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giovedì 30 agosto 2018

Il quotidiano dei vescovi "Avvenire" promuove la teologia gender/queer?




(di Lupo Glori) 
Mentre la Chiesa cattolica è travolta, da un capo all’altro del mondo, dai vergognosi scandali a sfondo sessuale il quotidiano dei vescovi Avvenire, nel suo supplemento del 29 luglio scorso dedicato al raduno mondiale delle famiglie che si apre a Dublino, sdogana la teoria del gender, pubblicando un articolo in cui viene esposta la “bontà” di una improbabile teologia in chiave “gender” e, perché no, anche “queer”.

Ad avanzare l’audace tesi è la teologa Lucia Vantini, della Facoltà Teologica del Triveneto, con un testo astruso, redatto secondo l’artificioso e criptico linguaggio genderista, nel quale la professoressa espone la propria personalissima “teologia” di orientamento gender in cui, secondo le sue stesse parole, ”non viene esclusa a priori nemmeno la prospettiva queer“.

La Vantini spiega infatti come il Coordinamento delle teologhe italiane di cui è vice presidente, “è impegnato in una teologia di genere” che “promette inclusività, (…) e provoca il mondo maschile a rendere conto della propria parzialità corporea e prospettica, mascherata sotto il segno del neutro anche in teologia. Tuttavia, in questa ricerca delle donne trovano spazio l’epistemologia della differenza e la politica dell’uguaglianza e non viene esclusa, a priori, nemmeno la prospettiva queer, con la sua preziosa forza decostruttiva degli stereotipi espliciti ed impliciti dell’ordine simbolico cristiano. Si tratta di epistemologie che non prevedono una transizione definitiva dall’una all’altra ma che aprono un processo a spirale verso la profondità dell’essere sessuato”. 

Obiettivo dell’intervento della docente della Facoltà Teologica del Triveneto è quello di rivendicare e dimostrare l’origine femminista dell’espressione “differenza sessuale”, impropriamente utilizzata, a suo dire, come “arma anti-gender” dai detrattori della teoria di genere, proponendone una propria particolare rilettura.

La sua principale preoccupazione sembra essere dunque quella di “riappropriarsi” gelosamente di tale termine, ostaggio della “rigidità” di pensiero degli “anti gender, chiarendone il suo autentico carattere “libero”, che affonda le sue radici teoriche nel femminismo francese e in particolare nel pensiero della psicoanalista belga Luce Irigaray (favorevole alla contraccezione e all’aborto) e nella “Comunità filosofica femminile di Diotima”.

In tale prospettiva, spiega la teologa, l’espressione “differenza sessuale” rettamente intesa, “compare in attrito con la politica dell’uguaglianza e originariamente corredata di una forza simbolica tutta da interpretare nella libertà soggettiva. Nei detrattori del gender non sembra restare nulla di questo senso libero della differenza sessuale, svenduto con leggerezza in cambio di un rassicurante essenzialismo. In certi contesti teologici ed ecclesiali analfabeti riguardo le diverse teorie femministe, infatti “differenza sessuale” è categoria prescrittiva e deterministica, usata per confermare un concetto di natura che non ha nulla di naturale, e per corroborare un irresistibile istinto patriarcale di conservazione del potere e della tradizione”.

In uno scritto, intitolato Voci della differenza sessuale: genere, differenza, differenze, pubblicato sul Bimestrale di teologia delle Edizioni Messaggero Padova,Credere oggi la Vantini chiarisce meglio il suo concetto di “differenza sessuale”, scrivendo: “A uno sguardo profondo non sfugge che quell’«abitare insieme» di uomini e donne a cui si riferiva Irigaray si pone oggi come un sogno per certi aspetti irrealizzato: il mondo è ancora lacerato dalla violenza di maschi abbandonati dalle loro compagne, paralizzato da innumerevoli soffitti di cristallo che ostacolano l’opera delle donne, oscurato da diversi stereotipi di genere, impreparato a un’educazione che valorizzi la differenza sessuale senza gerarchizzarla, prigioniero di un concetto arrogante di natura, analfabeta nelle relazioni, sordo di fronte ai soggetti che patiscono il disagio dell’omofobia”.

