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martedì 3 marzo 2015

La riforma della settimana santa negli anni 1951-1956

La Redazione chiede chiede umilmente scusa del mancato riferimento dell'autore dell'articolo Don Stefano Carusi e della fonte Desputationes Theologicae non per nostra colpa ma per nostra negligenza di esserci fidati di un lettore che c'è lo ha inviato senza citarne ne l'autore ne la fonte chiediamo nuovamente scusa .

Introduzione

Nel corso degli ultimi anni la pubblicazione di numerosi studi relativi alla storia del dibattito teologico-liturgico degli anni cinquanta ha gettato nuova luce sulla formazione e sulle intenzioni, non sempre all’epoca apertamente dichiarate, di coloro che furono i redattori materiali di alcuni testi.
Per quanto concerne l’opera di riforma della Settimana Santa del 1955-56, in questa sede ci si vorrebbe soffermare sulle dichiarazioni, oggi finalmente pubbliche, del noto lazzarista Annibale Bugnini, del suo stretto collaboratore e quindi segretario del “Consilium ad reformandam liturgiam”, Padre Carlo Braga e del futuro Cardinale Ferdinando Antonelli, per stabilire se la loro opera di riforma liturgica rispondesse o meno ad un più vasto disegno teologico e per analizzare la validità o meno dei criteri utilizzati e poi riproposti nelle successive riforme. Verranno prese in considerazione anche le annotazioni e le relazioni delle discussioni della commissione preparatrice, conservate principalmente nell’archivio della Congregazione dei Riti, le quali, recentemente pubblicate nei monumentali lavori di ricerca dello storico della liturgia Mons. Nicola Giampietro, testimoniano del tenore del dibattito.
Nell’ottobre 1949, presso la Congregazione dei Riti, veniva nominata una commissione liturgica che avrebbe dovuto occuparsi del rito romano e di eventuali riforme da studiare e se necessario applicare; purtroppo la calma necessaria ad un tale lavoro non era possibile a causa delle continue sollecitazioni dell’episcopato di Francia e Germania che reclamava, nella più grande e pretestuosa precipitazione, cambiamenti repentini. La Congregazione dei Riti e la Commissione si erano viste obbligate ad occuparsi della questione degli orari della Settimana Santa, per bloccare le fantasie di certe “celebrazioni autonome”, specie relativamente alla veglia del Sabato Santo. In questo contesto si dovette approvare “ad experimentum” un documento che permettesse la celebrazione serale del rito del Sabato Santo, si trattava dell’ “Ordo Sabbati Sancti” del 9 gennaio 1951
Negli anni 1948-1949, la commissione era stata eretta sotto la presidenza del Cardinal Prefetto Clemente Micara, sostituito nel 1953 dal Card. Gaetano Cicognani, vedeva anche la presenza di Mons. Alfonso Carinci, dei Padri Giuseppe Löw, Alfonso Albareda, Agostino Bea, Annibale Bugnini, nel 1951 giunse mons. Enrico Dante, nel 1960 mons. Pietro Frutaz, don Luigi Rovigatti, mons. Cesario d’Amato ed infine Padre Carlo Braga; quest’ultimo, da tempo era stretto collaboratore di Annibale Bugnini, nel corso del 1955-56, pur non essendo ancora membro della Commissione, fu partecipe dei lavori e fu inoltre autore, insieme al citato Padre Bugnini, di testi storico-critici e pastorali sulla Settimana Santa, i quali dovevano rivelarsi una sorta di salvacondotto “scientifico” delle modifiche apportate.
La Commissione lavorava in segreto ed agiva sotto la pressione degli episcopati centro-europei, non è chiaro se per arginarli o per assecondarli; tanto era il segreto che l’improvvisa e inattesa pubblicazione dell’ “Ordo Sabbati Sancti instaurati”, ai primi di marzo del 1951, “colse di sorpresa gli stessi officiali della Congregazione dei Riti”, come riferisce il membro della Commissione Annibale Bugnini. E’ lo stesso Padre Bugnini a metterci al corrente del modo singolare col quale i risultati dei lavori della Commissione sulla Settimana Santa erano riferiti al Papa: quest’ultimo era “tenuto al corrente da Mons. Montini, e, più ancora, settimanalmente, dal P. Bea, confessore di Pio XII. Grazie a questo tramite si poté giungere a risultati notevoli, anche nei periodi nei quali la malattia del Papa impediva a chiunque di avvicinarlo”. Il Papa era afflitto da una grave malattia allo stomaco che lo obbligava ad una lunga convalescenza, non era quindi il Cardinale Prefetto dei Riti, responsabile della commissione, ad informarlo, ma l’allora Mons. Montini e il futuro Card. Bea, che tanta parte ebbe nelle riforme posteriori.
I lavori della commissione si protrassero fino al 1955, quando il 16 novembre fu pubblicato il decreto “Maxima redemptionis nostrae mysteria”, che doveva entrare in vigore per la Pasqua dell’anno successivo. L’episcopato accolse in maniera diversa le novità e, aldilà del trionfalismo di facciata, non mancarono le lamentele per le novità introdotte e persino si moltiplicarono le richieste di poter conservare il rito tradizionale, ma ormai la macchina della riforma liturgica era stata messa in moto ed arrestarne il corso si sarebbe rivelato impossibile e soprattutto inconfessabile, come la storia successiva dimostrerà.
Malgrado si volesse che il coro dei liturgisti cantasse all’unisono, complice anche l’attitudine monocorde che, negli anni cinquanta, ostentava un certo unitarismo d’intenti, si levarono autorevoli voci di dissenso, prontamente costrette al silenzio malgrado la loro competenza. Fu il caso non solo di alcuni episcopati, ma anche di alcuni liturgisti come Léon Gromier, il quale, noto anche per la sua documentata opera di commento del Caerimoniale Episcoporum, era consultore della Congregazione dei Riti e membro dell’Accademia Pontificia di Liturgia; questi, nel luglio 1960 a Parigi, si espresse con stile acceso, ma con solidità d’argomentazioni, in una nota conferenza. Lo stesso Papa Giovanni XXIII, nel 1959, nella sua celebrazione del Venerdì Santo a Santa Croce in Gerusalemme celebrò seguendo le pratiche tradizionali, dando prova di non condividere le incongruenze da poco introdotte e prendendo atto della natura sperimentale di quei cambiamenti.
Alcune riforme introdotte sperimentalmente nel 1955-56, si rivelarono inserite in maniera incongrua nel tessuto rituale, tanto che esse furono leggermente corrette dalla riforma liturgica del 1969, l’argomento meriterebbe uno studio a parte.

Per accennare all’importanza della riforma della Settimana Santa tanto a livello liturgico che storico, si dà menzione del commento di due dei più grandi protagonisti di quest’evento, alfine di inquadrare le intenzioni di coloro che lavorarono a quest’opera. Padre Carlo Braga, braccio destro di Annibale Bugnini e per anni alla direzione dell’autorevole rivista “Ephemerides Liturgicae”, definisce audacemente la riforma del Sabato Santo: “testa d’ariete che è penetrata nella fortezza della nostra liturgia ormai statica”. Il futuro Card. Ferdinando Antonelli ebbe a definirla nel 1956: “l’atto più importante nella storia della liturgia da S. Pio V ad oggi”.


Le innovazioni esaminate nel dettaglio

Si viene ora ad un’analisi dettagliata che ponga in rilievo alcuni dei più vistosi cambiamenti apportati dall’ “Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus” del 1955-56 e che spieghi perché tale riforma divenne “la testa d’ariete” nel cuore della liturgia romana, costituendo “l’atto più importante a partire da S. Pio V ad oggi”.
Relativamente ad ognuna delle innovazioni citate si farà seguire un commento, basandosi per quanto possibile su quanto gli autori materiali dei testi hanno in seguito dichiarato, seguirà inoltre un breve cenno alla pratica tradizionale.


Domenica delle Palme

“Ordo Hebdomadae Sanctae” del 1955-56, [d’ora in poi : OHS 1956] : Invenzione del colore rosso per la processione delle palme, e mantenimento del colore violaceo per la Messa.
Si legge negli archivi della commissione: “una cosa però forse si potrebbe fare (..) si potrebbe restituire il colore rosso primitivo usato durante il medioevo per questa solenne processione. Il colore rosso ricorda la porpora regale” - e poco più avanti - “in questo modo la processione si distinguerebbe senz’altro come elemento sui generis”.
Non si vuole negare in questa sede che il colore rosso possa essere segno della porpora regale, benché resti da provare l’asserito uso medievale, ma è comunque singolare il modo di procedere, per cui si cercano scelte “sui generis” (sic) e si decide che il rosso debba avere in questa giornata una simbologia positivamente determinata, allorquando il rosso nel rito romano è il colore dei martiri o dello Spirito Santo e nel rito ambrosiano è utilizzato in questa domenica per indicare il sangue della Passione e non la regalità, nel rito parigino si usava il colore nero per ambo i riti. In alcuna diocesi era previsto, un colore per la processione ed un altro per la Messa, una pratica forse mutuata dalla Festa della Purificazione della Vergine, e che non ha molto senso applicare al contesto della Domenica delle Palme, come riferisce Léon Gromier. Questa innovazione sarebbe da attribuirsi non già ad una prassi attestata, ma all’idea estemporanea di un “pastorale professore di seminario svizzero”.
Nel Messale Romano del 1952 [ d’ora in poi MR 1952 ] : Uso costante del viola tanto per la processione che per la Messa.

