fedeli.
Nel 1949, sul sagrato della cattedrale di Dakar, il ministro della Francia d’Oltremare gli consegnò la croce di Cavaliere della Legion d’Onore.

Almeno una volta l’anno, il delegato apostolico rendeva conto al Papa del suo operato e riceveva le sue direttive. In tal modo egli fa la conoscenza dei diversi dicasteri della Curia romana. Nella Segreteria di Stato, in cui si recava come diplomatico, Mons. Lefebvre frequenta due sostituti: Mons. Tardini e Mons. Montini; quest’ultimo riceveva il delegato amabilmente, ma non manifestava simpatia per le sue idee.


Dopo l’elezione di Giovanni XXIII viene rimosso dall’incarico di delegato apostolico, rimanendo però arcivescovo di Dakar. Ma la sua inflessibile franchezza nel difendere l’insegnamento dei papi e nel denunciare il “socialismo credente” del Presidente Senghor gli valse la collera di quest’ultimo e contribuì indubbiamente ad affrettare le sue dimissioni, auspicate (silenziosamente) da Roma.

Nel 1962 viene trasferito dalla sede arcivescovile di Dakar alla sede episcopale di Tulle, col titolo personale di arcivescovo. I vescovi francesi avevano fatto pressione a Roma perché non fosse nominato arcivescovo di Albi, come era stato prospettato, e avevano accettato la sua venuta in Francia alla sola condizione che venisse inviato in una piccola diocesi. Non volevano saperne di lui a causa delle sue “tendenze integraliste”.

A Tulle la situazione era triste, vocazioni in calo, pratica anche, i sacerdoti vivevano nella miseria e si scoraggiavano. Mons. Lefebvre assume delle misure energiche, stimola il coraggio dei suoi sacerdoti visitandoli e sostenendoli. È impressionato dalla differenza che costata tra la missione fiorente appena lasciata e la desolazione trovata in Francia. Ma il 26 luglio 1962, Mons. Lefebvre viene eletto, con una maggioranza confortante, Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo. Era stato vescovo di Tulle per sei mesi.

Il 25 gennaio 1959, il Papa Giovanni XXIII annunciò la convocazione del Concilio. Mons. Lefebvre viene nominato tra i membri della Commissione preparatoria centrale per il Concilio e assiste così a tutte le sedute, talvolta presiedute dal Papa, dov’è testimone della contrapposizione, talvolta violenta, tra la tendenza liberale e i membri conservatori della Commissione. Cosa che gli appare come un presagio funesto.

Durante il Concilio, a fronte dell’importanza assunta dalle tesi moderniste, sostenute da una vera lobby, preparata e organizzata, dà vita, insieme ad altri vescovi, alCoetus internationalis Patrum, di cui fu il Presidente. Conosce Mons. De Castro Mayer, vescovo di Campos, in Brasile, che farà parte del Coetus. Con la sua battaglia in seno al Coetus e con i suoi interventi lotta contro l’influenza modernista che gravava sul Concilio, ma i risultati sono insufficienti.

Come Superiore degli Spiritani, lotta contro il rilassamento e le deviazioni teologiche, sfortunatamente ancora senza un completo successo, poiché gli uomini che nomina non sempre sono degni della sua fiducia. Riforma l’organizzazione della Congregazione, trasferisce la casa madre a Roma e attraversa il mondo per visitare le case, incoraggiare e organizzare.

Nel 1965 ebbe inizio l’“aggiornamento” delle Congregazioni religiose, richiesto dal Concilio. Mons. Lefebvre vuole che esso vada nel senso di un raddrizzamento delle deviazioni e di una maggiore santità della vita religiosa. È lungi dall’essere chiuso ad ogni riforma, anche audace, purché si inscriva nel solco della fedeltà ai fondatori. Al Capitolo generale della Congregazione, nel 1968, si cercò di metterlo da parte, lo spirito che regnava guardava alle riforme di cattivo genere. Per non firmare dei decreti che avrebbero messo la Congregazione sull’onda del momento, Mons. Lefebvre lascia il Capitolo e si ritira dopo l’elezione del suo successore in una piccola pensione gestita da religiose, a Roma. Ha 63 anni.