Per uscire da questo impasse e comprendere il reale significato dell’espressione “differenza sessuale” bisognerebbe quindi, secondo la Vantini, agire su due fronti distinti: da un lato “affrancare le manifestazioni originarie della differenza dalle sue interpretazioni androcentriche” e dall’altro “sperimentare mediazioni diverse per dare voce soggettuale all’esperienza femminile”.

E’ necessario dunque, da un lato, sbarazzarsi di quella arcaica ed ottusa concezione fondata sul “dominio patriarcale” che “divide il mondo secondo un binarismo problematico che colloca sul versante maschile razionalità, azione, forma, cultura, spazio pubblico, mondo della produzione, e su quello femminile affettività, passività, materia, natura, spazio privato e mondo della riproduzione” e, dall’altro, costruire un nuovo “ordine simbolico femminile” secondo – spiega sempre la Vantini – quanto suggerito dalla femminista Carla Lonzi (1931-1982) che così scriveva: “La donna non è in rapporto dialettico con il mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano”. Per la Vantini, la differenza sessuale è infatti “qualcosa di complesso, non riconducibile né al piano biologico, né a quello sociale, né a quello culturale: è la perturbazione di un campo in cui sono attive tutte queste variabili”.

Insomma una faccenda troppo seria e complicata perché ne possa comprendere qualcosa la gente comune non avvezza agli intricati cavilli e sofismi intellettuali in materia.

In ultima analisi, la teologa Vantini è, di fatto, una epigona contemporanea del femminismo cosiddetto di “seconda ondata” che, tra il 1968 e il 1980, succedette alla prima ondata, che aveva combattuto in nome del raggiungimento dell’uguaglianza tra uomini e donne, ponendo al centro delle sue rivendicazioni il principio appunto della “differenza sessuale”, dal momento che ad essa venivano imputate le origini e le cause della posizione di subordinazione della donna nei confronti dell’uomo.

Il “femminismo della differenza” vide infatti nella gravidanza, nel parto, nell’allattamento, e in tutte le caratteristiche peculiari del ruolo femminile, degli insopportabili limiti da rimuovere, in quanto fondamenti della condizione di inferiorità che aveva, fino a quel momento, relegato la donna a compiti e ruoli domestici e accuditivi.

In tale prospettiva, l’obiettivo primario della nuova lotta femminista divenne l’abbattimento di tutti quegli “ostacoli”, così da poter finalmente assicurare alla donna l’accesso alla vita pubblica e sociale fino ad allora riservata all’uomo. Da qui l’individuazione di nuovi “diritti” speciali, basati proprio sulla differenza sessuale, che costituiranno le fondamenta delle rivendicazioni successive del movimento femminista più radicale.

Diritti legati alla possibilità di disporre in maniera autonoma e arbitraria del proprio corpo, della propria sessualità e capacità riproduttiva, che si tramuteranno, concretamente, in diritto alla contraccezione e diritto all’aborto.

Nello stesso scritto dedicato alla “differenza sessuale”, la Vantini chiarisce anche il suo pensiero sulle teorie di genere, scrivendo come esse non siano altro che “un altro modo di significare la differenza sessuale”. Al riguardo, la teologa spiega come le teorie di genere costituiscono infatti semplicemente un diverso modo di esprimere la differenza sessuale proponendo delle re-interpretazioni e riletture del binomio sex/gender system. Una volta distinti sex e gender, inevitabilmente, si finisce, sempre secondo la teologa, in un inedito spazio ambiguo dove tale sistema binario sex/gender viene“percepito e gestito come una semplice differenziazione teoretica tra livelli del sé, oppure come una frattura irreparabile”.

