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domenica 29 gennaio 2017

I miei quindici minuti di silenzio “Dio in noi” (di R. Plus - V. Le Bourgeois - spiegato ai fanciulli)


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 L'intimità con Dio Caro Crociato, tu senti spesso parlare di pietà; la mamma ti raccomanda di essere pio, forse hai anche una zia, che passa molto tempo in chiesa e che tutti trovano molto pia. Con tutto ciò sai proprio bene che cos’è la pietà? La pietà è l’intimità con Dio. Intimità: ecco una parola ancora più difficile dell’altra. Intimo vuol dire vicino a sé, presente, amicissimo. Perchè il tuo compagno Paolo ti è amico più intimo di Giacomo? perché voi due, sia in realtà che nel pensiero, vivete più vicini l’uno all’altro. 


Tu pensi a lui, gli vuoi bene, vuoi che ti stia vicino, avete gli stessi gusti. Cari Crociati, Dio ci ha amato tanto, che ha voluto avvicinarsi il più possibile a noi; vuole stringerci fra le Sue braccia sempre accoglienti. Non solo Egli è presente nel Cielo, non solo è presente nell’Eucaristia, ma è presente, ascoltami bene, in te mè  per mezzo della sua grazia. Mi dirai: “Essere in stato di grazia vuol dire non avere nessun peccato mortale sull’anima?”. “Certo, ma vuol dire anche qualcosa di più. Appunto perché tu non hai sulla coscienza alcun peccato mortale, tu possiedi Dio dentro di te. Il grande Cardinal Mercier diceva: “Non cercate Dio fuori di voi, ma in voi, dove Egli abita per noi, dove ci chiama, ci aspetta, e soffre della nostra dimenticanza”.Nei giorni in cui era imperatore Cesare Augusto ed Erode regnava a Gerusalemme, viveva nella città di Ectabana, tra i monti della Persia, un certo Artabano. Era un uomo alto e bruno, sulla quarantina. Gli occhi sfavillanti, la fronte da sognatore e la bocca da soldato lo rivelavano uomo sensibile  di volontà ferrea, uno di quegli uomini sempre alla ricerca di qualcosa. Artabano apparteneva all’antica casta sacerdotale dei Magi. Un giorno convocò tutti i suoi amici e fece loro, più o meno, questo discorso: “I miei tre compagni tra i Magi – Gaspare, Melchiorre e Baldassarre – e io stesso abbiamo studiato le antiche tavole della Caldea e abbiamo calcolato il tempo. Cade quest’anno. Abbiamo studiato il cielo e abbiamo visto una nuova stella, che ha brillato per una sola notte e poi è scomparsa. I miei fratelli stanno vegliando nell’antico tempio delle Sette Sfere, a Borsippa, in Babilonia, e io veglio qui. Se la stella brillerà di nuovo, tra dieci giorni partiremo insieme per Gerusalemme, per vedere e adorare il Promesso, che nascerà Re d’Israele. Credo che il segno verrà. Mi sono preparato per il viaggio. Ho venduto la mia casa e i miei beni, e ho acquistato questi gioielli - uno zaffiro, un rubino e una perla – da portare in dono al Re. E chiedo a voi di venire con me in pellegrinaggio, affinché possiamo trovare insieme il Principe”. Così dicendo, trasse da una piega nascosta della cintura tre grosse gemme, le più belle che si fossero mai viste al mondo. Una era blu come un frammento di cielo notturno, una più rossa di un raggio del tramonto, una candida come la cima innevata di un monte a mezzogiorno. Ma un velo di dubbio e diffidenza calò sui volti dei suoi amici, come la nebbia che si alza dalle paludi a nascondere i colli. “Artabano, questo è solo un sogno”, disse uno. E tutti se ne andarono. Artabano rimase solo e uscì sulla terrazza della sua casa. Allora, alta nel cielo, perfetta di radioso candore, vide pulsare la stella dell’annuncio. “Salvami!” Djemal, il più veloce e resistente dei dromedari di Artabano, divorava la sabbia dei deserti con le sue lunghe zampe. Artabano doveva calcolare bene i tempi per giungere all’appuntamento con gli altri Magi. Passò lungo i pendii del monte Orontes, scavati dall’alveo roccioso di cento torrenti. Percorse le