di don Mauro Tranquillo FSSPX
(fonte La Tradizione Cattolica, Anno XVIII – n° 1 (66) – 2008, pp. 39-42
«Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano»
(Motu proprio Summorum Pontificum, art. 1).
«Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito»
(Lettera del Papa di presentazione del medesimo motu proprio).
Benedetto XVI afferma senza esitare che il Messale di Paolo VI e quello di san Pio V non sono altro che due forme del medesimo Rito Romano, anzi sono lo stesso unico Rito, numericamente indistinte. Sarebbero due modi d’essere, un po’ come la sostanza dell’acqua è sempre la stessa sia in stato solido sia in stato liquido.
Facciamo finta per un momento, lo spazio di un articoletto, che i due Messali non siano l’espressione di due dottrine e di due Chiese diverse. Facciamo finta che l’uno non sia il prodotto dei secoli e l’altro un’opera studiata a tavolino in qualche mese. Cerchiamo di applicare semplicemente ai due messali i criteri abituali per determinare se i due riti sono distinti o se
sono due varianti dello stesso. Per esempio, per restare fra i riti latini, si dice che il rito domenicano, il lionese o il bracarense sono mere varianti del Rito Romano; mentre l’ambrosiano o il mozarabico sono veri riti a sé stanti. Su quali basi gli studiosi affermano queste cose? E applicando ai due Messali in questione tali criteri, a quali conclusioni si giunge?
IL CICLO DELLE LEZIONI
Qualcuno potrà stupirsi che si cominci da qui e non dal Canone, ma giova ricordare che non solo il nuovo ciclo di letture è una delle più vantate riforme del nuovo rito, ma anche che la distribuzione e la scelta dei testi della Scrittura è uno dei criteri fondamentali per riconoscere la specificità di un rito. Ecco perché in particolare i riti domenicano o lionese non possono essere considerati riti a sé stanti, per quanto abbiano proprie preghiere in alcune parti secondarie della Messa e proprie cerimonie per i ministri: il ciclo delle lezioni è uguale al Romano, come anche i testi delle antifone e la musica (con poche varianti significative). L’ambrosiano invece possiede un ciclo di lezioni specifico, che ne dimostra l’antichità e la proprietà (oltre a un canto del tutto proprio e primigenio). Infatti se è vero che il ciclo delle lezioni si è fissato (nella sua essenza) prima della fine dell’epoca patristica (certamente lo era a Roma ai tempi di san Leone, e a Milano in parte già ai tempi di sant’Ambrogio) l’accettazione del ciclo di lezioni in uso a Roma era uno dei più chiari segni di adesione al Rito Romano, come dovette avvenire prima in Gallia, poi in Spagna in luogo del mozarabico e probabilmente (per quanto se ne sappia) con i riti celtici.
Ora il nuovo rito ha un ciclo festivo distribuito su tre anni, concetto già estraneo al Rito Romano; uno dei tre è effettivamente simile in alcune parti a quello romano, ma nemmeno coincidente; esistono due cicli di letture feriali cui si sovrappone un Lezionario per il santorale, altri elementi da sempre ignoti al Rito Romano. Ugualmente il Rito Romano conosce ordinariamente una sola lezione prima del Vangelo (e questo da sempre, checché se ne dica), il rito nuovo invece ne ha due alle feste. Quando si pensa che uno dei tratti distintivi dell’ambrosiano è di avere ordinariamente due lezioni prima del Vangelo, si valuta la distanza tra le due pretese forme del Rito Romano.
Né si può parlare di restaurazione di un antico uso di leggere la Scrittura per intero. I Padri certo a volte facevano leggere interi libri della Scrittura per commentarli al popolo senza interruzione, ma si trattava spesso di corsi di prediche extra-liturgici, che non escludevano delle letture fisse per le varie feste nel rito della Messa. La pretesa restaurazione del Lezionario come libro liturgico indipendente dal Messale si commenta da sola: non è certo Il Lezionario dell’antica Chiesa Romana ad essere stato ripreso, ma uno del tutto diverso nell’impianto e nella scelta dei testi. La riapparizione del Lezionario come libro autonomo (in realtà si dovrebbe dire la scomparsa delle letture dal Messale, visto che un libro con le sole lezioni è
esistito sempre) è dovuta ad altri fattori ugualmente estranei al Rito Romano che ora esamineremo.
MINISTRI
La pluralità di libri deriva dalla pluralità di ministri che devono usarli. Se le letture furono riportate sul Messale fu per facilitare il sacerdote che doveva leggerle all’altare nella Messa bassa. Alla Messa solenne rimase sempre un libro specifico per i ministri che le devono cantare.
Il problema alla nuova Messa è che le lezioni, escluso il Vangelo, sono lette da chiunque all’ambone in qualsiasi Messa.
Quindi non ha più senso che stiano nel Messale d’altare. Sapendo che la distribuzione delle lezioni fra i ministri è pure elemento caratteristico di un rito, si trova un altro elemento di distacco tra rito paolino e Rito Romano. Nel Rito Romano alla Messa bassa il Sacerdote legge tutto, alla cantata l’Epistola spetta al Lettore, alla solenne l’Epistola al Suddiacono e il Vangelo al Diacono. Per esempio a Milano, altro rito, è caratteristico (almeno in Duomo) che le lezioni siano diversamente distribuite a seconda della solennità delle feste (tra i vari Diaconi e Suddiaconi della Messa pontificale, o tra i vari Lettori).