(OHS 1956) : Abolizione delle pianete plicate e conseguentemente dello stolone o “stola largior”.
Si trattava di un resto della più alta antichità che era sopravvissuto fino ad allora e che dimostrava tanto dell’arcaicità della Settimana Santa, che mai si era osato alterare per la venerazione che ad essa si portava, quanto della straordinarietà di questi riti e del dolore straordinario della Chiesa in questi giorni.
(MR 1952) : Uso delle pianete plicate e dello stolone, o della pianeta arrotolata, per il canto del Vangelo da parte del Diacono.

(OHS 1956) : Invenzione della benedizione delle palme verso i fedeli e con le spalle all’altare e alla croce, in casi specifici anche con le spalle al Santissimo Sacramento.
Per la partecipazione dei fedeli si introduce l’idea della azioni liturgiche verso il popolo e spalle a Dio: “influisce (nella riforma nda) anche la visibilità di particolari gesti della celebrazione, staccati dall’altare e compiuti da ministri sacri rivolti al popolo”. Si inventa una benedizione fatta su un tavolo, che sta tra l’altare e la balaustra, con i ministri rivolti al popolo, si introduce un nuovo concetto dello spazio liturgico e dell’orientamento della preghiera.
(MR 1952) : I rami si benedicono all’altare, in cornu epistolae, dopo una lettura, un graduale, un Vangelo e soprattutto un Prefazio con un Sanctus che introducono le orazioni di benedizione. Si tratta dell’antichissimo rito della cosiddetta “Missa sicca”.

(OHS 1956) : Soppressione del prefazio con le parole relative all’autorità di Cristo sui regni e le autorità di questo mondo .
Stupisce constatare che si voglia solennizzare la regalità di Cristo, proprio sopprimendo il prefazio con le parole che tale regalità descrivono. Esso è definito senza mezzi termini superfluo quindi lo si elimina: “considerando la poca coerenza di questi prefazi, la loro prolissità, e, per alcune formule, la loro povertà di pensiero, la perdita non si presenta rilevante”.
(MR 1952) : Il rito romano prevede spesso, in occasione di grandi momenti liturgici come ad esempio la consacrazione degli oli o le ordinazioni sacerdotali, il canto di un prefazio, che è un modo particolarmente solenne di rivolgersi a Dio; così anche per la benedizione delle palme era previsto un prefazio che descriveva l’ordine divino della Creazione e la sua sottomissione a Dio Padre, sottomissione del creato che è monito per i re e i governanti della sottomissione che devono avere a Cristo: “Tibi enim serviunt creaturae tuae: quia te solum auctorem et Deum cognoscunt et omnis factura tua te collaudat, et benedicunt te sancti tui. Quia illud magnum Unigeniti tui nomen coram regibus et potestatibus huius saeculi libera voce confitentur”. Il testo del canto rivela in poche eleganti righe la base teologica che è fondamento del dovere della sottomissione dei governi temporali a Cristo Re.

(OHS 1956) : Soppressione delle orazioni sul significato e sui benefici dei sacramentali e sul potere che essi hanno contro il demonio.
La ragione è, recita la nota degli archivi, che queste orazioni sono “ampollose (…) con tutto lo sfoggio di quell’erudizione tipica dell’epoca carolingia”, i riformatori convengono sull’antichità dei testi ma non le ritengono di loro gusto perché “è molto debole la relazione diretta della cerimonia con la vita cristiana vissuta, ossia il significato liturgico pastorale della processione come omaggio a Cristo Re”. Sfugge a chiunque quale sia il mancato legame tra la “vita vissuta” dei fedeli e l’omaggio a Cristo Re nel suo pieno “significato liturgico pastorale”. Decisamente il piano è quello di una retorica che appare oggi alquanto datata, ma che all’epoca aveva una certa presa. Pur di favorire una “partecipazione consapevole alla processione; con l’applicazione alla vita cristiana concreta e vissuta”, si forniscono argomentazioni che non sono né teologiche né liturgiche.
La “vita cristiana concreta e vissuta” dei fedeli è poi indirettamente disprezzata a distanza di pochissime righe: “queste pie usanze (delle palme benedette nda), pur giustificate teologicamente, possono degenerare (come di fatto sono degenerate) in superstizione”. Messo da parte il tono da razionalismo malcelato, si noti che le antiche orazioni sono deliberatamente sostituite con nuove formule che, secondo le parole degli autori, sono “in sostanza di fattura nuova”; le antiche orazioni non piacciono perché esprimono troppo l’efficacia dei sacramentali e si decide di inventarne di nuove.
(MR 1952) : Le antiche orazioni ricordano il ruolo dei sacramentali, i quali hanno un effettivo potere (“ex opere operantis Ecclesiae”) contro il demonio.
(OHS 1956) : Invenzione di una croce da processione non velata, allorquando la croce d’altare è rimasta velata.
Confessiamo che il significato liturgico di questa innovazione ci sfugge completamente; la modifica più che relativa a una simbologia mistica appare piuttosto un “pastiche” liturgico frutto della fretta dei redattori.
(MR 1952) : La croce d’altare è velata così come la croce processionale, alla quale si lega un ramo benedetto, ancora un riferimento in questo giorno alla croce gloriosa e alla Passione vincitrice.
(OHS 1956) : Eliminazione della croce che bussa alla porta della chiesa chiusa.
Il rito simboleggiava la resistenza iniziale del popolo giudeo e l’ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme, ma anche la croce trionfale di Cristo che spalanca le porte del cielo, che è causa della nostra Resurrezione, “hebraeorum pueri resurrectionem vitae pronuntiantes”.
(MR 1952) : La processione rientrava davanti alla porta della chiesa chiusa. Un dialogo cantato da un coro di cantori all’esterno, alternato con un altro coro all’interno della chiesa, precedeva l’apertura della porta della chiesa, che avveniva dopo aver bussato colla parte bassa della croce astile.

(OHS 1956) : Invenzione di una preghiera da recitarsi alla fine della processione, al centro dell’altare, ma interamente recitata “versus populum”.
Nessuno sa determinare ove debba essere il messale o chi debba sorreggerlo sul gradino, poiché nella fretta di riformare non ci si rese conto della stravaganza, la quale obbligò ad un rubrica aggiuntiva, la “22 a” o “22 bis”, che è più confusa della precedente. L’inserzione risulta “appiccicata” ai riti precedenti in ragione della sua natura arbitraria: “a questo punto, cioè per dare alla processione un preciso elemento di termine abbiamo pensato di proporre un particolare Oremus”.
Lo stesso Padre Braga, cinquant’anni dopo confessa candidamente che l’invenzione di quest’orazione non fu scelta felice: “l’elemento che stona un po’ nel nuovo Ordo è l’orazione conclusiva della processione, che rompe l’unità della celebrazione”. Le alterazioni “sperimentali”, nella loro volontà innovatrice, rivelano col tempo la loro inadeguatezza.
(MR 1952) : La processione terminava normalmente e poi iniziava la Messa, con le preghiere ai piedi dell’altare come di consueto.

(OHS 1956) : Si elimina la distinzione tra “Passio” e Vangelo. Inoltre dal “Passio” si elimina la frase finale (probabilmente per errore di stampa, altri motivi non sembrano plausibili) .
La Passione aveva sempre avuto uno stile narrativo, cantata da tre voci essa era seguita dal Vangelo, dal quale si distingueva perché esso era cantato dal solo diacono su un tono differente e con l’uso dell’incenso ma senza i luminari. La riforma confonde i due aspetti, Passione e Vangelo sono amalgamati in un unico canto senza risparmiare vistosi tagli all’inizio e alla fine, si finisce quindi per privare la Messa e il diacono del canto del Vangelo, il quale, in quanto tale, risulta formalmente soppresso.
(MR 1952) : Il canto del “Passio” è distinto dal canto del Vangelo, che arrivava fino a Mt XXVII, 66.
(OHS 1956) : Eliminazione del passaggio evangelico che connette l’istituzione dell’eucaristia con la Passione di Cristo, si elimina Mt XXVI, 1-36 .
Siamo qui all’attitudine che stimiamo più sconcertante, soprattutto perché dallo spoglio d’archivio sembra che la Commissione avesse deciso di non cambiare nulla riguardo la lettura del Passio, perché di antichissima istituzione. Tuttavia, non sappiamo come né perché, la narrazione dell’Ultima Cena è espunta. Resta difficile pensare che si possano cancellare per soli motivi di tempo trenta versetti, soprattutto in considerazione della rilevanza del passaggio. Fino ad allora la tradizione aveva voluto che la narrazione della Passione dei Sinottici, avesse sempre incluso l’istituzione dell’eucaristia che, con la separazione sacramentale del Corpo e del Sangue di Cristo, è l’annuncio della Passione. La riforma occulta, con un colpo di spugna su un passaggio fondamentale della Sacra Scrittura, il legame di consequenzialità tra Ultima Cena, sacrificio del Venerdì Santo e Eucaristia. Il passaggio dell’istituzione dell’eucaristia sarà espunto anche il Martedì Santo e il Mercoledì Santo, con lo straordinario risultato che esso risulterà assente dall’intero ciclo liturgico! E’ la conseguenza di un cambiamento frettoloso che va a scardinare un’opera plurisecolare, senza nemmeno essere capace di una visione d’insieme delle Scritture lette nell’anno.
(MR 1952) : La Passione era preceduta dalla lettura dell’istituzione dell’eucaristia scorgendo l’intimo, essenziale, teologico legame fra i due passaggi.