Da diversi anni era stato sollecitato da dei sacerdoti, e soprattutto da dei seminaristi in cerca di una seria formazione. Egli li aveva indirizzati al seminario francese di Roma, tenuto dagli Spiritani, pensando potesse conservare una condotta sana. Ma non fu il caso, poiché il rettore del seminario non teneva conto dei pareri del Superiore generale. Monsignore indirizzò allora certi seminaristi verso una società sacerdotale di Roma e certi altri verso l’università cattolica di Friburgo, in Svizzera. Di fronte all’insistenza di nuovi sacerdoti e di nuovi seminaristi, che lo supplicavano di iniziare lui stesso un’opera per il sacerdozio, egli si rimette alla decisione del vescovo di Friburgo, che l’autorizzò molto volentieri ad aprire un “convitto” per dei seminaristi di ogni paese. Nasce così il seminario. Mons. Lefebvre affitta dodici camere in un locale religioso a Friburgo e riceve i suoi primi candidati il 13 ottobre del 1969. Gli inizi sono difficili, le partenze numerose, per di più Mons. Lefebvre è provato dalla malattia.

Nel giugno del 1970 compra una casa, sempre a Friburgo, per alloggiarvi i seminaristi, che continueranno i loro studi all’Università, mentre accetta una casa ad Ecône offertagli dai proprietari, per installarvi, con l’autorizzazione di Mons. Adam, vescovo di Sion, uno anno di spiritualità per i nuovi venuti (in applicazione del decreto del Concilio sulla formazione dei sacerdoti).

Il 1 novembre 1970, Mons. François Charrière, vescovo di Friburgo, approvò gli statuti redatti da Mons. Lefebvre per la Fraternità Sacerdotale San Pio X, e la eresse nella sua diocesi. Lo scopo della Fraternità, fissato negli statuti, è «il sacerdozio e tutto ciò che vi si riferisce e solo ciò che lo concerne».

I corsi dell’Università di Friburgo non erano soddisfacenti e Mons. Lefebvre ottiene dal vescovo di Sion il permesso di installare un seminario a Ecône, che conoscerà un rapido sviluppo.

Di fronte all’angoscia e allo scoraggiamento di numerosi cattolici colpiti dalla sparizione della fede, dallo sconvolgimento della liturgia e dalla perdita di ogni senso divino, Mons. Lefebvre prende il suo bastone di missionario e comincia a girare l’Europa e il mondo, facendo delle conferenze, incoraggiando i fedeli disorientati e i sacerdoti perseguitati a raggrupparsi a e conservare la fede senza compromessi.

Nel 1973, su richiesta di una giovane australiana, Mons. Lefebvre fonda, con l’aiuto della sorella, Madre Marie Gabriel, religiosa dello Spirito Santo, una società di religiose, a cui aveva già pensato fin dalla redazione degli statuti della Fraternità. È l’inizio delle Suore della Fraternità, che si installano nella casa acquisita nei dintorni di Roma, ad Albano. La loro vocazione le chiama ad essere l’aiuto discreto ed efficace dei sacerdoti, pur conservando una vita semi contemplativa (un’ora al giorno di adorazione eucaristica). I Fratelli della Fraternità nascono verso la stessa epoca, mentre l’istituzione delle oblate è contemporanea a quella delle Suore della Fraternità. Fin dal 1971 alcuni pii laici avevano chiesto a Mons. Lefebvre la possibile costituzione di un terz’ordine, che sarà eretto finalmente nel 1981, secondo le regole stabilite dal fondatore.


L’11 novembre 1974 venne effettuata una visita apostolica a Ecône in seguito alle lamentele dei vescovi francesi avverso questo seminario che conserva la Messa e la Tradizione e che riceve delle vocazioni mentre i loro seminari si svuotano.

