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martedì 16 giugno 2015

SACRILEGIO con la complicita’ dei vescovi SIMONNEAUX E THOMAS e di mons. JORDAN da Si Si No No 15 Giugno 1987

Carissimi amici ripubblichiamo questo questo articolo che venne proposto dalla rivista cattolica di SI SI NO NO nel 1987 per non dimenticare le sofferenze patite dai nostri fratelli, causate dagli uomini di Chiesa che oggi si spalancano la bocca con l'ecumenismo la libertà religiosa il dialogo inter-religioso ect...preghiamo Dio onnipotente che la gerarchia si possa quanto prima riconvertire alla VERA FEDE CATTOLICA che è stata da loro abbandonata per correre dietro alle novità del Vaticano II.


Non sono delle foto dell’epoca del Terrore o dell’era staliniana. Sono delle foto, quanto mai emblematiche, dell’epoca... conciliare: un Sacerdote strappato a viva forza
dall’altare, durante la celebrazione della Santa Messa, da quattro poliziotti,
trascinato via di peso con tutti i paramenti sacri, e scaraventato fuori della chiesa, come un sacco di patate, mentre i fedeli vengono fatti sgomberare a calci, a colpi di manganello
e persino con gas lacrimogeni.


E’ accaduto il 30 marzo u. s. nella chiesa parrocchiale di Saint Louis di Port Marly, Diocesi di Versailles, con la connivenza della Curia episcopale.
«Non si era più visto in Francia
dai tempi della Rivoluzione», «sistemi
da cortina di ferro» scriveva Monde et Vie, 10-23 aprile 1987. E Le Figaro, 1 aprile 1987, parlava di Sacerdote «espulso mani militari».
La gravità dell’inaudita violenza poliziesca si pone indipendentementeda tutte le ragioni, che qui illustriamo a parte, del conflitto tra i fedeli di Port Marly e il Vescovo di
Versailles mons. Louis Simonneaux, spalleggiato dal coadiutore mons.Jean Charles Thomas e dal vicario mons. Jordan. Lo ha rilevato anche la stampa francese indipendente e non «tradizionalista». Così le courrier des yvelines il 2 aprile u. s., esposte al di sopra delle parti le ragioni in conflitto, concludeva: «Resta una
questione di fondo: si può espellere un prete che sta celebrando la Messa? Gli
specialisti consultati affermano che non esiste nessun precedente nella
storia contemporanea francese». 










Decisamente il 30 marzo a Port Marly l’autorità civile ed ecclesiastica hanno
oltrepassato la misura. Il tutto aggravato dal successivo silenzio
della Curia di Versailles, che si è ostinatamente rifiutata sia di deplorare
la sacrilega violenza della forza pubblica sia di sconfessare la propria
complicità.
«La Curia di Versailles si rifiuta di
commentare l’intervento della polizia» prendeva atto il quotidiano locale
Toutes les Nouvelles de Versailles 1 aprile 1987. «Per la prima volta in
Francia, credo, un prete è molestato mentre celebra la Messa, è strappato
dall’altare e buttato fuori, SENZA CHE NESSUN VESCOVO ELEVI LA
BENCHE’ MINIMA PROTESTA» constatava Present, 2 aprile 1987.
«Quali proteste si sarebbero sentite se la polizia avesse espulso dei musulmani
da una moschea o degli ebrei da
una sinagoga!» osservava nella stessa data Aspects de la France.


Ecco, infatti, la risposta del vescovo Simonneaux al sig. Marquan, portavoce della delegazione di 
Port Marly, finalmente ricevuta all’indomani dei fatti nel tentativo di arginare
lo scandalo dell’opinione pubblica francese:
«Sig. Marquant:... io penso che ciò che ha fatto la polizia il 30 marzo mattina
non è un fatto di polizia...ho visto il sig. Didier, Sindaco di Port Marly,
almeno quindici volte; mi ha sempre detto: “Agisco su richiesta del Vescovo
e dell’abbé Caro”. Mi ha sempre detto cosi. Noi domandiamo perciò
una sconfessione pubblica se non è vero... Quando vediamo il Prefetto,
questo mi dice: “Non interverrei mai senza l’espressa richiesta delle autorità”...
ecco perché credo che effettivamente la responsabilità incombe
sull’episcopato.
Mons. Simmoneaux: —Vi lascio la responsabilità della vostra affermazione.
Sig. Marquant: —Ma, in questo caso, aspetto che voi ci diciate che voi
non c’entrate per nulla in questo affare.
Mons. Simmoneaux: —Voi mi chiedete troppe negazioni; non ne farò nessuna su nessun argomento, né su questo né su altri, perché non è per
questo che vi ho fatto venire».
Ma se mons. Simmoneaux si rifiutadi negare la sua responsabilità, ci pensano ad affermarla le autorità civili.
Intanto si fa correre la voce che Giovanni Paolo II avrebbe manifestato la sua «solidarietà» ai due
Vescovi di Versailles, deplorando 1’«affare». Aumentano lo scandalo e la tensione. E’ il caso di vedere chiaro nell’«affare» di Port Marly.