Lunedì Santo

(OHS 1956) : Si proibisce la preghiera “contra persecutores ecclesiae” e la preghiera per il Papa.

Si assiste all’eliminazione di tutti i riferimenti al fatto che la Chiesa abbia dei nemici. E’ la “ratio” dei riformatori che vogliono occultare con eufemismi o con sparizioni di interi passaggi la realtà della persecuzione della Chiesa da parte delle forze tanto terrestri quanto infernali, le quali lottano contro il Corpo Mistico di Cristo, tanto con la violenza che con l’insinuazione delle eresie (così si leggeva nell’orazione soppressa). La stessa attitudine irenista si riscontrerà il Venerdì Santo, candidamente confessata da Padre Carlo Braga. Nello stesso contesto si decreta la contemporanea proibizione dell’orazione per il Papa, inizia così la prassi di ridurre la presenza del nome del Romano Pontefice nella liturgia.
(MR 1952) : Si recita l’orazione contro i persecutori della Chiesa e quella per il Papa.
Martedì Santo

(OHS 1956) : Soppressione della lettura di Mc XIV, 1-31, decurtata dal Passio di S. Marco.
Si tratta della seconda sconcertante eliminazione del passaggio evangelico dell’istituzione dell’eucaristia messa in rapporto con il sacrificio della Passione. La riduzione di appena trenta versetti non sembra poter essere determinata solo da motivi di tempo, vista, ancora una volta, l’importanza dei passi.
(MR 1952) : Il passaggio Mc XIV, 1-31 relativo all’Ultima Cena e all’Istituzione, costituisce l’inizio della lettura della Passione.

Mercoledì Santo


(OHS 1956) : Soppressione della lettura di Lc XXII, 1-39, decurtata dal Passio di S. Luca.
Si tratta della terza impressionante eliminazione del passaggio evangelico dell’istituzione dell’eucaristia, nel suo naturale legame col sacrificio della Croce. In questo caso, come nei precedenti, resta difficile credere che, per soli motivi di tempo, si siano eliminati i trenta importanti versetti.
Ne consegue, difficile dire se volutamente o meno, anche l’eliminazione del passaggio cosiddetto “delle due spade”, passaggio poco amato dalle correnti teologiche d’avanguardia.
(MR 1952) : La narrazione della Passione è preceduta dall’istituzione dell’eucaristia con cui è naturalmente messa in rapporto.
Giovedì Santo
(OHS 1956) : Introduzione della stola come abito corale dei sacerdoti.
Inizia la costruzione del mito della concelebrazione del Giovedì Santo. I riformatori più audaci volevano introdurla a partire da questa riforma ma le resistenze, verosimilmente di membri come il Card. Cicognani e Mons. Dante, impedirono questa novità. Padre Braga scrive: “per la partecipazione dei presbiteri, non sembrò realizzabile la concelebrazione sacramentale (la mentalità, anche di alcuni membri influenti della Commissione non era ancora preparata)”. In effetti vi era ancora un sentimento fortemente ostile alla concelebrazione del Giovedì Santo poiché non tradizionale, “la concelebrazione tanto consacratoria che puramente cerimoniale è da escludersi”. Per introdurre l’idea di concelebrazione ci si dovette accontentare di inventare la pratica di mettere la stola ad ogni prete presente, non più soltanto al momento della comunione, ma a partire dall’inizio della Messa.
(MR 1952) : I sacerdoti e i diaconi presenti indossano l’abito corale normale, senza la stola, che indossano solo al momento della comunione, come avveniva usualmente[61].

(OHS 1956) : Si introduce la pratica di comunicare solo con ostie consacrate in questo giorno[62].
Non si capisce per quale ragione i presenti non possano comunicare alle ostie già consacrate in precedenza. La pratica romana del “Fermentum” - questa sì storicamente provata – era generalmente di comunicare con una parte dell’eucaristia della domenica precedente, ad indicare la comunione della Chiesa nel tempo e nello spazio, intorno alla realtà del Corpo di Cristo. Questa presenza essendo “reale e sostanziale” continua quando l’assemblea si scioglie, allo stesso titolo può ragionevolmente precedere la riunione dell’assemblea. Con questa rubrica si introduce un’idea di presenza reale legata al giorno della celebrazione e un obbligo a comunicare con le particole consacrate nello stesso giorno. Quasi a dire che quelle particole eucaristiche siano in qualcosa differenti da quelle consacrate precedentemente. Si fa notare che l’obbligo non è solo relativo alla simbologia del tabernacolo vuoto prima della Messa del Giovedì Santo, la qual cosa al limite avrebbe potuto avere un qualsivoglia significato, benché nuovo, ma il testo afferma che i comunicandi devono ricevere solo particole consacrate in questo giorno[63]. La teologia che sottende non pare delle più solide mentre la simbologia inventata è discutibile.
(MR 1952) : Non vi è alcuna menzione di questa pratica di una comunione ad ostie consacrate il Giovedì Santo[64].

(OHS 1956) : La lavanda dei piedi non è più alla fine della Messa ma durante la celebrazione[65].
La riforma si appellava al ripristino della “veritas horarum”[66], argomento usato a proposito e a sproposito, come vero e proprio cavallo di battaglia. In questo caso invece si stravolge la successione cronologica del Vangelo. Fiumi d’inchiostro erano corsi per convincere dello scandalo di orari che non fossero in piena corrispondenza con quelli evangelici, ma in questo caso non solo si anticipa o posticipa un rito per esigenze pratiche, ma si inverte l’ordine cronologico degli avvenimenti evangelici all’interno dello stesso rito. S. Giovanni aveva scritto che Nostro Signore aveva lavato i piedi agli Apostoli dopo la cena: “et cena facta”(XIII,2). Non si capisce per quale arcano motivo i riformatori scelgano, arbitrariamente, di collocare in piena Messa la lavanda dei piedi. Nel mezzo della Messa alcuni laici possono quindi accedere in coro e levare scarpe e calzini. Appare una volontà di ripensare la sacralità dello spazio presbiterale e la sua interdizione ai laici durante gli offici. Il lavaggio dei piedi viene quindi spostato all’offertorio, abusando della pratica di spezzare la celebrazione della Messa con altri riti, pratica che si fonda sulla discutibile divisione tra liturgia della parola e liturgia eucaristica.
(MR 1952) : Il rito del “mandatum”, altrimenti detto della lavanda dei piedi, si faceva dopo la Messa e non in presbiterio, dopo aver spogliato gli altari, senza spezzare la Messa, senza far accedere dei laici nel coro durante gli offici e rispettando la successione cronologica descritta dal Vangelo[67].
(OHS 1956) : Omissione del “Confiteor” del diacono prima della comunione[68].
Si elimina il terzo odiato “Confiteor”, non tenendo conto del fatto che la confessione del diacono o dell’inserviente, benché mutuata dal rito della comunione extra missam, è la confessione dell’indegnità dei comunicandi di ricevere le sacre specie. Essa non è un “doppione” della confessione del sacerdote e dei ministri all’inizio della Messa, poiché in quel momento, essi hanno recitato semplicemente la propria indegnità di accostarsi all’altare per officiare i sacri misteri (per questo motivo alla Messa cantata è recitata sottovoce), la qual cosa é distinta dall’indegnità di accedere alla comunione.
(MR 1952) : Si recita il “Confiteor” prima della Comunione[69].

