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sabato 25 aprile 2015

«Beatificazione di gruppo per 80 preti uccisi dai partigiani comunisti» di Andrea Zambrano


Funerale per le vittime dei partigiani


«Questi sono i nostri beati». È questa l'ambiziosa “proclamazione” che il mensile di apologetica cattolica Il Timone propone ai lettori in occasione del 70esimo anniversario della Liberazione. Un dossier accurato e coraggioso, quello del mese di Aprile, in cui si affronta partendo dalla storia del beato Rolando Rivi, ucciso dai partigiani comunisti in odio alla fede sul finire della seconda guerra mondiale, le storie degli altri preti uccisi dalla violenza rossa. E ci si chiede che fare della loro memoria adesso che la Chiesa, con la beatificazione del seminarista martire, ha sancito che nel biennio '44-'46 si moriva in odium fidei.

È nato così un dossier di 12 pagine nel quale raccontare le storie degli oltre 80 preti uccisi dai partigiani la cui morte può essere attribuita a odio politico religioso. L'ambizione, spiega già nel titolo il mensile è chiara: «Proporre la beatificazione collettiva: saranno i nostri martiri del Triangolo della morte».

L'operazione è trasparente: «Dei 150 preti uccisi dalla violenza rossa, nel clima di vendette e ritorsioni, un buon numero trovò la morte perché apertamente simpatizzante del Regime fascista e dunque compromesso, anche se un prete ucciso, da una parte o dall'altra, porta sempre dietro di sé un aberrante sacrilegio. Pochi cadono vittime di errori e vendette personali per questioni banali: eredità, prestiti etc...». «Ma c'è un numero – fa notare la rivista – che una ricerca storica degna di tal nome deve incaricarsi di definire in maniera scientifica e che attualmente si aggira sulle 70-80 unità che trova la morte in un contesto ideologico-politico».

In sostanza, secondo quanto ricostruisce il Timone, furono uccisi perché tenacemente anticomunisti. Avevano capito che mentre si combatteva la guerra di Liberazione le formazioni marxiste stavano utilizzando quel vasto movimento insurrezionale in vista di un'imminente rivoluzione comunista. Si tratta per lo più di preti emiliani e friulani, uccisi perché dal pulpito condannavano non solo le aberrazioni della guerra, ma anche l'ideologia marxista che ispirava i princìpi di molte brigate partigiane.

Il dossier si avvale di testimonianze di preti scampati ad agguati che erano finiti nella lista nera, come quella di don Raimondo Zanelli, oggi 85enne. Ma anche di documenti, tra cui lettere e diari, in cui viene mostrata la pianificazione strategica della caccia al prete da parte dei partigiani comunisti che non accettavano un disimpegno nella causa della Resistenza da parte di quei preti che non condividevano le impostazioni ideologiche delle Brigate Garibaldi.

Ma la parte centrale del dossier racconta le storie di religiosi il cui ricordo oggi rischia di perdersi defintivamente con la morte degli ultimi testimoni. Da don Luigi Lenzini, la cui causa di beatificazione è già a Roma a don Umberto Pessina, ucciso per il suo zelo anticomunista e sulla cui morte la giustizia ha detto una parola definitiva solo 40 anni dopo aver vinto la cortina di fumo del Pci che conosceva i veri assassini e lasciò condannare un innocente. Ma c'è anche don Francesco Bonifacio, il santo degli infoibati. Senza dimenticare le storie di don Augusto Galli, ucciso perché nella lista nera e infamato successivamente con l'attribuzione di un'amante, e don Giuseppe Iemmi, che dal pulpito condannò l'uccisione di un fascista e venne freddato dai partigiani.

Le accuse per coprire quelle uccisioni venivano sempre giustificate attraverso un canovaccio che molto spesso ha retto alla prova degli anni anche per l'assenza di rigorosi processi giudiziari. Per alcuni lo spionaggio ai nazifascisti, per altri l'infamia di un'amante, per altri ancora l'attività anti-resistenziale o anche solo aver ospitato in canonica un fascista in fuga. Accuse politiche dunque. Ma come fa notare don Nicola Bux nel suo contributo, «per diminuire la portata del sacrificio dei cristiani fin dai tempi di Gesù, si è cercato di giustificare le uccisioni per motivi politici e non per odium fidei. In realtà le due cause si fondono perché l'amore per la Patria è una virtù cristiana e perché nel sangue dei sacerdoti uccisi anche di quelli di cui non si conosce neppure il nome è presente una teologia della persecuzione che ha sempre accompagnato la vita della Chiesa».

Ma c'è anche un aspetto che a 70 anni merita di essere ricordato: è la straordinaria avventura dei partigiani bianchi, cattolici, che morirono gridando “Viva Cristo Re” e che a differenza dei partigiani comunisti – come spiega lo storico Alberto Leoni – «agivano nel rispetto della popolazione civile». Si fanno largo le storie di Giuseppe Cederle o Aldo Gastaldi “Bisagno”, ma anche di Franco Balbis. E non possono mancare le vicende epiche dei partigiani uccisi da altri partigiani, come il caso del comandante cattolico della Sap di Reggio Emilia Mario Simonazzi “Azor” i cui assassini, certamente partigiani, non vennero mai trovati. A indagare sulla sua morte una figura straordinaria di cattolico, partigiano e giornalista: Giorgio Morelli, che diede vita ad un'avventura editoriale con la Nuova Penna, nella quale per primo denunciò le uccisioni ad opera dei partigiani comunisti nel Triangolo della morte. Per questo suo impegno venne fatto oggetto di un agguato e morì per le conseguenze dello sparo poco tempo dopo. Anche lui un martire del Triangolo rosso.