Il 21 novembre 1974 Mons. Lefebvre, in una vibrante dichiarazione, afferma il suo attaccamento alla Roma eterna e il suo rifiuto «della Roma di tendenza neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata chiaramente nel Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite».

Mons. Lefebvre viene convocato a Roma per un “colloquio”, in effetti si trattò di una messa sotto accusa. Il 6 maggio la Fraternità venne illegittimamente “soppressa”. Mons. Lefebvre si appella allora alla Signatura Apostolica, ma l’appello venne bloccato dal cardinale Jean Villot, Segretario di Stato. Di fronte a questo diniego di giustizia, nella calma e nella pace, il prelato decide di proseguire la sua opera, considerando che la Fraternità continuava ad esistere poiché la sua soppressione era irregolare e comunque ingiusta.

Il 29 giugno 1976, trascurando le minacce di Roma e ritenendo che la battaglia che conduce è fondamentale per la difesa della Messa e della fede, Mons. Lefebvre ordina 13 sacerdoti e 14 suddiaconi senza lettere dimissionarie. Viene colpito dalla sospensione a divinis, che dovrebbe privarlo dell’esercizio di ogni atto sacramentale. Questa sanzione non lo turba né lo prende alla sprovvista e, in una visione superiore del suo dovere, continua a condurre la buona battaglia contro tutte le deviazioni che fanno già vacillare la Chiesa.


Il 29 agosto egli celebra una pubblica Messa solenne a Lille, davanti a 7000 fedeli, che la stampa pubblicizza enormemente, parlando di vescovo “ribelle”.
Tuttavia, viene ricevuto in udienza da Paolo VI l’11 settembre, dove scopre di essere stato gravemente calunniato presso il Papa. Questi tuttavia non vuole cedere in niente a riguardo della Messa di San Pio V, desideroso di imporre la “sua” riforma, mentre Mons. Lefebvre, in nome della fedeltà alla Chiesa di sempre, non vuole e né può accettare né la Chiesa “conciliare” né la nuova Messa.

Nel settembre del 1976 pubblica il libro Accuso il Concilio.

Il 18 novembre 1978, appena un mese dopo la sua elezione, Giovanni Paolo II riceve Mons. Lefebvre. Il colloquio ha inizio favorevolmente, ma l’intervento del cardinale Seper, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, guasta tutto. Comunque gli viene consegnato un dossier. È l’inizio di un processo che durerà degli anni e nel corso del quale il fondatore di Ecône andrà spesso a Roma per spiegarsi e per cercare di ottenere un ritorno alla Tradizione, guardiana della fede, o quanto meno che essa possa essere seguita liberamente dalla Fraternità. Ma né il cardinale Seper né il suo successore, il cardinale Ratzinger, si dimostrano disposti a fare un gesto qualunque.

Nel 1983 Mons. Lefebvre, già progressivamente deluso dai testi dal sapore modernista del Papa Giovanni Paolo II, rimane profondamente scioccato dal nuovo Codice di Diritto Canonico che trasforma in leggi le deviazioni del Concilio. Egli allora prende seriamente in considerazione una consacrazione episcopale e s’impegna lungo la via delle contestazioni pubbliche contro gli scandali perpetrati dal vertice della Chiesa.

Nel 1985 Mons. Lefebvre presenta a Roma i suoi dubia: 39 proposizioni, o “dubbi”, relative alla discordanza della dottrina conciliare sulla libertà religiosa con l’insegnamento precedente della Chiesa.

Nell’ottobre del 1986 si verificò il terribile scandalo di Assisi, al quale Mons. Lefebvre replicò con una lettera firmata insieme a Mons. De Castro Mayer.

Nel marzo del 1987 arriva la risposta di Roma ai dubia. Risposta insoddisfacente. E nel giugno 1987 l’arcivescovo pubblica il libro che tratta della distruzione del regno sociale di Cristo: L’hanno detronizzato. 

Il 29 giugno del 1987 Mons. Lefebvre annuncia pubblicamente la sua intenzione di darsi dei successori nell’episcopato. La risposta ai dubia è il segno che attendeva, poiché, spiega, è più grave affermare dei falsi principi che compiere un atto scandaloso. Egli fissa la data della consacrazione per la festa di Cristo Re.

