Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

venerdì 24 febbraio 2017

«La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione»

«la misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione, la giustizia senza misericordia è crudeltà» (San tommaso). 
Quale rapporto tra giustizia e misericordia?
«la misericordia è il primo attributo di Dio. È il nome di Dio”. Di conseguenza, dobbiamo dire che la misericordia è anche attributo proprio dell’uomo. È il nome dell’uomo, fatto “a immagine e somiglianza di Dio”.In questo pontificato Papa Francesco ha spesso sottolineato il valore della misericordia nella dottrina e nella prassi cristiana, dimenticando e accantonando il bisogno di riaffermare l’equilibrio con la giustizia: è vero che la Sacra Scrittura ci presenta Dio come misericordia infinita, ma anche come giustizia perfetta. Come conciliare le due dinamiche di vita? Come si articola la realtà della misericordia con le esigenze della giustizia? Molti ritengono, e temono, che l’affermazione della misericordia possa provocare un calo dell’impegno etico e introdurre comportamenti di relativismo morale. San Tommaso diceva che «La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione».

Nella Sacra Scrittura e in Gesù, vediamo che giustizia e misericordia sono due atteggiamenti che non si contraddicono, perché in Dio è proprio la misericordia che porta a compimento la giustizia.La giustificazione avviene mediante la misericordia e la grazia. Ma di quale giustizia si tratta? Il nostro paradigma di giustizia è, di fatto, quello dell’amministrazione legale della giustizia, dove chi è vittima di un sopruso si rivolge al giudice in tribunale e chiede che venga fatta giustizia. Si tratta di una giustizia che impone una riparazione e una pena al colpevole, secondo il principio dell’unicuique suum, a ciascuno deve essere dato ciò che gli è dovuto. È una giustizia importante, tanto che il libro dei Proverbi assicura che «Chi pratica la giustizia è destinato alla vita, ma chi persegue il male è destinato alla morte» (11,19). Anche Gesù ne parla nella parabola della vedova che andava ripetutamente dal giudice e gli chiedeva: «Fammi giustizia contro il mio avversario» (Lc 18,3).Questa strada è basilare e porta alla giustizia. Ma non è sufficiente, perché la giustizia non vince il male, ma semplicemente lo argina. Il male può essere veramente vinto solo rispondendo ad esso con il bene: “Vinci il male con il bene” (Rm 12, 21).
Il cammino del bene passa per la giustizia e prosegue oltre. Siccome l’altro è “carne della mia carne”, è parte del Noi, è mio fratello, mi rivolgo a lui personalmente con la persuasione, con l’aiuto, con il perdono, gratuitamente, nella speranza che capisca che sta facendo il male e si converta nella coscienza. Solo allora è vinto il male Non è sempre assicurato il risultato della misericordia. Ma è l’unica via per “togliere” il male e non solo per “arginarlo”, come fa la giustizia. È questo il modo di risolvere i contrasti all’interno delle famiglie, nelle relazioni tra sposi o tra genitori e figli, o in società. È possibile quando c’è hesed (misericordia, relazione viscerale, parentale) verso chi sbaglia e compie il male, perché si desidera salvarlo e salvare la relazione che ci lega l’uno all’altro. Quando il colpevole riconosce il male fatto e smette di farlo, solo allora il male non c’è più, e colui che era ingiusto diventa giusto, perché perdonato e aiutato a ritrovare la via del bene. Stavo scrivendo questo editoriale, quando un uomo ha bussato al mio ufficio. Si confessò riconoscendo come principale suo peccato l’intransigenza e il rifiuto verso le persone che fanno il male. Per dirmi tutta la sua indignazione, mi raccontò una poesia di Trilussa(riportata in basso ), concludendo: Neanche gli animali arrivano alla cattiveria di certe persone. Rimanemmo un attimo in silenzio. Poi, colpito anch’io da quel racconto, gli dissi: “E se al posto della tigre ci fosse stato lei e se quella donna fosse stata sua figlia, cosa avrebbe fatto?”. Seguì un silenzio più lungo. Ci vuole l’hesed, la misericordia, la relazione viscerale, materna, fraterna, per non fermarsi all’intransigenza e alla condanna, propria della giustizia, e muoversi incontro a chi fa il male, a chi ci fa il male. Così Dio agisce nei confronti di noi peccatori. Il Signore non si ferma alla giustizia, ma continuamente ci offre il suo perdono e ci aiuta ad accoglierlo e a prendere coscienza del nostro male per potercene liberare. Dio non vuole la nostra condanna, ma la nostra salvezza. «Forse che io ho piacere della morte del malvagio […] o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?» (Ez 18,23). Dio, il Signore della misericordia, ha una relazione viscerale, da Padre, con i suoi figli e vuole salvare tutti. Il problema è lasciare che Lui entri nel cuore. E non sempre avviene. Anche la sua misericordia, spesso, è infruttuosa, ma è perseverante. “Ci stanchiamo più noi a chiedere perdono che Lui a concederlo” . Questo è il cuore di Dio, un cuore di Padre che ama e vuole che i suoi figli vivano nel bene e nella giustizia, e perciò siano felici. Un cuore di Padre che non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe, come dice il Salmo (103,9-10). Don Orione scrisse “Che io non dimentichi mai che il ministero a me affidato è ministero di misericordia”. Ma tutti abbiamo a che fare con gli errori e il male di chi ci sta accanto. “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36). Impossibile? Proprio di fronte alle esigenze della misericordia, gli apostoli dissero: «Aumenta la nostra fede!» (Lc 17, 5).