Vogliamo uscire dal silenzio di chi vorrebbe dimenticare alcune parti della Storia, andare oltre il fastidio che in troppi hanno nel ricordare certi eventi. Raccontare che ci furono persone nella società di quei tempi che cercarono di influenzare positivamente il clima di terrore che una guerra porta inevitabilmente con sé, tentarono di salvare vite umane senza badare a divise o politica, inseguirono il bene senza fare il male: sono i sacerdoti. Per questa loro “colpa” furono condannati a morte, seviziati, trucidati, oggetto di indicibili torture. Martiri, nella più totale solitudine, a volte abbandonati anche dalle gerarchie ecclesiali che a loro volta erano in grandi difficoltà. Episodi colpevolmente nascosti, e soprattutto innegabili.
Come quello del parroco di Crocette, una frazione di circa un migliaio di anime, a pochi chilometri da Pavullo, nel Modenese. Don Luigi Lenzini fu prelevato con la forza dalla canonica e portato in un campo a calci e spinte. Poi fu seviziato, gli cavarono gli occhi e lo seppellirono, dopo averlo strangolato. Nella vigna si intravedeva una testa che emergeva dal terriccio smosso; solo qualche giorno dopo qualcuno se ne accorse, e persone pietose gli diedero sepoltura.

Don Giuseppe Preci invece, 62 anni, abitava a Montalto di Zocca, sempre nel Modenese. Lo vennero a svegliare di notte; era il 24 maggio 1945, e gli chiesero di andare da un ammalato. Si vestì e andò in chiesa a prendere i Sacramenti, il Viatico e l’Olio santo. Uscito sul sagrato, le due persone che lo avevano chiamato lo pregarono di fare presto. Gli chiesero di andare più avanti. Il sacerdote ubbidì, ma una scarica di mitra lo fulminò.

Le esecuzioni avvenivano tutte con l’inganno. Il cliché era quasi sempre lo stesso: si chiamava il prete fuori dalla canonica per invitarlo a dare assistenza a un morente. Solo dopo il sacerdote scopriva che il “morente” era lui stesso, destinato a un’esecuzione sommaria.

La maggior parte di questi episodi accadde nel cosiddetto triangolo della morte, o triangolo rosso: un’area del nord Italia, definita tra l’Emilia e la Romagna, dove tra il settembre del 1943 e il 1949, si registrò un numero particolarmente elevato di uccisioni (oltre le 12.000) a sfondo politico, attribuite appunto a partigiani e a militanti di formazioni di matrice comunista.


Rolando Rivi
Di quei circa 130 martiri in abito talare, una novantina hanno un nome e un cognome; di loro, grazie al lavoro di ricostruzione fatto da un sito dedicato a Rolando Rivi, un seminarista giovanissimo massacrato dai combattenti rossi, si sono ricostruiti anche gli ultimi istanti di vita e le modalità di uccisione. Rolando abitava a Piane di Monchio (Reggio Emilia); aveva appena quattordici anni quando fu prelevato la mattina del 10 aprile 1945 da una squadra di partigiani comunisti e assassinato due giorni dopo.

Nei mesi che precedettero e seguirono la liberazione, molti sacerdoti pagarono con la vita l’assurdità di una situazione dove l’odio si accompagnava al tradimento e l’omertà alla paura. Il 25 aprile, dunque, celebrazione della liberazione e della Resistenza, oltre a commemorare i martiri del nazifascismo non può dimenticare questo altro massacro, proseguito ben oltre la fine della guerra: la strage di preti.

Omicidi per lo più impuniti, seppelliti sotto una coltre di diffamazioni prima e di oblio poi. Religiosi ammazzati perché troppo vicini (o considerati tali) al fascismo, oppure troppo lontani – ed è questo il vulnus più grave – dal comunismo.

L’Italia ha vissuto una guerra civile dove una parte dei comunisti non combattevano solo contro tedeschi e nazifascisti, ma anche contro i compatrioti antifascisti, se questi si opponevano alle loro pretese egemoniche e rivoluzionarie. Se da un lato la generalizzazione rispetto ai “comunisti” può forviare da ciò che è accaduto, facendo alzare barriere ideologiche, dall’altra le esecuzioni sono un fatto accertato. Uno schiaffo alla verità storica in nome di una propaganda mai superata.

Oggi assistiamo a nuove forme di repressione contro i religiosi che testimoniano con la loro vita di sacrificio e disponibilità verso gli altri la fede in Cristo, aiutano il prossimo, si mettono a rischio là dove la guerra diventa spietata. Cambiano i tempi ma certe logiche persecutorie non mutano. L’odio è sempre lo stesso.

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