(OHS 1956) : Dopo la fine della Messa alla denudazione degli altari si stabilisce di levare anche la croce e i candelieri[70].
Si decide che gli altari debbano essere spogli di tutto, anche della croce. La rubrica della riforma del Giovedì Santo, non spiega cosa fare della croce d’altare, ma lo si scopre accidentalmente da quella dell’indomani. In effetti nelle rubriche del Venerdì Santo si parla di un altare senza croce[71], se ne può dedurre che è stata asportata durante la denudazione degli altari, oppure in forma privata durante la notte (questi ed altri problemi si ingenerano allorquando si mette mano ad una liturgia che beneficia della stratificazione della tradizione e che mal sopporta le incursioni frettolose). Forse, sulla base di un certo archeologismo liturgico, si vogliono preparare gli spiriti allo spettacolo, teologicamente non molto sensato, di una tavola nuda al centro del coro.
(MR 1952) : La croce resta sull’altare, velata e con i candelieri, troneggia sull’altare in attesa di essere svelata l’indomani[72].



Sepolcro

Venerdì Santo


(OHS 1956) : Si inventa la dicitura di “Solenne azione liturgica”[73], eliminando quella antichissima di “Messa dei presantificati” o di “Feria Sexta in Parasceve”.
Il nome di “presantificati” sottolineava la consacrazione delle specie avvenuta in un ufficio precedente, si legava al ritorno solenne dell’eucaristia, che è una parte importante e antica del rito, ma questo concetto è tenuto in antipatia dalla commissione, che decide di riformare il nome e con esso la struttura del rito : “ridurre le amplificazioni strutturali del Medioevo, tanto poco indovinate della cosiddetta “messa dei presantificati” alle severe e pure linee originali di una grandiosa comunione generale”[74]. Nemmeno la dicitura “in Parasceve” trova grazia, benché le sue reminiscenze ebraizzanti denotino la più alta antichità.
(MR 1952) : Si chiama “Missa Praesanctificatorum” oppure “Feria Sexta in Parasceve”[75].

(OHS 1956 ) : L’altare non ha più la croce velata[76].
L’immagine della croce, specie quella d’altare, era stata velata nella prima domenica di Passione, perché restasse dove essa deve naturalmente stare, ovvero al centro dell’altare, per poi essere svelata solennemente e pubblicamente il Venerdì Santo, giorno del trionfo della Passione redentrice. Gli autori della riforma sembrano non amare la croce d’altare e decidono di rimandarla in sacrestia la sera del Giovedì Santo, in forma non solenne, con i panieri che servono a portare le tovaglie dell’altare ormai denudato, oppure durante la notte in una forma ignota di cui le rubriche del Giovedì Santo non parlano. Proprio nel giorno più importante della sua storia in cui la Croce dovrebbe svettare sull’altare, benché velata all’inizio della cerimonia, essa è assente. Il fatto che sia presente, da circa quindici giorni sull’altare, ma pubblicamente velata, rendeva sensato lo svelamento pubblico successivo, invece di un a-liturgico ritorno della croce dalla sacrestia, come se qualcuno l’avesse nascosta, nottetempo, nell’armadio.
(MR 1952) : La croce velata restava al suo posto ossia sull’altare denudato delle tovaglie, con i soli candelieri[77].


(OHS 1956) : La lettura del Vangelo non è più distinta da quella della Passione.
Il tutto prende in nome più narrativo di “Storia della Passione”. Il motivo di questa modifica non è chiaro, dato che la Commissione era parsa di parere opposto nel caso analogo della Domenica delle Palme[78]. Forse l’intento è di eliminare, come altrove, ogni segno che faccia riferimento alla Messa, come lo è la lettura del Vangelo, e di conseguenza giustificare la soppressione del nome di “Messa dei presantificati”.
(MR 1952) : Il Vangelo si canta in modo distinto dalla Passione, ma, in questo giorno di lutto, senza incenso né lumi[79].



(OHS 1956) : Le tovaglie d’altare non sono più stese dall’inizio della cerimonia, allo stesso modo si decide che il prete non abbia la pianeta fin dall’inizio, ma ha solo camice e stola[80].
Il fatto che il sacerdote abbia la pianeta anche per un rito che non è quello della Messa stricto sensu testimoniava dell’altissima antichità di queste cerimonie, riconosciuta anche dai membri della Commissione. Essi da una parte sostengono che le cerimonie del Venerdì erano costituite da “elementi che (fin dall’antichità nda) rimasero sostanzialmente intatti”[81], dall’altra vorrebbero introdurre una modifica che separi la liturgia eucaristica dalla “prima parte della liturgia, la liturgia della parola”[82]. Questa distinzione, ancora in embrione, doveva essere significata, secondo padre Braga, dal fatto che il celebrante indossasse solo la stola e non la pianeta: “per la liturgia della parola (il celebrante) era rimasto solo con la stola”[83].
(MR 1952) : Il sacerdote ha la pianeta nera, giunto all’altare si prostra, nel frattempo gli accoliti spiegano una sola tovaglia sull’altare nudo[84].



La questione della preghiera per i giudei, essendo del tutto accessoria ad uno studio sulla Settimana Santa non può essere abbordata che in uno studio che faccia chiarezza sul malinteso filologico relativo all’interpretazione erronea del parola “perfidi”-“perfidia”[85].



(OHS 1956): Per la settima orazione si introduce il nome di “Pro unitate Ecclesiae”[86].

Con l’ambiguità espressiva si introduce l’idea di una Chiesa alla ricerca della propria unità sociale che ancora non avrebbe. La Chiesa, secondo la dottrina cattolica tradizionale e solennemente definita, non manca della sua unità sociale nello stadio terreno, poiché detta unità è una proprietà essenziale della vera Chiesa di Cristo, questa unità non è una caratteristica che bisogna ancora ricercare nel dialogo ecumenico, essa è già metafisicamente presente. In effetti la frase di Cristo “ut unum sint”, è una preghiera efficace di Nostro Signore, come tale essa è già realizzata. Coloro che sono fuori della Chiesa devono tornare ad essa, devono tornare alla sua “unità” che già esiste, non devono riunirsi ai cattolici per dar luogo ad un’unità che non esisterebbe ancora. Lo scopo dei riformatori era invece eliminare da questa preghiera, ci dice Padre Braga[87], alcune parole ingombranti che parlavano delle anime ingannate dal demonio e trascinate nella malvagità dell’eresia: “animas diabolica fraude deceptas” e “haeretica pravitate”. Nella stessa logica si voleva eliminare la conclusione che si augurava un ritorno degli erranti all’unità della verità di Cristo nella Sua Chiesa: “errantium corda resipiscant, et ad veritatis tuae redeant unitatem”. Tuttavia non si poté riformare il testo dell’orazione, ma solamente il titolo, perché all’epoca - si lamenta ancora Padre Braga - “l’unità era concepita nei termini dell’ecumenismo preconciliare”[88]. Altrimenti detto, nel 1956 l’unità della Chiesa era concepita come già esistente e si chiedeva a Dio di incorporare ad un’unità già esistente coloro che da questa unità erano lontani o separati. Nella Commissione c’erano ancora dei membri di idee tradizionali che si opponevano all’opera di erosione dottrinale, senza poter impedire la creazione di un ibrido teologico, come è la scelta di lasciare il testo tradizionale, ma col nuovo titolo. Lo stesso Annibale Bugnini, circa dieci anni dopo si rese conto che pregare per una futura unità della Chiesa costituisce un’eresia e ne fa menzione in un articolo de “L’Osservatore Romano” che biasima il titolo della preghiera “per l’unità della Chiesa”, introdotta dieci anni prima dalla Commissione di cui era membro. Egli, lodando le preghiere nuovamente introdotte nel 1965 scrive che l’orazione aveva cambiato nome da “per l’unità della Chiesa” in “per l’unità dei cristiani”, perché “la Chiesa è sempre stata una”, ma nel compenso all’epoca si era riusciti ad eliminare le parole “eretici” e “scismatici”[89]. E’ triste constatare che queste altalenanti manovre si servono ad arte della liturgia per veicolare novità teologiche.
(MR 1952) : Il testo è lo stesso del 1956 dove si prega perché eretici e scismatici tornino all’unità della Sua Verità, “ad veritatis tuae redeant unitatem”[90], manca il titolo ambiguo dell’orazione del 1956: “Pro unitate Ecclesiae”.

(OHS 1956) : Si inventa a questo punto la processione del ritorno solenne della croce dalla sacrestia[91].
Questa volta la croce torna liturgicamente, cioè pubblicamente e non avvolta nei panieri coi candelieri e i fiori come la sera precedente. In liturgia ciò che è partito in processione solennemente, torna solennemente; questa innovazione fa tornare solennemente un simbolo che la sera prima è stato asportato insieme ad altri oggetti in forma privata, mettendolo, nel migliore dei casi, in un canestro di vimini. Non si comprende affatto il significato liturgico dell’introduzione di questa processione di ritorno della croce nascosta. Siamo forse dinanzi al maldestro tentativo di restituire il rito che si compiva a Gerusalemme nei secoli IV-V e che ci è noto attraverso Egeria: “a Gerusalemme l’adorazione avveniva sul Golgota. Egeria ricorda che la comunità si raccoglieva di buon mattino. Davanti al Vescovo(…) e veniva portata la teca d’argento contenente le reliquie della croce”[92]. La restituzione di questa processione di ritorno della croce avviene in un contesto che non è il Monte Calvario dei primi secoli, ma che è la liturgia romana, la quale già da tempo aveva sapientemente elaborato e integrato eventuali apporti gerosolimitani in un rito plurisecolare.
(MR 1952) : La croce era rimasta avvolta dal velo fin dalla prima domenica di passione, sull’altare; essa veniva svelata pubblicamente nei pressi dello spazio dell’altare, cioè nel punto in cui era restata pubblicamente velata fino ad allora[93].