In tale duplice rappresentazione la Vantini si schiera sul fronte della prima prospettiva, da lei definita ermeneutica della distinzione, la quale “non si disfa dei corpi e si rivela molto utile per esaminare l’immaginario con cui vengono pensati, espressi, e normati il «maschile» e il «femminile»”, respingendo la seconda prospettiva radicale della separazione, che, “riducendo il corpo sessuato a prodotto di pressioni simboliche, ritualità e pratiche sociali, ne perde la materialità”.

Tuttavia, pur rifiutando la tesi radicale della separazione, la Vantini giustifica la sua adesione alla prima prospettiva della distinzione, adottando esattamente le stesse categorie filosofiche della teoria del gender, scrivendo: “le risorse della prima prospettiva sono evidenti: essa permette di criticare gli stereotipi di genere, di elaborare un’educazione che libera i soggetti da aspettative che non rispettano la loro singolarità, di mettere a fuoco come una cultura abbia significato la differenza sessuale in modo da spartire le qualità e i ruoli di uomini e donne in modo contraddittorio o comunque rigidamente complementare e di porre la questione di come generare comunità inclusive”.

Un punto di vista logico e coerente con la sua concezione fluida e malleabile dell’espressione “differenza sessuale”, capace di adattarsi plasticamente a qualsiasi contesto, contrariamente alla “rigida” visione binaria degli anti-gender, rea di non sapersi adeguare all’ineluttabile processo evolutivo della realtà.

Da teologa, infine, la Vantini, premettendo ed ammettendo come non sia sempre facile distinguere tra queste due traiettorie, che nella realtà, come abbiamo visto, si sovrappongono fino a costituire un tutt’uno, nota come entrambe siano implicitamente riconosciute in Amoris laetitia.

La loro, spiega la docente della Facoltà Teologica del Triveneto, è una “compresenza silenziosa”, tuttavia, l’esortazione contiene l’impianto fondamentale duale sex/gender che “lascia intravedere la diversa plausibilità delle prospettive”, quando afferma al punto 56 :”Non si deve ignorare che «sesso biologico» (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender) si possono distinguere ma non separare”.

Tale puntualizzazione, illustra sempre la Vantini per tirare acqua al mulino del gender, è stata ripresa anche dalla Relatio finalis della XIV Assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi, che “corrobora la teoria di genere nella sua prospettiva ermeneutica”, secondo la quale vi è un innegabile intreccio tra il piano naturale e quello culturale nel processo costitutivo dell’identità di ciascuno. L’unica colpa dell’Amoris Laetitia, secondo la Vantini, sarebbe dunque quella di non aver distinto sufficientemente tra un’accettabile ed auspicabile prospettiva della separazione ed un’inammissibile e radicale prospettiva della separazione.

Vi fosse stata questa precisazione, conclude infatti la teologa “l’idea di una decostruzione dell’immaginario di complementarità tra uomini e donne farebbe meno paura, e forse verrebbe intesa come una promessa e non come una minaccia per il destino dell’umano e delle sue relazioni. Da questa decostruzione, infatti, dipende il futuro ecclesiale di quel nuovo umanesimo integrale e inclusivo che aspira a riconoscere e a proteggere le vulnerabilità di tutti”.

Il futuro della Chiesa cattolica, secondo il pensiero della teologa Vantini, fatto suo dal quotidiano dei vescovi Avvenire, dipende dunque dalla decostruzione e rinnegamento del suo millenario insegnamento in tema di morale ed omosessualità.

Sarà per questo che all’ incontro mondiale delle famiglie che si è svolto in Irlanda dal 21 al 26 agosto, è stato invitato a parlare il gesuita americano James Martin, noto per le posizioni dichiaratamente pro LGBT, espresse nel suo dibattuto libro Building a Bridge, dove ovviamente il bridge da costruire è il ponte che dovrebbe festosamente accogliere gay, lesbiche, bisessuali, transgender e chissà chi altro, all’interno della Chiesa cattolica? 
(Lupo Glori fonte corrispondenza romana)

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