Roma allora reagisce e propone la visita di un cardinale, avente lo scopo di assumere informazioni. Mons. Lefebvre accetta il visitatore e comunica la novità ai 4000 fedeli venuti ad assistere alla Messa di ringraziamento per i suoi 40 anni di episcopato, il 3 ottobre.

L’11 novembre, il cardinale Cagnon iniziò la sia visita, che si concluse l’8 dicembre a Ecône. Il cardinale non esitò ad assistere alla Messa pontificale dell’arcivescovo sospeso e all’impegno che assumono dei giovani in una Fraternità soppressa! Il rapporto del visitatore, per quello che è possibile sapere, sarà favorevole.
Mons. Lefebvre ha esposto chiaramente le sue esigenze. Il 2 febbraio 1988 egli conferma che consacrerà almeno tre vescovi con o senza l’approvazione del Papa, per il bene della Chiesa e la perpetuità della Tradizione. A questo punto si aprono dei negoziati a Roma tra i rappresentanti della Fraternità e dei membri della Congregazione per la Dottrina della Fede. Che si concludono il 5 maggio con la firma di un protocollo d’accordo con Roma, ma, resosi subito conto che il cardinale Ratzinger non è pronto ad accordare ciò che gli si chiede, Mons. Lefebvre ritratta. Si consulta e il 2 giugno 1988 comunica per iscritto al Papa la sua decisione di consacrare 4 vescovi il 30 giugno. 

Il 30 giugno 1988, egli procede alla consacrazione dei 4 vescovi, alla presenza di 10.000 fedeli e di una folla di giornalisti. Nel corso della celebrazione Mons. Lefebvre spiega chiaramente la necessità in cui si trova di trasmettere l’episcopato, per il bene della Chiesa e malgrado l’opposizione della Gerarchia. La scomunica, logica nello spirito delle autorità romane, arriverà l’indomani, ma rivela la sua debolezza e finisce con l’indicare l’impotenza di un modernismo un tempo trionfante e già disgregato in una corruzione che fa sentire il suo lezzo in tutta la Chiesa.


Durante i tre anni che Dio ha voluto mantenerlo in vita, dal 1988 alla morte, Mons. Lefebvre accompagna con la sua presenza morale i suoi 4 vescovi ausiliari, introduce nei loro incarichi i suoi prossimi eredi e lascia che conferiscano già le ordinazioni, alle quali assisterà modestamente.

Ma la sua salute è in declino, compie un ultimo viaggio intercontinentale nel 1990 e si reca in Gabon. L’11 febbraio 1991 fa la sua ultima conferenza ai seminaristi.L’8 marzo celebra la sua ultima Messa e parte per Parigi, ma nella notte del 9 marzo sveglia il suo autista e gli chiede di riportarlo in Svizzera. Viene ricoverato d’urgenza all’ospedale di Martigny, il 18 marzo viene operato, il 24 marzo, Domenica delle Palme, il suo stato peggiora rapidamente.

Il 25 marzo 1991, festa dell’Annunciazione, quell’anno coincidente con il Lunedì Santo, alle 3,25 del mattino, mentre il Superiore Generale della Fraternità, Don Franz Schmidberger, e il Direttore del Seminario di Ecône, Don Michel Simoulin, pregano per lui, Mons. Lefebvre rende la sua anima a Dio.


martedì 24 marzo 2015

Anniversario della morte di S.E. mons. Marcel Lefebvre


Ventiquattro anni fa si spegneva in Svizzera "l'Atanasio del XX secolo". Era il 25 marzo, Lunedì Santo.
È morto il giorno in cui, mediante l'Incarnazione, il Verbo eterno è stato consacrato Sacerdote nel seno della Vergine Maria; è morto il primo giorno della Settimana Santa, l'inizio della dolorosa Passione che porterà Gesù, Sommo Sacerdote, ad offrire se stesso sulla Croce «in oblazione di soave odore».
«Tradidi quod et accepi – Ho trasmesso quello che ho ricevuto»: conserviamo la sua preziosa eredità!