L’«AFFARE» DI PORT MARLY
Un’oasi di vita cattolica
Nella parrocchia di Saint Louis di Versailles, il canonico Roussel, grazie al suo prestigio personale, riesce a conservare, col consenso del Vescovo, mons.Louis Simonneaux, il rito romano tradizionale
nella celebrazione della Santa Messa. Nel corso di vent’ anni gli si raccoglie intorno una comunità numerosa e fervente, assidua agli uffici liturgici che il canonico Roussel, noto musicologo e compositore, organizza in modo mirabilmente degno. Nasce una corale, si organizzano associazioni giovanili (scouts, guide ecc.) e, poiché la chiesa parrocchiale cade a pezzi per l’incuria della municipalità, i fedeli di tasca propria e
senza nessun contributo dello Stato, provvedono a restaurarla Saint Louis di Port Marly diventa, dopo Ecône e — si badi — indipendentemente da sua ecc.za mons. Lefebvre, un’oasi di vita cattolica. I frutti non
si fanno attendere: dal 1975 ad oggi escono da quella comunità, miracolosamente indenne dalla bufera postconciliare, venti vocazioni. Port Marly, come Ecône, sta a dimostrare la fecondità di
quell’ «esperienza della tradizione», per la quale invano sua eec.za mons. Lefebvre
chiese a Paolo VI almeno la stessa libertà concessa ad altre esperienze più o meno cervellotiche, più o meno eterodosse.
Il decreto di «normalizzazione» Nel dicembre 1985 il canonico Roussel muore. Egli però, ha provveduto all continuità della comunità di Port Marly, associandosi come coadiutori due Sacerdoti: l’abbé Izimba e il padre Pochet.
Il Vescovo di Versailles ha, invece, deciso la «normalizzazione» di Saint Louis. Scartati, perciò, i due assistenti del curato defunto, nomina parroco l’abbé Caro. Nella lettera di nomina (20 luglio1986) si legge:
«Al centro della vostra missione generale vi affido particolarmente due consegne,
importantissime per il loro significato:
1) invitare tutti i parrocchiani di Port Marly a celebrare [sic!] progressivamente
la stessa Messa del Papa...;
2) anche per quanto concerne la catechesi, i “parcours” diocesani da me
approvati saranno progressivamente adottati...».


«Adelante, presto, cum juicio» («I
promessi sposi», cap. XIII): progressivamente, sì, per timore della reazione dei fedeli, ma non troppo, dato che il termine ad quem è fissato perentoriamente alla 1 domenica d’Avvento per il rito della S.
Messa e alla riapertura dell’anno catechetico per la catechesi. Fedele alle direttive, il nuovo curato, accolto con deferenza dalla comunità, si rifiuta di celebrare secondo il rito romano tradizionale; assiste, tuttavia, nel più devoto raccoglimento alla Messa solenne che il padre Pochet continua a celebrare nel modo tradizionale ed aiuta l’officiante a distribuire la Santa Comunione: il passaggio
— è la direttiva del Vescovo —deve essere il più possibile indolore.