Davanti alle conseguenze del peccato l’uomo sofferente invoca Dio, la sua misericordia e la sua giustizia, anche se a volte fatica a conciliare questi due attributi divini li chiede ugualmente. Davanti al peccato dell’altro è quasi istintivo desiderare la giustizia, davanti al proprio, invece, sperare nella misericordia. Tenendo presente che nella maggior parte dei casi ha già deciso in cuor suo che cosa sono la giustizia e la misericordia, l’uomo chiede a Dio di adeguarsi a questa decisione che distingue la giustizia dalla misericordia, come se non fossero proprietà esclusive di Dio. Ma cosa fa Dio davanti al peccato e davanti al peccatore? Sono tante le risposte che vengono dalle storie della Bibbia, poiché essa raccontando di Dio e dell’uomo necessariamente racconta del peccato e del perdono. Quando Dio si trova davanti al peccato chiama l’uomo a guardare la sua miseria, lo rende partecipe della decisione e del rimedio che sta per prendere, lo invita a mettersi insieme a lui davanti all’uomo peccatore. Uno dei primi esempi di questo modo di agire è l’episodio di Sodoma e Gomorra, Dio chiama Abramo e gli rivela la gravità del peccato delle due città. Mentre i pellegrini che avevano visitato Abramo stanno andando verso Sodoma, il Signore «sta davanti» al patriarca come se volutamente attendesse da lui una decisione sul da farsi. Abramo inizia la sua intercessione facendo leva sulla giustizia di Dio proprio perché Egli è giusto non potrà sterminare il giusto con l’empio. Il Signore accoglie la sfida e allarga il concetto di giustizia, rivelando che non solo non sterminerà il giusto con l’empio, ma che se a Sodoma troverà cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerà tutta la città. Lo stesso modus operandi di Dio ci viene raccontato anche dal libro dell’Esodo, davanti al peccato del popolo, che si è fatto costruire da Aronne il vitello d’oro. Dio chiama in causa Mosè e insieme si pongono innanzi al peccato e al peccatore. Alla minaccia di Dio di distruggere il popolo, Mosè non gli ricorda la giustizia degli uomini, ma il giuramento che egli stesso aveva fatto ai patriarchi. La volontà di Dio si manifesta e si realizza pienamente quando Gesù incontra il peccato e i peccatori. Così inizia il capitolo quindici del vangelo di Luca. I farisei contestano a Gesù la sua presenza in mezzo ai peccatori: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». L’accusa e il rimprovero non sono fatti a Dio e alla sua giustizia, ma a Gesù. Allora perché Gesù racconta una parabola sulla misericordia del Padre? Forse perché attraverso questa parabola Gesù vuole comunicare che la natura di Dio si manifesta attraverso il suo agire salvifico. Solo Gesù poteva raccontare questa parabola, poiché egli è l’unico che conosce Dio e lo può rivelare attraverso la sua opera redentrice. La parabola è composta da tre racconti complementari che narrano l’atteggiamento di Dio davanti al peccato e alla presunta giustizia dell’uomo che vuole sindacare sull’agire di Gesù Cristo. Davanti a qualcosa che si perde, e con finezza il narratore non spiega il motivo per cui il figlio minore si è allontanato dal Padre perché ognuno di noi possa prendere coscienza del suo peccato, Dio si mette alla ricerca, che prima di essere un’azione concreta è una disponibilità delle viscere che vengono private della gioia di ciò che hanno generato, nutrito e partorito. Nei primi due racconti, infatti, il narratore sottolinea proprio questo, la gioia che viene restituita dal trovare quello che si era perduto, e se alla fine del racconto iniziale, la storia del pastore e della pecora, la gioia viene causata dalla conversione del peccatore (era perduto ed è stato ritrovato), in relazione alla mancanza di bisogno dei presunti novantanove giusti, nel secondo, la storia della donna e delle dracme, in modo progressivo la festa è legata esclusivamente alla conversione del peccatore senza nessun riferimento ai giusti. Nel terzo racconto, infine, la vicenda del Padre e dei due figli, il motivo della gioia e della relativa festa viene ripetuto per ben due volte dalla bocca del padre: «Poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»; alla fine della parabola ritorna la stessa frase con una variante di non poco conto: «questo tuo fratello» al posto di «questo mio figlio». Dio mette davanti ai presunti giusti, il peccato e il peccatore e chiede ancora una volta di entrare in quella casa che è la sua, come Lui attraverso Cristo è entrato nella storia. La risposta di Gesù ai farisei, e a tutti coloro che si ritengono giusti davanti a Dio, viene definita con le parole del Padre alla fine della parabola, in cui l’essere figlio e l’essere fratello sono esclusivamente frutto della volontà di Dio Padre e dell’incarnazione, della morte e risurrezione di Gesù Cristo suo Figlio, diventato giustizia per gli uomini e degli uomini.


la tigre e la jena 

È mezzanotte e c’è la luna piena. Una Tigre e una Jena escheno da la tana e vanno in giro co’ la speranza de trovà da cena. Ma se guardeno intorno e nun vedeno gnente. Aspetteremo che se faccia giorno; pensa la Tigre rassegnatamente – però – dice – se sente un fru-fru tra le piante… Chi c’è? una donna? e che farà a quest’ora? Aspetterà un amante… Cammina con un’aria sospettosa… Quarche cosa c’è sotto… - Certamente c’è sotto quarche cosa. Cià un fagotto…lo posa… – È una pupazza… Ma che pupazza! È ‘na cratura viva! Pare che chiami mamma! E mó? L’ammazza! È la madre! Hai capito? Come? La madre?! Verginemmaria!… La Tigre spaventata scappa via e la Jena cià un occhio innummidito… (Trilussa) 

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