Queste parole ci spiegano tutta la vita di Cristo e ci fanno comprendere perché si è presentato a noi con un cuore di carne, con un cuore come il nostro, sicura prova di amore e testimonianza costante del mistero inenarrabile della carità divina.
Il cuore di Dio freme di compassione! Nell'odierna solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore sull'umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione di Dio per l'uomo. Egli non si arrende dinanzi all'ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel mondo l'Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il destino dell'amore distrutto; perché, sconfiggendo il potere del male e della morte, possa restituire dignità di figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si immola sulla croce: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine" (cfr. Gv 13, 1). Simbolo di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone oculare, l'apostolo Giovanni, afferma: "Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua" (cfr. Gv 19, 34).
Siamo introdotti nel mistero dell’amore e della misericordia, siamo introdotti nel cuore di Cristo, dalla parabola evangelica della pecora persa, cercata, ritrovata e portata a casa. Assieme alla parabola della moneta perduta e del figlio prodigo costituisce la perla di tutta la rivelazione.
“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove?” E’ qui indicata subito la prima caratteristica dell’amore del Padre verso di noi: è un amore personale. Egli non ama il genere umano; ama ogni singola persona umana. Per Lui, ogni persona vale in se stessa e per se stessa di un valore infinito. E’ per questo che se anche su cento, se ne perde una sola, non si consola pensando che una su cento non è nulla. Il Padre non ci vede mai come parte di un tutto, come numero di una serie, come individuo di una specie. Ciascuno di noi per lui è un tutto (“il concetto di parte è contrario al concetto di persona”, scrive S. Tommaso d’A.); ciascuno di noi per lui è unico: è una persona. “Ha amato me” scrive S. Paolo “ed ha sacrificato se stesso per me”. Se ciascuno di noi è di valore infinito, che cosa succede nel cuore di Dio se anche uno solo si perde?
“Lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova”. L’uomo è perduto ed allora inizia la ricerca dell’uomo da parte di Dio. Il cristianesimo non è una religione. La religione, ogni religione è una ricerca di Dio da parte dell’uomo; è un’ascesa dell’uomo a Dio. Il cristianesimo al contrario è la ricerca dell’uomo da parte di Dio; è la discesa di Dio all’uomo. E’ cioè grazia e solo misericordia. “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ciò che Cristo descrive, narra di se stesso in forma parabolica, l’apostolo lo descrive e narra nella realtà. Che cosa significa concretamente “va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?” Significa che il Figlio di Dio è venuto a cercarci là dove eravamo: si è fatto partecipe della nostra stessa condizione umana. “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe … Egli non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli” (Eb 2,14a. 16-17). Prendersi cura, venire a cercarci, andare dietro alla perduta, ripercorrere a ritroso la strada del disperso significa alla fine arrivare fino alla morte, poiché questo è il luogo definitivo dove arriva l’uomo che ha lasciato la sua casa.
“Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa”. E’ questo il vero capovolgimento, radicale, della condizione della persona. Il Figlio condivide la nostra morte per riportarci a casa: nella vita eterna. Egli muore con ciascuno di noi; viene a cercarci ed a trovarci nella nostra morte, per renderci partecipi di quella Vita incorruttibile da cui ci eravamo allontanati. Egli si china su di noi, per sollevarci fino a Sé. Egli condivide la nostra morte, perché ciascuno di noi possa condividere la sua vita. “Rallegriamoci” scrive S. Ambrogio “perché quella persona, che in Adamo era andata perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della Croce, là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato riposo” (Esp. del Vangelo sec. Luca VII, 209).
Là ho deposto i miei peccati, ho trovato riposo: dice il grande vescovo di Milano. Ed infatti l’apostolo Paolo ci insegna: “Se … quando eravamo peccatori…” (cfr. seconda lettura).
“Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta”. Ognuno di noi appartiene al Padre in modo unico: la mia pecora. E’ quest’appartenenza che non lascia indifferente il Padre nei confronti del nostro destino. Noi gli apparteniamo non solo come una creatura appartiene al suo Creatore, un servo al suo Padrone, ma come un figlio al Padre, l’amico all’amico, la sposa allo sposo. Ha ritrovato qualcuno col quale aveva costituito una relazione di paternità, di amicizia, di amore.
Ecco, il Cuore di Cristo è il luogo dove questo amore del Padre per l’uomo pulsa e si rende manifesto. Il fianco è stato aperto: la porta è spalancata. Non restare fuori; entra nell’intelligenza dell’amore del Padre che in Cristo è venuto a cercarti. Dal costato di Cristo si effondono sangue ed acqua, “perché tutti gli uomini, attirati al Cuore del Salvatore, attingessero con gioia alla fonte perenne della salvezza”.
Possiamo concludere la nostra meditazione con la preghiera di S. Ambrogio:
“Vieni, Signore Gesù, ricerca il tuo servo, ricerca la tua pecora spossata; vieni, pastore, in cerca delle pecore: la tua pecora si è smarrita. Lascia le novantanove e vieni a cercare quell’unica che si è smarrita. Vieni senza i cani, vieni senza i cattivi guardiani, vieni senza il mercenario, che non ha saputo entrare per la porta. Vieni senza aiutanti e non inviare messaggeri: io aspetto ormai che venga tu in persona. Sono certo che verrai. Vieni non col vincastro, ma con la carità e lo spirito mansueto. Non esitare a lasciare sui monti le novantanove pecore: i lupi rapaci non le possono aggredire. Vieni invece a me, che sono tormentato dall’assalto di belve feroci. Vieni a me che ho abbandonato, errando, il tuo gregge custodito lassù, dove anche me tu avevi collocato, mentre un lupo notturno mi ha rapito. Vieni a ricercarmi, poiché anch’io ti bramo: cercami, scoprimi, prendimi e portami. Tu puoi trovare colui che vai cercando: degnati di trattenere con te colui che hai trovato e di sollevarlo sulle tue spalle. Non ti reca noia questo peso amato, non ti è gravoso sorreggere chi hai giustificato.”
(S. Ambrogio, La fede, II, 7,53-55; OOSA, 15, pp. 151. 153).
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