Il «colpo di forza» episcopale
I fedeli, però, si sono premurati di far pervenire comunque al Vescovo, che si rifiuta di riceverli, le proprie richieste: che sia rispettato il carattere proprio della loro parrocchia o almeno sia consentita la
coesistenza dei due riti: essi non impediscono a nessuno di assistere al nuovo rito celebrato dall’abbé Caro; che sia lasciata loro almeno identica libertà. La richiesta è più che ragionevole.
A metà novembre, invece — si appressa il termine fissato dall’alto — il nuovo parroco annunzia le decisioni episcopali: niente è lasciato alla comunità di Port Marly, neppure una sola Messa domenicale secondo il rito romano tradizionale. E, a far crollare ogni illusione, si provvede ad allontanare bruscamente l’ ultimo coadiutore del defunto parroco, il padre Pochet (l’altro, l’abbé Izimba è stato già allontanato e, non è esitato a far soffiare sul suo conto il «venticello» della
calunnia).
La risposta dei fedeli
La comunità di Port Marly piomba nello sgomento: dopo vent’anni, spogliata del rito romano tradizionale, di una catechesi sicuramente cattolica, di un Sacerdote che permetta loro di continuare nel solco della tradizione cattolica, avverte che la si vuoi piegare per forza di cose a quel corso innovatore che ha dato vent’anni di frutti velenosi per la Chiesa e per le anime. E’ in gioco la loro fede e la fede dei loro figli. Resisteranno. Anche i
più convinti sostenitori della moderazione e del dialogo debbono convenire che non si da loro altra via d’uscita e che il dovere di ubbidienza alla legittima autorità cessa quando si tratta di salvaguardare
un bene superiore.
Il 29 novembre, vigilia della «normalizzazione» inflessibilmente perseguitada mons. Simonneaux, i fedeli di Port
Marly, rispondono al colpo di forza episcopale con un colpo di forza: occupano la chiesa e chiamano ad officiarla un benedettino, ordinato prete da mons. Lefebvre, e che è uscito dalla propria
comunità, quando questa ha adottato il nuovo rito.
Un uomo di «dialogo»
Nel gennaio è nominato coadiutore del Vescovo di Versailles mons. Jean Charles Thomas, già Vescovo di Aiaccio.
Si parla di lui come di un uomo di «dialogo». Ed infatti si dichiara disponibile al dialogo anche con i fedeli di Port Marly, a condizione però che chiariscano se sono «tradizionalisti» o «integristi»,
perché in questo secondo caso sarebbero «al limite della rottura, se non già al di là
della rottura» (le courrier des yvelines, 29 gennaio 1987) e premette che «mons.
Simonneaux ha fatto sufficienti aperture» (ivi). I fedeli, che da mons. Simonneaux si sono visti chiudere in faccia una porta dopo l’altra, sia in senso figurato che reale, vedono crollare ogni residua
speranza.
Al richiesto chiarimento rispondono di non essere né integristi né tradizionalisti,
ma semplicemente cattolici, e che, poiché intendono vivere come hanno vissuto tutti i cattolici fino al Vaticano
II, sono certi di non essere né al limite né al di là della rottura, a meno che non si voglia sostenere per assurdo che fino al Vaticano II nella Chiesa cattolica si è vissuti tutti, gerarchia e fedeli, «al limite
della rottura se non già al di là della rottura» (le courriere des yvelines, 19 febbraio
1987).
L’intervento del
«braccio secolare»
Da parte episcopale si fa ricorso allora alla forza pubblica. Il 6 marzo la chiesa e fatta sgomberare una prima volta, ma i fedeli la rioccupano durante la notte successiva e si accollano turni di guardia, anche notturni, a scanso di nuove sorprese. Il 30 marzo, pero, la polizia irrompe in forza ed ha luogo l’interruzione
della Santa Messa e l’estromissione violenta del celebrante e dei fedeli. Subito dopo si provvede a murare e sbarrare porte e finestre della chiesa. Dunque —commentano i fedeli — i Vescovi francesi
preferiscono una chiesa chiusa al vedervi celebrare il rito tradizionale della Chiesa romana.I
La protesta «solenne»
La domenica successiva la comunità di Port Marly è tutta sul sagrato intorno al Sacerdote, che celebra davanti alla porta murata e sbarrata e così la domenica delle Palme, quando, al termine della funzione,
mentre il popolo canta il Christus vincit, alcuni giovani riescono ad aprire un varco nel muro. Dietro di loro i fedeli di Port Marly irrompono nella «loro» chiesa, che ora costa loro molto di più del denaro sborsato per restaurarla.
Mons. Simonneaux e Thomas emettono un «comunicato». Vi si legge tral’altro: «In nome dei fedeli della comunità di Port Marly, privati per la terza volta della loro chiesa... noi protestiamo solennemente».
Ecco: finalmente la protesta della Curia di Versailles è arrivata; pubblica e «solenne»; ma solo perché i fedeli «conciliari» di Port Marly. (una cinquantina) sono stati privati «della loro chiesa»...murata e sbarrata.