Papa Giovanni XXIII adora la croce secondo le rubriche precedenti alla riforma


(OHS 1956) : Si riduce l’importanza della processione eucaristica[94].
Si inventa la processione della croce, ma la riforma decide di ridurre la processione del ritorno del Corpo di Cristo a forma quasi privata, in un’inspiegabile inversione di prospettive. Il Santissimo Sacramento era stato portato il giorno precedente solennemente all’altare del Sepolcro (deliberatamente utilizziamo questo nome di “Sepolcro”, perché tutta la tradizione cristiana lo chiama così, ivi compreso il Memoriale Rituum e la Congregazione dei Riti, anche se i membri della Commissione mal sopportavano questo termine[95]; esso ci pare profondamente teologico e impregnato di quel “sensus fidei” che a certi teologi fa spesso difetto). Appare logico e “liturgico” che ad una processione solenne del tipo di quella del Giovedì Santo, faccia seguito un ritorno di pari dignità il Venerdì Santo. Si tratta infatti delle specie dello stesso Santissimo Sacramento del giorno precedente, si tratta del Corpo di Cristo. Con questa innovazione si riducono gli onori da rendersi al Santissimo e, nel caso della Messa solenne, si arriva a stabilire che sia il diacono ad andare all’Altare del Sepolcro a prendere il Santissimo, mentre il prete resterà tranquillamente seduto allo stallo. Il Celebrante avrà l’amabilità di alzarsi allorquando, sotto le specie eucaristiche, Nostro Signore, portato da un subalterno, ritorna all’altare principale. Forse per questo motivo Giovanni XXIII non volle applicare questa rubrica nella Messa celebrata in Santa Croce in Gerusalemme e volle andare lui stesso, Papa e celebrante, a prendere il Santissimo.
(MR 1952) : Il Santissimo Sacramento torna in una processione di solennità pari a quella del giorno precedente. E’ il celebrante che va a prenderlo, come è naturale; trattandosi di Nostro Signore stesso presente nell’ostia non si invia un subalterno per portarlo all’altare [96].

(OHS 1956) : Eliminazione degli incensamenti dovuti all’ostia consacrata[97].
Non è dato comprendere perché il Venerdì Santo gli onori da rendere a Dio debbano essere inferiori a quelli degli altri giorni.

(MR 1952) : L’ostia consacrata è incensata come di consueto, il celebrante invece non è incensato[98], i segni di lutto sono chiari, ma non si estendono alla Presenza Reale. 



(OHS 1956) : Introduzione del “Pater” recitato dai fedeli[99].
“La preoccupazione pastorale di una partecipazione cosciente e attiva della comunità cristiana” è dominante, i fedeli devono diventar “veri attori della celebrazione (..) era ciò che chiedevano i fedeli, soprattutto quelli più sensibili alla nuova spiritualità (..) la commissione ha accolto le aspirazione fondate del popolo di Dio”[100]. Resta da dimostrare se queste aspirazioni fossero dei fedeli o di un gruppo di liturgisti d’avanguardia. Resta anche da specificare teologicamente cosa fosse la menzionata “nuova spiritualità” con le sue “aspirazioni”.
(MR 1952) : Il “Pater” è recitato dal Sacerdote.[101


(OHS 1956) : Eliminazione della preghiere con riferimenti sacrificali durante la consumazione dell’ostia[102].
E’ vero che in questo giorno non si ha, stricto sensu, sacrificio eucaristico con la separazione delle sacre specie, ma è anche vero che la consumazione della vittima, immolata il giorno precedente, è una parte, benché non essenziale, del sacrificio. Di esso è in un certo senso la continuazione sacramentale, poiché il Corpo consumato è pur sempre un Corpo immolato e sacrificato, per questo motivo la tradizione faceva menzione del sacrificio nelle preghiere connesse alla consumazione dell’ostia. Alcuni membri della commissione ritengono che dopo tanti anni di tradizione sia venuto il momento di correggere gli errori e dicono che parole come “meum ac vestrum sacrificium” erano “completamente fuori posto in questa occasione, trattandosi non di un sacrificio, ma solo di comunione”[103]. La decisione sarà quindi d’abolire queste preghiere plurisecolari.
(MR 1952) : Si ha la preghiera “Orate fratres ut meum ac vestrum sacrificium..”, ma la preghiera, visto il singolare contesto, non è seguita dalla consueta risposta[104].

(OHS 1956) : Eliminazione dell’immissione di una parte dell’ostia consacrata nel vino del calice[105].
L’immissione di una parte d’ostia consacrata (il rito è conosciuto anche nel rito bizantino) nel vino non consacrato, evidentemente non consacra il vino, né ciò è mai stato creduto dalla Chiesa. Semplicemente quest’unione manifesta simbolicamente, ma non realmente, la riunificazione di quel frammento del Corpo di Cristo al Sangue, a simboleggiare l’unità del Corpo Mistico nella vita eterna, causa finale di tutta l’opera della Redenzione, che non disdice ricordare il Venerdì Santo. La “Memoria” conservata nell’archivio della Commissione afferma che questa parte del rito era assolutamente da sopprimere perché “esistendo poi agli inizi del Medioevo la credenza che la sola immissione del pane consacrato (sic!) nel vino bastasse per consacrare anche il vino stesso, fu introdotto anche questo rito; approfonditi poi gli studi sull’eucaristia, ci si rese conto della infondatezza di quella credenza, ma il rito restò”[106]. L’affermazione ha dello scandaloso per l’assenza di fondamento storico e di metodo scientifico, comporta anche conseguenze teologiche assai gravi. Anzitutto resta da dimostrare storicamente che nel Medioevo fosse diffusa la credenza di cui si parla. Alcuni teologi hanno potuto avere posizioni erronee, ma ciò non prova affatto che la Chiesa Romana abbia errato a tal punto da inserirla nella liturgia con questo preciso scopo teologico. In questo contesto si afferma esplicitamente che la Chiesa Romana, pur resasi conto del grave errore, non abbia voluto correggerlo; si sostiene che la Chiesa Romana possa cambiare opinione nel corso dei secoli su un argomento tanto rilevante; si afferma anche che essa possa errare in relazione a un fatto dogmatico (come la sua liturgia universale) e ciò addirittura per più secoli. Forse si cercava un fondamento per giustificare l’opera riformatrice inaugurata, che si accingeva a correggere tutti gli errori che generazioni intere di Papi non avevano visto, ma che l’occhio vigile della Commissione aveva finalmente smascherato. Spiace constatare che queste affermazioni sono imbevute dello pseudo-razionalismo di stampo positivista in voga negli anni cinquanta. Spesso ci si fondava su studi sommari e talvolta poco scientifici, per demolire le deprecate “tradizioni medievali” e introdurre utili “evoluzioni”.
(MR 1952) : Si immette una parte di ostia consacrata nel vino, ma si omettono, con grande coerenza teologica, le preghiere relative alla consumazione del sangue[107].

(OHS 1956) : Lo spostamento degli orari, che poteva essere fatto in armonia con gli usi popolari, finisce per creare notevoli problemi pastorali e liturgici .
Le pratiche di devozione e di pietà si erano nel passato sviluppate in modo da essere coerenti con la liturgia. Un esempio fra molti: in moltissimi luoghi a partire dal mezzogiorno si espone ancor oggi un grande crocifisso, davanti al quale si predicano le tre ore di agonia di Nostro Signore (dalle 12 alle 15); in conseguenza dello spostamento d’orario ci si ritrova di fronte al paradosso di una predicazione davanti alla scena della crocifissione, allorquando la croce con il crocifisso dovrebbero essere ancora velati perché il rito deve aver luogo nel pomeriggio[108]. Alcune diocesi sono ancor oggi costrette a spostare la cerimonia dell’ “Azione liturgica” in una chiesa diversa da quella nella quale si svolgono le antiche pratiche di pietà, per evitare che la vistosa incongruenza sia troppo evidente. Numerosi esempi analoghi potrebbero essere addotti. Resta comunque l’evidenza che la riforma, “pastorale” per eccellenza, non fu “pastorale”, perché nata da esperti che non avevano un reale contatto con le parrocchie né con la devozione e la pietà popolari, che anzi spesso disprezzavano. Secondo i riformatori, nelle ore pomeridiane si era creato un “vuoto liturgico” e nel tempo si era cercato di rimediarvi “introducendo elementi paraliturgici, come le tre ore d’agonia, la Via Crucis, l’Addolorata”[109]. La Commissione decide quindi di rimediare allo scandalo con il peggiore dei metodi “pastorali”, che è quello di scalzare le pratiche popolari e di non tenerle in alcuna considerazione. Il fare sprezzante di questa “pastorale” scorda che l’ “inculturazione” è un fenomeno cattolico di lunga data, il quale consiste a conciliare dogma e pietà, a seconda delle latitudini e non ad imporre univocamente i provvedimenti degli “esperti”.
(MR 1952) : Il problema non si pone per questioni di orario, liturgia e pietà si erano sviluppate nei secoli l’una in funzione dell’altra, senza per questo contrapporsi in un antagonismo inutile quanto immaginario.