Alla nuova Messa i ministri hanno perso anche altre loro funzioni che erano tipiche nel Rito Romano. A dire il vero il Suddiacono è scomparso del tutto, cosa inedita non solo rispetto al Rito Romano ma a tutti i riti conosciuti d’Oriente e d’Occidente … Il cambiare di attribuzioni dei ministri degli ordini inferiori è tipico di riti molto distanti tra loro; qui più che di variazioni si dovrebbe parlare di incompatibilità assoluta. In nessun rito chi non è Diacono può essere ministro dell’Eucaristia (anche perché è di fede). Qui i laici non solo leggono le lezioni ma pure distribuiscono la Comunione.
CALENDARIO
Tutti sanno che una delle caratteristiche di un rito è il Calendario, tanto temporale quanto santorale, e il modo in cui i due si sovrappongono. Il rito paolino ha modificato profondamente il santorale (grande parte delle feste dei santi ha cambiato data) e pesantemente il temporale. Inoltre il Rito Romano dalle origini ha come caratteristica una certa preminenza del santorale, essendo molto legato alla celebrazione stazionale dei santi locali. Certo, questa preminenza era già stata attenuata con la riforma di san Pio X e ancor più con quella di Giovanni XXIII, ma tale attenuazione è stata portata agli estremi da Paolo VI. Ora questo pure era uno dei punti di distacco più netto con altri riti (per esempio l’ambrosiano, dove la predominanza del ciclo temporale era nettissima dai tempi più antichi).
L’anno ecclesiastico è stato così sconvolto, con la soppressione della Settuagesima e un’organizzazione “totalmente altra” delle domeniche dette “ordinarie” e con l’invenzione di nuovi “tempi”.
CANONE
Il concetto stesso di Canone (preghiera fissa, regola della Consacrazione), tanto comune nei riti occidentali, è del tutto scomparso dal rito paolino. Nei riti orientali esistono più anafore, ma non a libera scelta del celebrante: alcuni giorni hanno fissato l’uso di diverse preghiere, tutte di composizione patristica. Ovviamente in questo concetto di molteplicità di anafore liberamente interscambiabili sta un abisso rispetto alla preghiera fissa del Rito Romano, e questo più di ogni altro elemento distingue inequivocabilmente i due riti. Poco importa a questo punto che una delle preghiere del nuovo messale sia un po’ simile a questo Canone.
Anche la formula introduttiva alla consacrazione è variabile nelle diverse
preghiere eucaristiche del nuovo messale, allorché le due formule dominanti (quella di san Paolo e quella evangelica) sarebbero secondo alcuni il segno principale e più antico di distinzione dei riti: i riti occidentali dicono generalmente “Qui pridie quam pateretur”, quelli orientali “In qua nocte tradebatur”. Il nuovo rito usa entrambe a seconda delle preghiere eucaristiche, e altre ancora di invenzione recente.
ALTRE DIFFERENZE
Impossibile sarebbe elencarle tutte, in particolare le enormi differenze cerimoniali che pure avrebbero un peso nella valutazione di un rito. Anzitutto la collocazione del semplice sacerdote alla sede piuttosto che all’altare durante la prima parte della Messa; l’inserimento della cosiddetta preghiera dei fedeli, da secoli in disuso nel Rito Romano e certamente mai eseguita in questo modo, ma con formule fisse e litaniche che nulla hanno a che spartire con l’attuale orazionale (altro libro liturgico sconosciuto nella storia).
La molteplicità dei prefazi, aumentati a dismisura, contrasta con la sobrietà
divenuta caratteristica del Rito Romano in questo campo negli ultimi quindici secoli.
Nel Messale Romano i prefazi sono quindici, alcuni dei quali però molto recenti; il nuovo rito ne ha novantaquattro, e la gran parte di nuova composizione. Ricordiamo ancora tra gli altri elementi: il Pater recitato in comune (come in Oriente), lo spostamento dell’Agnus Dei, la possibilità di usare pane fermentato, la Comunione del celebrante e dei fedeli, l’inversione delle formule della benedizione e del congedo.
Non tocchiamo qui di proposito il problema dell’Ufficio divino, pure così caratteristico per determinare un rito: al nuovo messale corrisponde un libro d’ore che né nel Salterio né nella disposizione delle Ore canoniche né nella loro struttura ha un qualsiasi rapporto con il Breviario Romano, né con quello classico né con quello riformato da san Pio X.
Ugualmente non apriamo nemmeno il capitolo dell’amministrazione dei Sacramenti e dei sacramentali.
CONCLUSIONI
Ci pare dimostrato ad abundantiam, semmai fosse stato necessario, quanto messale nuovo e Messale Romano siano – anche dal solo punto di vista della scienza liturgica – irriducibili ad un unico rito. Non sono due forme di un unico Rito Romano.
Questo smentisce la gratuita affermazione del motu proprio e della lettera ai Vescovi anche dal punto di vista meramente tecnico. La grande diversità non è però, lo ripeteremo fino alla nausea, quella di due linguaggi diversi che esprimerebbero gli stessi concetti (come per i Riti tradizionali della Chiesa), ma di due linguaggi diversi che esprimono concetti incompatibili sul Sacrificio, sulla Chiesa, sul Sacerdozio, sulla Presenza reale. Soprattutto questo spiega l’opposizione radicale del 90% dei Vescovi alla Messa tridentina, reazione che ci sembra proporzionale al rifiuto di una concezione veramente cattolica dei dogmi legati alla Messa alla quale sono completamente e scientemente estranei.
Benedetto XVI, pur dando pari dignità al Vetus Ordo, evidentemente non valutò approfonditamente le numerose divergenze tra i due Riti, che quindi, come questo articolo dimostra ad abundantiam, non sono uno solo.
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