Roma, Piazza san Pietro. Giovedì 26 Santo Rosario per i Sacerdoti e il Sacerdozio

Ci ritroveremo in Piazza San Pietro
Giovedì 26 marzo - alle ore 20,30
sotto l'Obelisco di Papa Sisto V    
che contiene le reliquie della Croce 
dove reciteremo il Santo Rosario, invocando la potente intercessione della Vergine Santa, per i Sacerdoti e il Sacerdozio.

Non importa quanti saremo numericamente, non ci interessa la visibilità ma la concretezza e l'intensità della nostra intenzione. È solo un primo raduno, improvvisato ma sentito, da chi aderisce. L'importante è che chi ci legge - dovunque si trovi - si unisca in spirito alla fervorosa preghiera. Quando non si può garantire una presenza personale, si può dare il supporto della propria preghiera, che salga incessantemente al Trono dell'Altissimo per intercessione della Sua e nostra tenera Madre. 

* * * * *


«Il Pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio. Senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere il comando di Gesù: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,25) e «Andate dunque e ammaestrate tutte le genti» (Mt.19), ossia il comando di rinnovare ogni giorno il Suo sacrificio per la vita del mondo e di annunciare il Vangelo.
Ogni Giovedì Santo inizia quel Santo Triduo che è, in un certo senso, un solo Giorno: Giorno-Mistero, Giorno-Pasqua. In questo Giorno, nel Cenacolo, dalla pienezza della potenza messianica del Signore, nasce l'Eucaristia e il Sacerdozio. Nel Giovedì Santo la Chiesa benedice, ogni anno, gli Oli liturgici, mediante i quali essa predica il nuovo "anno di grazia del Signore" (Lc 4,19; Is 61,2).


Nelle ore serali del Giovedì Santo si rinnova l'Ultima Cena, durante la quale Cristo ha lasciato agli Apostoli il sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue; ha lasciato l'Eucaristia e ha fatto degli Apostoli 1) gli unti in modo particolare della stessa sua unzione di Messia atteso dalle genti e Sommo Sacerdote della Nuova ed eterna Alleanza e 2) mandati mediante il sacramento del sacerdozio.

Istituendo il Sacrificio, dal quale si costruisce costantemente la Chiesa, Cristo ha benedetto i sacerdoti, ministri del suo Sacrificio. Egli ha detto: «Fate questo... in memoria di me». E, solo nella fedeltà a quando Egli ha consegnato, questo diventa possibile anche per ogni fedele.
Se l'evangelizzazione non nasce dal sacrificio e dai sacramenti, divelta dal suo scopo, risulterà disorientata, cercherà dei motivi che piacciono al mondo, quali la falsa giustizia sociale, le false libertà che si bardano di nomi nuovi: sviluppo, progresso, costruzione del mondo, miglioramento delle condizioni di vita, pacifismo. Il cristianesimo trasformato in umanitarismo.

Supplichiamo il Padrone della Messe perché mandi operai che la facciano crescere e fruttificare secondo il suo cuore. E per questo preghiamo per tutti i sacerdoti e per il sacerdozio in un momento concreto e pubblico, che abbiamo pensato di promuovere nel cuore della cristianità.
Io ci sarò.
Maria Guarini

lunedì 23 marzo 2015

PECCATI CONTRO LO SPIRITO SANTO di Don Timoteo Munari




 Ma quali sono dunque i peccati contro lo Spirito Santo?

Eccoli:

1 – Disperazione per la salvezza.

2 – Presunzione di salvarsi senza merito.

3 – Impugnare la verità conosciuta.

4 – Invidia della grazia altrui.

5 – Ostinazione nei peccati.

6 – Impenitenza finale.

Così li troviamo descritti nel Catechismo di Pio X.