IL CAPORALISMO
NELLA
C H I E SA

Un comunicato della Curia di Versailles(12 aprile u. s.ha dichiarato che i fedeli di Port Marly «evidentemente [?] non possono più pretendersi in comunione
con i Vescovi ed il Papa». Appena due mesi prima il Vescovo di Avignone, mons. Bouchex, aveva a sua volta dichiarato che il monastero benedettino
«Sainte Madeleine» di Le Barroux «non è in comunione con la Santa Sede e con la diocesi di Avignone»(v.Vaucluse matin, 17 dicembre 1986). Il fatto, certo, sarebbe grave. Ma la
ragione? La stessa: la resistenza al nuovo corso ecclesiale, la cui qualifica di “pastorale”
(ecumenica) si è rivelata in venti anni un passaporto per alterare tutto il
patrimonio spirituale della Chiesa con affermazioni e prassi quanto meno bivalenti,
nell’illusione di favorire un’intesa con i cosiddetti -fratelli separati; di fatto col solo risultato certo, chiaramente previsto da Leone XIII (Testem benevolentiae),
di dividere i cattolici E l’accecamento o la malafede ecumenica è tale che la “comunione” con la Chiesa cattolica, che oggi si riconosce persino a sette eretiche e/o scismatiche e fino anche ai pagani, è dichiarata inesistente solo in quei cattolici che non intendono recedere dalla dottrina e dalla prassi perenni della Chiesa. Qualcosa non va. Evidentemente
tra le verità che «diminutae sunt... a filiis hominum» 
c’è anche la nozione di “comunione” . «E’ fuori della comunione dei santi — recita il catechismo di San Pio X— chi é fuori della
Chiesa, ossia i dannati, gli infedeli, gli ebrei, gli eretici, gli apostati, gli scismatici e gli scomunicati».