pianure dei Nisseni, dove i famosi branchi di cavalli scuotevano la testa all’avvicinarsi di Djemal, e si allontanavano al galoppo in un tuonare di zoccoli. Varcò molti passi gelidi e desolati, arrancando penosamente fra i crinali flagellati dal vento; si addentrò in gole buie, seguendo la traccia ruggente del fiume che le aveva scavate. Era in vista delle mura sbrecciate di Babilonia, quando, in un boschetto di palme, vide un uomo che giaceva bocconi sulla strada. Sulla pelle, secca e gialla come pergamena, portava i segni delle febbre mortale che infieriva nelle paludi in autunno. Il gelo della morte già lo aveva afferrato alla gola. Artabano si fermò. Prese il vecchio tra le braccia. Era leggero e gli ricordava suo padre. Lo portò in un albergo e chiese all’albergatore di avere cura del vecchio e ospitarlo per il resto dei suoi giorni. In pagamento gli diede lo zaffiro. Il giorno seguente, Artabano ripartì. Sollecitava Djemal che volava sfiorando il terreno, ma ormai i tre Te Magi erano partiti senza aspettare il loro fratello persiano. Non volevano perdere l’appuntamento con il Grande Re. Artabano arrivò in una vallata deserta dove enormi rocce si innalzavano fra le ginestre dai fiori dorati. All’improvviso udì delle urla venire dal folto degli arbusti. Saltò giù dalla cavalcatura e vide un drappello di soldati che trascinavano una giovane donna con gli abiti a brandelli. Artabano mise mano alla spada, ma i soldati erano troppi e non poteva affrontarli tutti insieme.La ragazza notò l’aureo cerchio alato che aveva al petto. Si svincolò dalla stretta dei suoi aguzzini e si gettò ai suoi piedi. “Abbi pietà”- gli gridò - “salvami, per amore di Dio! Mio padre era un mercante, ma è morto, e ora mi hanno preso per vendermi come schiava e pagare così i suoi debiti. Salvami!”. Artabano tremò, ma mise la mano nella cintura e con il rubino acquistò la libertà della giovane. La ragazza gli baciò le mani e fuggì verso le montagne con la rapidità di un capriolo. Le mani vuote Intanto Gaspare, Melchiorre e Baldassarre erano arrivati alla stalla dove stavano Giuseppe, Maria e il piccolo Gesù. I tre santi re si prostrarono davanti al Bambino e presentarono i loro doni. Gaspare aveva portato un magnifi co calice d’oro. Melchiorre porse un incensiere da cui si levavano volate di profumato incenso. Baldassarre presentò la preziosa mirra. Il Bambino guardò i doni, serio, serio. Artabano correva e correva. Arrivò a Betlemme mentre dalle case si levavano pianti e fiamme, e l’aria tremava come trema nel deserto. I soldati dalle spade insanguinate, eseguendo gli ordini di Erode, uccidevano tutti i bambini dai due anni in giù. Vicino a una casa in fiamme un soldato dondolava un bambino nudo tenendolo per una gamba. Il bambino gridava e si dibatteva. Il soldato diceva: “Ora lo lascio, ed egli cadrà nel fuoco... farà un buon arrosto!”. La madre alzava urla acutissime. Con un sospiro, Artabano prese l’ultima gemma che gli era rimasta, la magnifica perla più grossa di un uovo di piccione, e la diede al soldato perché restituisse il figlio alla madre. Così fu. Ella ghermì il bambino, lo strinse al petto e fuggì via. Solo molto tardi Artabano trovò la stalla dove si nascondevano il Bambino, Maria e Giuseppe. Giuseppe si stava preparando a fuggire e il Bambino era sulle ginocchia di Sua Madre. Ella Lo cullava teneramente cantando una dolce ninna nanna. Artabano crollò in ginocchio e si prostrò con la fronte al suolo. Non osava alzare gli occhi, perché non aveva portato doni per il Re dei Re. “Signore, le mie mani sono vuote. Perdonami...”, sussurrò. Alla fine osò alzare gli occhi. Il Bambino forse dormiva? No, il Bambino non dormiva. Dolcemente si girò verso Artabano. Il suo volto splendeva, tese le manine verso le mani vuote del re e sorrise.

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