1. Che cosa è la disperazione per la salvezza?

“Gesù non mi può salvare”, questa è la bestemmia contro lo Spirito Santo. Egli infatti ha reso e continua a rendere testimonianza che Gesù è il Signore, il Figlio di Dio venuto a cancellare i peccati del mondo con la sua morte e risurrezione. Dio, dice la Scrittura, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. (1 Tm 2,4). Il credente non deve vivere nella paura di non essere salvato. Ciò costituisce un grave affronto alla bontà di Dio, Padre di infinita misericordia.

Neppure dobbiamo dar credito alle tentazioni, per quanto siano terribili, o agli scrupoli che ci tormentano e ci fanno dubitare di essere salvati. Neanche per scherzo si deve dire: Chissà se mi salvo? Nulla ti turbi, ci ripete la sapienza dei santi. Dio offre a tutti la salvezza e i mezzi per raggiungerla. Chi si dispera rischia di rompere in modo definitivo, da parte sua naturalmente, tutti i buoni rapporti con Dio. Ha combinato tanti pasticci, ha infranto ogni buon comportamento con il suo prossimo, ha offeso profondamente Dio, scartando il suo amore, ha messo il suo “io” al di sopra di “Dio”, insomma si è scapricciato fino alla frenesia e, infine, si è convinto che Gesù non ha il potere di perdonare i suoi errori. Un simile pensiero e comportamento non è altro che uno schiaffo a Dio che è impastato di amore e di misericordia e che per i peccatori ha inviato suo Figlio. Il mio grido, e non solo mio, è questo: Permettete che Gesù vi perdoni e vi inondi del suo amore.

Se tu non vuoi che questo ti succeda bisognerà che tu stesso vinca questa terribile tentazione, questo angoscioso dubbio, ti decida ditornare presto nella casa del Padre. Come? Tieni bene a mente che Dio è un vero Padre, con un cuore che ama e non odia mai. Dio è Amore. Se ti rivolgi a lui vedrai che egli già ti corre incontro, ti butta le braccia al collo, ti fa nuovo. Riconosci i tuoi peccati e permettigli di perdonarti e di darti una mano perché l’amore vero prenda possesso del tuo cuore.

Per non aver paura della morte, il tuo impegno deve essere questo: fa’ bene il tuo dovere, fidati di Dio, fa’ del bene a tutti e del male a nessuno e sta allegro. Così diceva Don Bosco.

La crisi di San Francesco di Sales

Francesco di Sales, quando era giovane studente a Parigi, si trovò sprofondato in una grande tribolazione: la Chiesa Cattolica insegnava che Dio è Amore infinitamente misericordioso, mentre al contrario la dottrina di Calvino, che imperversava in quel tempo, sbandierava nelle scuole la teoria che Dio da sempre destina alcuni alla salvezza e altri alla dannazione.

La tentazione lo ghermì al punto che fu convinto di essere un dannato. Durante questa terribile crisi le sue invocazioni a Dio erano queste: “Io, miserabile, sarò dunque privato della grazia di Dio? O amore, o carità, o dolcezza, non godrò più di queste delizie? O Vergine, bella tra le figlie di Gerusalemme, non vi vedrò nel regno del vostro Figlio? E il mio Gesù non è morto anche per me? Signore, che almeno vi ami in questa vita se non posso amarvi in quella eterna”.

Un giorno Francesco entra in una chiesa e si dirige subito alla cappella della Vergine. Si inginocchia e compie un atto eroico di abbandono. “Qualunque cosa abbiate deciso, o Signore, nell’eterno decreto della vostra predestinazione, io vi amerò, Signore, almeno in questa vita, se non mi è concesso di amarvi nella vita eterna”. Poi recita la Salve Regina,il “Ricordati” di San Bernardo e la tentazione svanì completamente.
2. Davvero tu presumi di salvarti senza merito?

Pensare di salvarsi senza bisogno di chiedere perdono significa negare l’amore di Dio. Davanti a un regalo così grande – perché si tratta di regalo –, tu pretendi, tu esigi? Sei certo che Dio sia un Dio di infinita bontà e che non gli costi nulla a dare il perdono e il premio? Come puoi dire che non gli costa?