Ora chiaramente i fedeli di Port Marly, come i benedettini di Le Barroux, non sono né dannati, né infedeli, né ebrei.
Neppure sono eretici e cioè «battezzati che si ostinano a non credere a qualche verità rivelata da Dio e insegnata dalla Chiesa; per esempio i protestanti» (ivi), perché al contrario si ostinano a credere
anche in quelle verità, rivelate da Dio e insegnate dalla Chiesa, che oggi quanto
meno sono lasciate ecumenicamente in oblìo, e resistono alla “protestantizzazione”
(v. card. Ratzinger Rapporto sulla fede) che i Pastori vorrebbero imporre loro a tutti i costi. Ancor meno sono “apostati” e cioè «battezzati che rinnegano con atto esterno, la fede cattolica già
professata» (ivi), perché anzi si ostinano a continuare a professare negli atti esterni
e particolarmente nella liturgia, quella medesima fede cattolica professata fino
al Vaticano II e dalla quale temono, con ragioni, di correre il rischio di apostare
cedendo al «prurito di novità» che ha invaso i loro Pastori.
Resta, dunque, da esaminare se non siano “scismatici” ovvero «battezzati che
ricusano ostinatamente di sottostare ai leggittimi Pastori e perciò sono separati dalla Chiesa, anche se non neghino alcuna verità di fede» (ivi). Il fulcro della questione sta nel senso da attribuirsi a
quel «sottostare ai legittimi Pastori». Riteniamo utili a chiarirlo le «Cinque riflessioni
sulla comunione con la Santa Sede» di Jean Madiran, pubblicate nel supplemento
n. 146 al mensile Itineraires(4 rue Garancière, 75006 Parigi), che qui offriamo
ai lettori in una nostra traduzione.
* * *
La mia prima riflessione è tratta dalla
storia della Chiesa. Chierici, laici, cattolici
ordinali ed anche santi si sono
trovati in polemica, in contestazione, in
difficoltà col loro Vescovo, con la Santa
Sede, col Papa. E tuttavia non sono stati
scomunicati né sono stati ritenuti scismatici
o eretici. Nella loro contestazione
avevano più o meno torto, pili o meno
ragione. Questa è un’altra questione: la
comunione non era rotta per questo.
Un esempio: quando la Santa Sede
discioglie e sopprime l’Ordine dei Gesuiti,
nessun Vescovo fulmina contro
quei Gesuiti che, malgrado la Santa Sede,
desiderano, preparano, organizzano ed
infine ottengono da questa la ricostituzione
della Compagnia di Gesti, che essi
non sono «in comunione con la Santa
Sede».
* * *
La mia seconda riflessione è tratta
dalla vita della Chiesa in Francia da più di
trent’anni. Col pretesto dell’unione e
dell’unità, i Vescovi hanno imposto una
nozione sovvertita e pervertita della
comunione. L’hanno fatto più che in
teoria nella pratica essi, infatti, si mostrano
in comunione con dei battezzati
che tuttavia mettono più o meno
in dubbio questo o quel dogma, ma
considerano la comunione rotta da
coloro che mettono in dubbio la loro
augusta persona.
* * *
La mia terza riflessione deriva dalle
prime due. Essere in disaccordo con gli
umori, le opinioni, le tattiche del Vescovo
o del Papa può essere più o menti spiacevole;
si può avere più o meno ragione o
più o meno torto, ma non si rompe per
ciò la comunione con la Santa Sede,
non si esce per questo dalla comunione
dei santi.
* * *
La mia quarta riflessione si colloca
nella prospettiva delle tre precedenti, ma
concerne un aspetto del comportamento
intellettuale relativamente recente nella
società ecclesiastica Più l’autorità gerarchica
diviene «lassista», come si
suoi dire, cioè evanescente in materia
di fedeltà dommatica e più aumenta
il suo caporalismo nelle questioni
pratiche o secondarie. Bisogna pure
che l’amministrazione clericale regga da
qualche lato. Quando non e più con
l’intransigenza su un catechismo unico, e
con delle protesi ideologiche o sociologiche
* * *
Queste quattro riflessioni sboccano
in un duplice ricordo, che costituirà la
sostanza della quinta. Ritorniamo all’
essenza della mia controversia col padre
Congar, o meglio constatiamo di non
averla mai lasciata: dal Vaticano II la
caratteristica— e l’errore— del governo
della Chiesa e che i calcoli umani vi
tengono un posto più esplicito che la
rivelazione divina; il pastorale sembra
più prezioso del dommatico; il
politico prevale sul religioso; il
mondo infine vi conta più che il cielo
(1). Posso richiamare, ho il diritto di
richiamare la persistenza di questa obiezione
fondamentale: la sua persistenza
nasce segnatamente dal fatto che il padre
Congar non si è sforzato affatto di confutarla.
Ricordo connesso: il ricordo di
Etienne Gilson che preveniva «Il disordine
invade oggi la cristianità; non
cesserà che quando la dommatica avrà
ritrovato il suo primato naturale sulla
pratica»; «I segni sono sotto gli occhi di
tutti. Dissolvimento della fede in seno alle
Chiese. Scomparsa pressoché totale della
morale nelle società civili, nelle quali
nessuna sa più come formularne le regole
e in nome di quale principio prescriverle».
* * *
Non è rompere la comunione con la
Santa Sede avere di tali pensieri, nutrirsene,
insegnarli e regolare su di essi la
propria condotta
La comunione con la Santa Sede è
comunemente invocata con una temeraria
leggerezza. Essa non consiste nel
proclamare (o fingere) un’ammirazione
entusiasta per l’ultima salva chilometrica
di discorsi pontifici. Essa è comunione
con duecentosessantaquattro pontefici
romani in ciò che hanno di
comune. Non è obbligatoriamente comunione
con ciò che l’uno o l’altro di
essi, o anche l’ultimo, possono avere di
diverso.
E’ all’interno di tale comunione che
oggi accade a dei cattolici di contestare il
loro Vescovo oppure il Papa. Non è
questo un contestare la successione apostolica
né il primato della Sede romana,
così sminuiti, così misconosciuti oggi
nella loro essenza da quegli stessi che
contemporaneamente si sforzano d’imporre,
a vantaggio dei detentori del momento,
un’idolatria o un’obbedienza irragionevole
e fanatica
Ho parlato di caporalismo: il caporalismo
religioso è forse il più insopportabile
di tutti. Consiste attualmente nel
considerare qualsiasi obiezione una bestemmia,
qualsiasi discussione una disobbedienza,
qualsiasi disobbedienza
(legittima o no) uno scisma Le distinzioni
più necessarie sono schiacciate dal
bulldozer della stupidità. E questo non
favorisce l’unità; al contrario. Vedete: è a
pezzi.
Non dispiaccia ai potenti di turno
nella Chiesa, in tutto ciò io persisto e
tutto ciò io firmo in comunione con la
Santa Sede.
(1) Le concile en question, Correspondance Congar-
Madiran sur Vatican II et sur la crise de l’Eglise.