Sabato Santo

(OHS 1956) : Si introduce una benedizione del cero pasquale sul sagrato con un cero che deve essere portato dal diacono, durante tutta la cerimonia[110].
Con la riforma operata si rendono inutilizzabili proprio nel giorno del Sabato Santo tutti i candelabri pasquali della cristianità alcuni dei quali risalenti agli albori del Cristianesimo. Col pretesto di tornare alle origini, i capolavori liturgici dell’antichità diventano inservibili pezzi da museo. Il numero ternario delle invocazioni “lumen Christi” non ha più una ragione liturgica.
(MR 1952) : All’esterno si benediceva il fuoco nuovo e i grani d’incenso, ma non il cero; il fuoco passava all’arundine, una sorta di asta con tre ceri alla sommità, i quali erano illuminati in processione, progressivamente ad ogni invocazione “lumen Christi”, di qui le tre invocazioni (tante quanti i ceri illuminati); con uno di questi ceri si accendeva il cero pasquale che fin dall’inizio della cerimonia era sul suo candelabro pasquale (in molte chiese paleocristiane l’altezza del candelabro aveva determinato la costruzione di un ambone di pari altezza per poter raggiungere il cero); Il fuoco (la luce della Resurrezione) veniva portato dall’arundine con tre ceri (la Santissima Trinità) al grande cero pasquale (il Cristo Risorto), a simboleggiare che la Resurrezione è opera della Santissima Trinità[111].

Ambone e candelabro pasquale


una processione con esso in una chiesa che si illumina progressivamente ad ogni (OHS 1956) : Invenzione della collocazione del cero pasquale al centro del coro, dopo invocazione “lumen Christi”, ad ogni invocazione si genuflette verso il cero (sic), alla terza invocazione tutta la chiesa è illuminata[112].
Inventata una processione col cero, si decide di collocare quest’ultimo al centro del coro dove diventa punto di riferimento della preghiera, così come lo era diventato durante la processione; diventa più importante dell’altare e della croce, in una strana novità che altera l’orientamento della preghiera a fasi intermittenti.
(MR 1952) : Il cero sta spento sul suo candelabro, spesso nel lato del Vangelo, diacono e suddiacono vi si rendono con l’arundine per accenderlo al canto del preconio, gli unici ceri accesi dal fuoco-luce della Resurrezione sono quelli dell’arundine fino al canto dell’ “Exultet”[113].
Canto dell'Exultet

(OHS 1956) : Stravolgimento della simbologia dell’ “Exultet” e della sua natura di benedizione diaconale [114].
Alcuni riformatori volevano stravolgere questa cerimonia, ma l’amore che sempre si portava al canto dell’ “Exultet” fece che altri si opponessero a modifiche del testo: “la commissione però, dato che i passi che si potrebbero eliminare sono pochi e di piccola mole, pensa che sia più opportuno conservare il testo tradizionale”[115]. il risultato fu l’ennesimo pasticcio di un canto tradizionale associato ad un rito totalmente alterato. Avvenne così che uno dei momenti più significativi dell’intero ciclo liturgico diventasse una scena teatrale di disarmante incoerenza. In effetti le azioni di cui parla il cantore dell’ “Exultet” sono state già fatte circa mezz’ora prima sul sagrato della chiesa. Si canta l’inserzione dei grani d’incenso, “suscipe pater incensi huius sacrificium vespertinum”[116], ma essi sono già da tempo infissi nel cero. Si magnifica l’accensione del cero con la luce della Resurrezione, “sed iam columnae huius praeconia novimus quam in honorem Dei rutilans ignis accendit”[117], ma il cero è acceso da tempo e già cola abbondante cera. Non vi è più alcuna logica. La simbologia della luce è ancora stravolta allorquando si canta trionfalmente l’ordine di accendere tutte le luci, simbolo della Resurrezione, “alitur enim liquantibus ceris, quas in substantiam pretiosae huius lampadis apis mater eduxit”[118], ma in una chiesa che, già da tempo, è tutta illuminata dai ceri accesi col fuoco nuovo. Questa simbologia riformata non è comprensibile semplicemente perché non è simbolica, le parole pronunciate non hanno più alcun rapporto con la realtà del rito. Il canto del preconio pasquale costituiva inoltre, unitamente ai gesti che lo accompagnavano, la benedizione diaconale per eccellenza, dopo la riforma il cero è stato benedetto con acqua all’esterno della chiesa, ma si vuol mantenere una parte dell’antica benedizione perché di grande bellezza estetica, purtroppo così facendo la liturgia è ridotta a teatro.
(MR 1952) : Il canto dell’ “Exultet” inizia davanti al cero spento, i grani di incenso si infiggono quando il canto parla dell’incenso, il cero è acceso dal diacono e le luci della chiesa si illuminano quando il canto fa riferimento a queste azioni, queste azioni unite al canto costituiscono la benedizione[119].


(OHS 1956) : Introduzione dell’incredibile prassi di dividere in due parti le litanie, all’interno delle quali si inserisce la benedizione dell’acqua battesimale[120].
La scelta è semplicemente stravagante e incoerente, non si è mai visto spezzare in due parti una preghiera impetratoria, l’introduzione dei riti battesimali al suo interno è di una incoerenza ancora maggiore.
(MR 1952) : Compiuta la benedizione del fonte battesimale, si cantano le litanie che precedono la Messa[121].

(OHS 1956) : Introduzione della benedizione dell’acqua battesimale in una bacinella al centro del coro, con il celebrante rivolto ai fedeli e con le spalle all’altare[122].
In sostanza si decide di sostituire il fonte battesimale con una casseruola da installare nel centro del coro, la scelta è dettata ancora una volta dall’ossessione che tutti i riti siano compiuti da “ministri sacri rivolti al popolo”[123], ma con le spalle a Dio; i fedeli devono in questa logica diventare i “veri attori della celebrazione (…) la Commissione ha accolto le aspirazioni fondate del popolo di Dio(…)la Chiesa era aperta ai fermenti di rinnovamento”[124]. Queste scelte avventate e fondate da un populismo pastorale che il popolo non aveva mai chiesto, finirono per distruggere tutta la ratio dell’architettura sacra dalle origini ad oggi. Un tempo il fonte battesimale era fuori della chiesa o, in epoca successiva, all’interno delle mura dell’edificio, ma nei pressi della porta d’accesso, perché, secondo la teologia cattolica, il battesimo è la porta, è la “ianua sacramentorum”. Esso è il sacramento che rende membro della Chiesa colui che ancora è fuori da essa; è il sacramento che permette l’accesso reale nella Chiesa, come tale era quindi figurato dai gesti liturgici. Il catecumeno riceverà il carattere che lo farà membro della Chiesa, perciò deve essere accolto all’ingresso, lavato dall’acqua battesimale e acquista così il diritto di accedere nella navata in quanto nuovo membro della Chiesa, in quanto fedele; ma in quanto fedele accede alla navata e non al coro dove siede il clero, che è composto da membri della Chiesa che hanno il sacerdozio ministeriale o che ad esso si relazionano. Questa distinzione tradizionale era voluta perché il sacerdozio cosiddetto “comune” dei battezzati è distinto dal sacerdozio ministeriale, è distinto per essenza e non per specie, sono due cose diverse, non sono gradi differenti di una stessa essenza. I cambiamenti apportati invece fanno accedere nel coro (luogo riservato ai membri facenti parte del clero) non soltanto i battezzati (come già hanno fatto per il Giovedì Santo), ma addirittura il non battezzato. Colui che è ancora “preda del demonio” perché ha il peccato originale, viene trattato addirittura come colui che ha ricevuto l’ordine sacro e accede al coro sebbene ancora catecumeno. La simbologia tradizionale ne risulta massacrata.
(MR 1952) : La benedizione dell’acqua battesimale si fa al fonte battesimale, fuori della chiesa o in fondo ad essa; l’eventuale catecumeno è accolto all’ingresso della Chiesa, riceve il Battesimo, poi può accedere alla navata, ma non entra nel coro, come è logico, né prima né dopo il Battesimo[125].