Presumere di salvarsi senza fare nulla pensando e sperando di ottenere il perdono e il premio senza bisogno di chiedere scusa a nessuno è proprio il modo con il quale si nega l’amore con cui lo Spirito Santo ha accompagnato e sostenuto il Figlio della Vergine Maria, Gesù, nei momenti più terribili della sua passione e morte, quando Lui ha avuto il coraggio di implorare il suo Dio così: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.”

3. In cosa consiste impugnare la verità conosciuta?

Vuol dire contestare soprattutto la persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che per noi è morto e il terzo giorno è risorto. Lui solo ha vinto sulla croce il peccato e la morte. Non vi è altra salvezza. Ma tu forse vuoi trattare direttamente con l’Eterno Padre: lui sì che ti capisce e ti perdona, senza intermediari. Lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, è lui che ci ha rivelato che Gesù Cristo è l’unico Salvatore del mondo.Ma negare che il Cristo detiene il potere di togliere i peccati del mondo, vuol dire offendere gravemente lo stesso Spirito, garante di questa verità. Un peccato imperdonabile, come affermò il Signore Gesù in risposta ai Farisei, i quali osarono dire che egli cacciava i demoni nel nome di Beelzebul. (La bestemmia contro lo Spirito Santo)
4. Invidia della grazia altrui.

Sentire volontariamente un profondo dispiacere e astio verso una persona che ha ricevuto da Dio doni e grazie più eccellenti dei suoi, accusando il Signore stesso di fare ingiuste preferenze, questo è un grave peccato contro lo Spirito Santo, perché è lui il datore dei doni. Non puoi accusare Dio di fare preferenze. Fa’ bene il tuo dovere ed egli ti mostrerà il suo gradimento al di là di ogni tuo merito.Ognuno ha qui in terra il sovrabbondante amore del Signore contribolazioni, che non mancano mai, e in cielo la beata visione del volto di Gesù.

Gli invidiosi della grazia altrui, sono come il demonio che non ha sopportato che i nostri progenitori fossero cari a Dio e li fece cadere. L’invidia è sempre una cattiva consigliera. Ti riempie di dubbi e di brutti pensieri fino a perdere la fede e forse anche a commettere qualcosa di irreparabile.
5. Ostinazione nei peccati

Uno è ostinato nel peccato quando insiste tenacemente nella sua determinazione al male, combattendo Gesù Cristo e la sua Chiesa. L’ostinazione nei peccati si verifica anche quando uno non c’è la fa ad abbandonare la sua vita disordinata, gli piace troppo, ne è conquistato, non potrebbe vivere senza. Ha pregato, ma con poca fede.

Altri invece, convinti da certe compagnie, ritengono che è tutto inutile esser buoni. È meglio afferrare ogni occasione e godersi la vita, tanto tutto finisce come un pallone che scoppia, ma dentro non sono felici. Altri ancora, per scandali o scontri con persone del clero, si decidono di ignorare Dio, Cristo Signore e la Chiesa, senza un giusto ragionamento.
6 . Impenitenza finale

Una vita in peccato mortale. Trascorsa senza rimorsi, né pentimenti, conduce all’impenitenza finale. Uno rischia di trovarsi in punto di morte senza sapere che fare, né che cosa dire, né se ci sarà un dopo. Questo succede a chi non pensa mai alla morte. 

Però è anche vero che Colui che ci ha creato, ama le sue creature e vuole che tutte si salvino e per ottenere ciò ha mandato il suo Figlio in terra per riscattare i peccatori. Ed è verissimo che Colui che ci ha creato senza il nostro permesso, non ci salva senza il nostro libero consenso. 

Morire da impenitenti è peccato imperdonabile contro lo Spirito Santo. Perché? Questo Santo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, comunica e dona a tutte le creature l’Amore del Padre e i meriti del Sangue prezioso del Figlio, per convincere tutti a chiedere perdono di cuore dei loro peccati.

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