Chi, dunque,è quel servo fedele ed accorto che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici perché dia loro il cibo a suo tempo? Beato quel servo se il padrone, alla sua venuta, lo troverà così occupato. In verità vi dico: gli affiderà tutti i suoi beni. Ma se è un
servo malvagio che dice in cuor suo: «II mio padrone tarda», e si mette a picchiare i servi suoi compagni, a mangiare e bere come gli ubriaconi, il padrone del servo verrà nel giorno in cui quello non l’aspetta e nell’ ora che quello non conosce, e lo punirà severamente, facendogli subire la stessa sorte degli ipocriti; là saranno pianto e stridor dei denti.
(Mt. 24 45-51)


LE QUESTIONI
che sarebbe ora di risolvere
L’affare di Port Marly ripropone in tutta la loro gravità le questioni sollevate nel mondo cattolico dal postconcilio; questioni, che attendono da anni una soluzione, che non può procrastinarsi
ulteriormente senza danni irreparabili per tante anime.
La questione dello
«spoglio» liturgico
La gerarchia non ha il diritto di spogliare i fedeli di un rito che data dai tempi apostolici della Chiesa romana (la consuetudine è fonte di diritto e lo è sempre stata particolarmente in campo liturgico); rito, che è espressione inequivocabile di Fede cattolica e che, dopo aver soddisfatto per secoli la devozione di tante generazioni, si dimostra ancora oggi, là dove e conservato, capace di alimentare una fervente vita cristiana.
Ancor meno, la gerarchia ha il diritto d’imporre — cosa mai accaduta in duemila anni — un rito rifatto ex novo nella sua globalità e che, soprattutto, reseca dalla Messa il chiaro e preciso carattere sacrificale e, attenuando, tacendo o esprimendo in modo bivalente le verità di Fede cattolica, si è dimostrato capace
solo di isterilire la pietà e il fervore della vita cristiana
«Il Novus Ordo Missae... rappresenta,
sia nel suo insieme come nei particolari,
un impressionante allontanamento dalla
teologia cattolica della Santa Messa» e,
di contro, un avvicinamento «alla teologia
protestante che ha distrutto il sacrificio
della Messa», scrivevano i cardinali Ottaviani e Bacci presentando a Paolo VI, nel Corpus Domini 1969, famoso e validissimo «Breve esame critico ».