(OHS 1956) : Alterazione della simbologia del canto del “sicut cervus” del salmo 41[126].
Dopo l’invenzione di un battistero nel coro, ci si trova davanti al problema dell’esigenza di riportare l’acqua utilizzata da qualche parte, si decide quindi di inventare una cerimonia per portare l’acqua al fonte dopo averla benedetta davanti ai fedeli e soprattutto dopo aver amministrato un eventuale Battesimo. La traslazione dell’acqua battesimale si compie cantando il “sicut cervus”, cioè quella parte del salmo 41 che fa riferimento alla sete del cervo, che si scatenerebbe dopo il morso del serpente e che si estingue solo bevendo l’acqua salutare. Tuttavia non si tiene nel dovuto conto che il cervo era assetato dell’acqua battesimale dopo il morso del serpente infernale, ma se il battesimo è gia stato conferito il cervo non ha più sete perché, in figura, ha già bevuto! La simbologia è alterata, quasi capovolta.
(MR 1952) : Alla fine del canto delle profezie il celebrante si dirige verso il fonte battesimale per procedere alla benedizione dell’acqua e al Battesimo se necessario, mentre si canta il “sicut cervus”[127]. Il canto precede, logicamente, il conferimento del Battesimo.


(OHS 1956) : Invenzione ex nihilo del “rinnovamento delle promesse battesimali”[128].
Si procede in certo modo “alla cieca” con creazioni pastorali che non hanno un vero appoggio nella storia della liturgia. Sulla scia di quell’idea per cui i sacramenti devono rivivere nelle coscienze si pensa al rinnovamento delle promesse battesimali. Esso diventa una sorta di “presa di coscienza” del sacramento ricevuto in passato. Una simile tendenza si era affermata già negli anni venti del secolo scorso. In velata polemica col provvedimento di San Pio X sulla comunione dei bambini, si era introdotta la singolare pratica della “comunione solenne” o “professione di fede”: i ragazzi verso i tredici anni dovevano “rifare” la prima comunione, in una sorta di presa di coscienza del sacramento che già ricevevano da qualche anno. La pratica, pur senza mettere in discussione la dottrina cattolica dell’ “ex opere operato”, accentua nel sacramento l’aspetto soggettivo su quello oggettivo. La nuova pratica finì col tempo per oscurare e far trascurare il sacramento della Cresima. Un analogo processo si riscontrerà nel 1969 con l’introduzione nel Giovedì Santo della cerimonia del “rinnovamento delle promesse sacerdotali”. Con questa prassi si introduce un legame tra ordine sacramentale e ordine sentimentale-emozionale, tra efficacia del sacramento e presa di coscienza, che non ha gran riscontro nella tradizione. Il substrato di queste innovazioni, che non hanno fondamento alcuno né nella Scrittura, né nella prassi della Chiesa, sembra essere una debole convinzione nell’efficacia dei sacramenti. Pur non essendo in sé un’innovazione apertamente erronea, appare tuttavia molto incline a teorie di origine luterana, le quali, escludendo il ruolo dell’ “ex opere operato”, ritengono che i riti sacramentali servano più a “risvegliare la fede”, che a conferire la grazia.
Resta inoltre difficile capire cosa veramente si cerchi in questa riforma, infatti si fanno tagli per ridurre i tempi delle celebrazioni, ma si aggiungono noiosi passaggi che appesantiscono oltremisura la cerimonia.
(MR 1952) : Non esiste il rinnovamento delle promesse battesimali, così come, in questa forma, non è mai esistito nella storia tradizionale della liturgia d’Oriente e d’Occidente.


(OHS 1956) : Invenzione di un ammonizione durante il rinnovamento delle promesse battesimali, che può essere recitata anche in volgare[129].
I toni di quest’ammonizione moraleggiante tradiscono terribilmente l’epoca della redazione (la metà degli anni cinquanta), e oggi suonano già come desueti oltre ad essere un’aggiunta alquanto noiosa. Introducono inoltre il tipico modo a-liturgico di rivolgersi ai fedeli durante il rito, che è un ibrido fra l’omelia e la celebrazione, il quale avrà tanto successo negli anni successivi.
(MR 1952) : Non esiste.



(OHS 1956) : Introduzione del “Pater” recitato da tutti, possibilmente in volgare[130].
Il Padre nostro è preceduto da un’esortazione dai toni sentimentali.
(MR 1952) : Non esiste.


(OHS 1956) : Introduzione, nell’assenza di qualsivoglia senso liturgico, della seconda parte delle litanie lasciate a metà prima della benedizione dell’acqua battesimale[131].
Si era impetrato in ginocchio, prima della benedizione dell’acqua battesimale, in seguito si compiono un gran numero di cerimonie e spostamenti nel coro, poi si gioisce per un evento come la benedizione dell’acqua battesimale o per un eventuale Battesimo, quindi si riprende la stessa preghiera litanica e impetratoria che era stata interrotta mezz’ora prima, nel punto preciso in cui la si era lasciata in sospeso (difficile determinare se i fedeli si ricordino quando hanno lasciato a metà questa preghiera). L’innovazione è incoerente e incomprensibile.

(MR 1952) : Le litanie, recitate integralmente e senza interruzioni, si cantano dopo la benedizione del fonte battesimale, prima della Messa[132]


(OHS 1956) : Soppressione delle preghiere ai piedi dell’altare, del salmo “Iudica me Deus” (salmo 42) e del Confiteor all’inizio della Messa[133].



Si decide che la Messa debba iniziare omettendo la recita del Confiteor e del salmo penitenziale; il salmo 42, che ricorda l’indegnità del sacerdote di accedere all’altare, non è apprezzato, forse perché esso si recita ai piedi dell’altare prima di potervi ascendere. Quando la logica liturgica che sottende è quella relativa all’altare visto come “ara crucis”, luogo sacro e terribile dove si rende presente la Passione redentrice di Cristo si comprende una preghiera che ricordi l’indegnità per chiunque di salire quei gradini. La sparizione del salmo 42, che negli anni successivi sarà eliminato da tutte le messe, sembra invece voler preparare alla ritualità di un altare che simboleggia una mensa comune, più che il Calvario, di conseguenza non incute più quel sacro timore e quel senso d’indegnità affermato nel salmo.
(MR 1952) : La Messa inizia con le preghiere ai piedi dell’altare, col salmo 42: “Iudica me Deus”, col Confiteor[134].

(OHS 1956) : Nel medesimo decreto si aboliscono tutti i riti della Vigilia di Pentecoste a eccezione della Messa[135].
Questa frettolosa abolizione ha tutta l’aria di essere stata aggiunta all’ultimo momento. La Pentecoste da sempre prevedeva una vigilia simile nei riti a quella pasquale. La riforma tuttavia non aveva avuto modo d’occuparsi della Pentecoste. Né si potevano lasciare in piedi i due riti, che, a distanza di cinquanta giorni, si sarebbero svolti l'uno in forma riformata, l’altro in forma tradizionale. Nella fretta si decise di sopprimere quello che non si aveva avuto il tempo di riformare, la scure cadde sulla Vigilia di Pentecoste. Tanta improvvida fretta fece si che il rapido taglio dei riti della Vigilia di Pentecoste non fosse armonizzato coi testi della Messa che tradizionalmente seguiva tali riti. Di conseguenza nel rito violentemente mutilato restano frasi che rendono incongruenti le parole del celebrante nel canone. Questo canone prevede che la Messa sia preceduta dai riti battesimali, che invece sono stati soppressi. In conseguenza, in seguito alla riforma, il celebrante dice durante lo speciale “hanc igitur” le parole relative all’atto battesimale della vigilia, sia esso la benedizione del fonte o la collazione del sacramento: “pro his quoque, quos regenerare dignatus es ex aqua, et Spiritu Sancto, tribuens eis remissionem peccatorum”[136], ma di questo rito non vi è più traccia alcuna. La commissione nella fretta di sopprimere non se era forse resa conto.
(MR 1952) : La Vigilia di Pentecoste ha i suoi riti di carattere battismale cui fa riferimento l’“hanc igitur” della Messa seguente[137].