Nel 1965, a distanza di 16 anni, il card. Ratzinger, Prefetto dell’ex Sant’ Uffizio, ammetteva che il pericolo di una «protestantizzazione» della Chiesa cattolica «sussiste realmente; non è solo uno
spauracchio agitato in qualche ambiente integrista» (Rapporto sulla Fede, p. 164).
Così stando le cose, chi può negare ai cattolici il dovere, prima che il diritto, di tutelarsi contro quella «protestantizzazione », di cui il Novus Ordo è stato ed è uno dei principali veicoli?
La questione della catechesi
La gerarchia non può arrogarsi 1’autorità di proibire una catechesi sicuramente cattolica, per imporre, di contro, una catechesi che ha sostituito «il vuoto all’ortodossia» e «l’eterodossia al vuoto».
La questione della
nuova «pastorale»
La gerarchia non ha nessun diritto di turbare la coscienza dei cattolici, imponendo per obbedienza, in nome della «comunione», un corso che si pretende «pastorale», ma che in realtà comporta mutamenti sostanziali nel bonum fìdei o quanto meno gravissimi rischi per la fede, come vent’anni di disastrosissima «esperienza» stanno ad attestare irrefutabilmente. Chi avrà ancora il coraggio di parlare di «profeti di sventura» oggi che la
sventura e sotto gli occhi di tutti? Seguitare nel «facile ottimismo», a cui indulsero, per ammissione dello stesso card. Ratzinger, i Padri conciliari, in quell’ottimismo, che dalla «prospettiva attuale» va
giudicato «come poco critico e poco realistico» (Rapporto sulla Fede, pp. 28 e 34), oggi, a distanza di 20 anni, e criminale incuria della salus animarum, nella quale si riassume tutta la ragion d’essere della Chiesa. Imporre, poi, per obbedienza ai fedeli le rovinose attuazioni di quell’
ottimismo «facile», «poco critico e poco realistico» e un inaccettabile abuso di potere.
La retta ragione e la Chiesa cattolica hanno sempre insegnato che nessuno è tenuto a procedere contro la propria coscienza bene informata e che la gerarchia ecclesiastica ha il diritto-dovere di esercitare la sua giurisdizione in favore della vera Fede e sempre per la gloria di Dio e il bene della Chiesa e delle anime; onde la sua potestà viene a cessare allorché comanda alcunché in divergenza o in opposizione col retto uso di ragione, col diritto divino naturale e positivo, col miglior bene della Chiesa e la salvezza delle anime.
Padre Pio, quando più accanita infieriva la persecuzione contro di lui, era solito dire: «Non capisco che fastidio dà un frate che prega!». I fedeli di Port Marly, e tanti altri in tutto il mondo cattolico, a ragione si domandano che fastidio danno i fedeli attaccati ad una Messa e a un catechismo sicuramente cattolici e se non sia questa la più evidente riprova di quella deviazione contro la quale sono fermamente decisi a tutelarsi
con la fedeltà a quanto la Chiesa ha costantemente insegnato e fatto.
Infatti è incomprensibile che, mentre si riconosce, contro la secolare dottrina della Chiesa, libertà di manifestazione pubblica alla coscienza erronea (cfr.Dignitatis Humanae), contemporaneamente
si neghi alla coscienza illuminata dalla retta ragione e dalla Fede ogni libertà. E’ il trionfo nella Chiesa del liberalismo, la cui caratteristica fu sempre di essere tollerante verso tutti gli errori, intollerante
con la Verità.
La questione dell’indulto del 3 ottobre 1984
Quasi tre anni di applicazione hanno evidenziato il contrasto, subito percepito (cfr. sì sì no no, 30 novembre 1984: Indulto?) tra la dichiarata volontà di «benevolenza» e di «premura pastorale»,
attestata in nome del Santo Padre dall’ allora sua ecc.za mons. Mayer (Radio Vaticana, 16 ottobre 1984), verso i fedeli legati al rito romano tradizionale e le «condizioni» ingiuste, discriminatorie e
illogiche, che hanno reso l’ indulto peggio che inutile. Infatti, scartato lo spirito dell’indulto, troppi Vescovi si sono appigliati alle «condizioni» per giustificare il loro rifiuto e le loro restrizioni, fino a
quel momento giuridicamente infondate, ultimo mons. Simmoneaux, che, per proibire quanto già permesso per vent’ anni a Port Marly, si è appellato appunto alla «condizione» che esclude dall’ indulto le chiese parrocchiali.
Così il rito detto di San Pio V, mai abrogato giuridicamente, risulta oggi di fatto abrogato da quello stesso indulto che avrebbe voluto, invece, concederlo.
E’ uno dei tanti «segni» dell’eclissi di senso logico, e conseguentemente giuridico, nella gerarchia ecclesiale.
Conclusione
Il problema sollevato dal nuovo rito (come dalla nuova catechesi) è ineludibilmente un problema di fede. Sarà risolto solo quando saranno pienamente soddisfatte tutte le obiezioni dottrinali sollevate contro il nuovo rito, che, per la sua «apertura» ecumenica, ha suscitato così vive reazioni nel sensus catholicusdei
fedeli.
«La preghiera della Chiesa non dev’ essere un motivo di disagio per nessuno»
scriveva mons. Bugnini su L’Osservatore Romano del 19/3/1965 e precisava perciò
l’intenzione di «scartare ogni pietra che potrebbe costituire anche l’ombra di un rischio di inciampo o
di dispiacere per i nostri fratelli separati». Ma — domandiamo — era forse lecito, per questo creare un inciampo reale e un così gran motivo di disgusto per i fratelli non separati? Che carità è mai quella che danneggia i vicini nell’illusione di andare incontro ai lontani?
Hirpinus


LA SEGRETERIA DI STATO:
i Vescovi hanno sempre ragione soprattutto quando hanno torto
La Curia di Versailles si è premurata di render noto il seguente testo datato 11maggio 1987 e indirizzato al vescovo Simonneaux:
«Segreteria di Stato n.
184. 862
Ecc.za,
il Santo Padre è stato informato delle
notevoli difficoltà da Voi attualmente
incontrate e degli ingiusti attacchi di cui
siete oggetto insieme con mons. Thomas.
Egli deplora vivamente questi fatti.
Ricevendo i pellegrini francesi venuti
per la beatificazione del p. Pierre François
Jamet, il Papa ha voluto esprimere
pubblicamente la sua solidarietà coi Vescovi
di Francia. Desidera anche che Voi
sappiate personalmente la propria pena
nel vedere il Vescovo di Versailles e il suo
Coadiutore recentemente nominato,
chiamati in causa abusivamente.
Si augura che la situazione possa
evolversi verso la pacificazione e che
l’unità della Chiesa diocesana non sia
compromessa. Vi invia il suo incoraggiamento
per il vostro impegno pastorale
e chiede a Dio con tutto il cuore di benedire
i Pastori che ha dato alla Chiesa di
Versailles.
Nel trasmettervi il presente messaggio,
vi prego di credere, Ecc.za, alla mia
cordiale simpatia e ai miei devoti sentimenti.
E. Martinez
Sostituto».
Su Present, 15 maggio 1987, Jean Madiran, ancor prima che fosse reso noto il testo integrale, commentava:
«... da vent’anni abbiamo visto progressivamente
sparire il primato di giù-.
riedizione della Sede Romana, in quanto
rifiuta la sua funzione di ricorso. Non vi si
può più fare appello contro l’arbitrio e
l’ingiustizia dei Vescovi: essa non osa più
dar loro torto; non ascolta altri che i
Vescovi (e quali Vescovi!) adotta automaticamente
la loro versione e il loro
punto di vista. Gli interventi e le risposte
della Santa Sede si riducono sostanzialmente
ad un’unica sentenza; “I Vescovi
hanno sempre ragione”. Ma quando la
sentenza è conosciuta già prima, il tribunale
non è più necessario: si annulla da
se stesso col suo comportamento».
E — aggiungiamo — finché si conculcano i diritti dei fedeli e li si abbandona in balìa del dispotismo dei Vescovi, ogni augurio di «pacificazione» e di «unità» non ha significato, essendo la pace frutto
della giustizia «II Santo Padre è stato informato...» afferma il testo della Segreteria di Stato.
Non ne dubitiamo. Ma da chi e come? Il come si rivela dal testo stesso: secondo la versione falsata ed unilaterale dei fatti offerta dal Vescovo di Versailles. Da chi non e difficile immaginare: il capo ufficio
della sezione francese della Segreteria di Stato è mons. René Sejourné, amico di
vecchia data di quel mons. Jordan, attualmente Vicario generale del... Vescovo di Versailles e già Segretario personale del defunto card. Villot, dal quale sembra aver ereditato l’avversione viscerale
per sua ecc.za mons. Lefebvre e i cosiddetti «tradizionalisti».
E’ chiaro che, travolti dallo scandalo della pubblica opinione — che non occorre essere cattolici «tradizionalisti» per avvertire la gravità del sacrilego intervento di polizia — i vescovi Simonneaux e
Thomas e mons. Jordan sono corsi ai ripari, cercando appoggi a Roma. E’ altresì chiaro che hanno avuto facile gioco nella Segreteria di Stato, dove il Sejourné è nelle buone grazie di mons.
Silvestrini, che lo considera il miglior redattore dei discorsi pontifici. Ora, che
la Segreteria di Stato funge da «filtro» nei rapporti col Santo Padre è ben noto agliaddetti ai lavori. Ma i cattolici di Port Marly, i cattolici di Francia, ignari degli intrighi della Curia Romana, che cosa devono pensare? che anche il Papa non ha nulla da ridire sull’interruzione della Santa Messa da parte della polizia solo perché quella Messa si stava celebrando secondo il rito tradizionale della Chiesa Romana?
D. L

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