Conclusione

In conclusione, come già affermato, i cambiamenti non si limitarono a questioni di orario, che legittimamente e sensatamente potevano essere modificati per il bene dei fedeli, ma stravolsero i riti secolari della Settimana Santa. Fin dalla Domenica delle Palme si inventa una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Giovedì Santo si fanno accedere i laici nel coro, nel rito del Venerdì Santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce, nel Sabato Santo non solo si lascia libero sfogo alla fantasia riformatrice degli esperti, ma si demolisce la simbologia relativa al peccato originale e al Battesimo come porta d’accesso alla Chiesa. In un’epoca che dice di voler riscoprire la Scrittura si riducono i passaggi letti in questi importantissimi giorni, e si tagliano proprio i passaggi evangelici relativi all’istituzione dell’eucaristia nei Vangeli di Matteo, Luca e Marco. Nella tradizione ogni volta che si leggeva in questi giorni l’istituzione dell’eucaristia essa era messa in rapporto con il racconto della Passione, ad indicare quanto l’Ultima cena fosse anticipazione della morte sulla croce dell’indomani, ad indicare quanto l’ultima cena avesse una natura sacrificale. Tre giorni erano consacrati alla lettura di questi passi, la Domenica delle Palme, martedì e mercoledì santo, grazie alla riforma l’istituzione dell’eucaristia scompare dall’intero ciclo liturgico!
Tutta la ratio di questa riforma appare permeata da un misto di razionalismo e archeologismo dai contorni a volte fantasiosi. Non si vuole affatto affermare che questo rito manchi della necessaria ortodossia, sia perché l’affermazione non consta, sia perché l’assistenza divina promessa da Cristo alla Chiesa anche in quelli che la teologia chiama “fatti dogmatici” (e fra essi riteniamo debba annoverarsi la promulgazione di una legge liturgica universale) impedisce l’espressione chiaramente eterodossa all’interno dei riti. A fronte di questa precisazione, non ci si può esimere tuttavia dal notare l’incongruenza e la stravaganza di alcuni riti della Settimana Santa riformata, nel contempo si reclama la possibilità e la liceità di una discussione teologica sull’argomento, nella ricerca della vera continuità dell’espressione liturgica della Tradizione.
Negare che l’ “Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus” sia il prodotto di un gruppo di sapienti accademici, cui purtroppo si accompagnarono avventati sperimentatori liturgici, è negare la realtà dei fatti; con il rispetto che dobbiamo all’autorità papale che promulgò questa riforma ci siamo permessi di avanzare le suddette critiche, poiché la natura sperimentale di queste innovazioni richiede che di esse si faccia un bilancio.
Secondo Padre Carlo Braga: questa riforma fu la “testa d’ariete” che scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell’anno, tanto stravolgimento ebbe notevoli ripercussioni su tutto lo spirito liturgico susseguente. In effetti segnò l’inizio di una deprecabile attitudine per cui in materia liturgica si poteva fare e disfare a piacimento degli esperti, si poteva sopprimere o reintrodurre sulla base di un’opinione storico-archeologica, salvo poi rendersi conto che gli storici si erano sbagliati (il caso più eclatante si rivelerà, mutatis mutandis, il tanto decantato “canone di Ippolito”).
La liturgia non è il giocattolo nelle mani del teologo o del simbolista più in voga, la liturgia trae la sua forza dalla Tradizione, dall’uso che la Chiesa infallibilmente ne ha fatto, da quei gesti che si sono ripetuti nei secoli, da una simbologia che non può esistere solo nelle menti di accademici originali, ma che risponda al senso comune del clero e del popolo, che per secoli ha pregato in quel modo. La nostra analisi è confermata dalla sintesi di Padre Braga, protagonista d’eccezione di quegli eventi: “ciò che non era possibile, psicologicamente e spiritualmente, al tempo di Pio V e Urbano VIII a causa della tradizione (e vorremmo sottolineare questo “a causa della tradizione” nda) della insufficiente formazione spirituale e teologica, della mancanza di conoscenza delle fonti liturgiche, era possibile al tempo di PIO XII”[138]. Pur condividendo l’analisi dei fatti, sia permesso obiettare che la Tradizione, lungi dal costituire un ostacolo alle opere di riforma liturgica, ne è il fondamento. Trattare con sufficienza l’epoca successiva al Concilio di Trento e definire San Pio V e i Papi che gli succedettero, uomini “dalla insufficiente formazione spirituale e teologica” è pretestuoso e pressoché eterodosso nel suo rifiuto dell’opera plurisecolare della Chiesa. Non è un mistero che questo fu il clima negli anni ’50 e ’60 durante le riforme. Sotto pretesto d’archeologismo si finisce per sostituire alla saggezza millenaria della Chiesa, il capriccio dell’arbitrio personale. Così facendo non si “riforma” la liturgia, ma la si “deforma”. Sotto il pretesto di restaurare aspetti antichi, sui quali esistono studi scientifici di valore dubbio e altalenante, ci si sbarazza della tradizione e, dopo aver squarciato il tessuto liturgico, si fa un vistoso rammendo ricucendovi un reperto archeologico di improbabile autenticità. L’impossibilità di resuscitare nella loro integralità riti che, se esistiti, sono morti da secoli, fa si che il resto dell’opera di “restauro” sia lasciato allo sfogo della libera fantasia degli “esperti”.
Il giudizio globale sulla riforma della Settimane Santa, ma non solo, in ragione del carattere di assemblaggio artefatto e di attuazione di intuizioni personali, mal raccordate con la tradizione, è complessivamente alquanto negativo, essa non costituisce certo un modello di riforma liturgica. Si è analizzato il caso della riforma del 1955-56, perché fu, secondo Annibale Bugnini, la prima occasione d’inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia.
I riti nati da questa riforma furono universalmente praticati nella Chiesa per pochissimi anni, in un susseguirsi continuo di riforme. Oggi quel modo artefatto di concepire la liturgia sta tramontando. Una vasta opera di riappropriazione delle ricchezze liturgiche del rito romano si fa strada. Lo sguardo deve andare immancabilmente a ciò che la Chiesa ha fatto per secoli, nella certezza che quei riti secolari beneficiano dell’ “unzione” dello Spirito Santo e in quanto tali costituiscono il modello insostituibile di ogni opera di riforma. L’allora Cardinal Ratzinger ebbe a dire: “nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa”[139], esse, specie se millenarie restano il faro per ogni opera di riforma.







[1] Cf. S. CONGREGRAZIONE DEI RITI, Decr. Dominicae Resurrectionis, 9 febbraio 1951: AAS 43, 1951, pp. 128 ss.; Decr. Maxima redemptionis nostrae mysteria, 16 novembre 1955: AAS 47, 1955, pp. 838 ss.[2] N. GIAMPIETRO, A cinquant’anni dalla riforma liturgica della Settimana Santa, in Ephemerides liturgicae, anno CXX, 2006, n. 3 luglio-settembre, p. 295[3] A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948- 1975), Roma 1983, p. 17 e ss.[4] C.BRAGA, “Maxima Redemptionis Nostrae Mysteria” 50 anni dopo (1955-2005) in Ecclesia Orans n. 23 (2006), p. 11, l’autore afferma chiaramente di aver vissuto in prima persona la riforma e di aver partecipato attivamente ai lavori.[5] A.BUGNINI, C.BRAGA, Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, sectio historica 25), Roma 1956; per i commenti storico critici si veda anche: Sacra Congregatio Rituum- sectio Historica n. 90, De instauratione liturgica maioris hebdomadae. Positio, Typis Pol. Vaticanis 1955. Sulle pubblicazioni di Annibale Bugnini che dovevano preparare la riforma cfr. A. BUGNINI, De solemni Vigilia Paschali instauranda. Commentarium ad decretum 9 febr 1951, in Ephemerides Liturgicae 65 (1951) suppl. ad fasc. I (pubblicato anche nella collezione Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, sectio historica 24); IDEM, Il primo esperimento della Veglia Pasquale restaurata, in Ephemerides Liturgicae 66 (1952).[6] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 300[7] A. BUGNINI, La Riforma liturgica., op. cit., p. 19[8] Ibidem[9] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 320-327 ; la conservazione del rito tradizionale fu tuttavia possibile in terra santa fino all’anno 2000.[10] L. GROMIER, Commentaire du Caerimoniale Episcoporum, Paris, 1959[11] L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée, in Opus Dei, 1962, n. 2, p. 76-90[12] Si veda la documentazione fotografica e la conferma data da Mons. Bartolucci che ricevette ordine da Mons. Dante di seguire i riti tradizionali : P. CIPRIANI, S. CARUSI (a cura di ), Intervista a Mons. Domenico Bartolucci, su Disputationes Theologicae (http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2009/08/mons-bartolucci-interviene-sulla.html)[13] C.BRAGA, op. cit,, p. 33[14] F. ANTONELLI, “La riforma liturgica della Settimana Santa: importanza attualità prospettive” in La Restaurazione liturgica nell’opera di Pio XII. Atti del primo Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale, Assisi- Roma, 12-22 settembre 1956, Genova 1957, p. 179-197, citato in C. BRAGA,op. cit, p. 34[15] Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus, iuxta editionem typicam vaticanam, Turonibus 1956 (d’ora in poi OHS 1956), p. 3 e 9; la numerazione della pagine è identica in ogni edizione tipica.[16]Archivio della Congregazione dei Santi, fondo Sacra Congregatio Rituum, Annotazione intorno alla riforma della liturgia della Domenica delle Palme, p. 9, citato in N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 309[17] Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini Restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorum pontificum cura recognitum a Pio X Reformatum et Benedicti XV Auctoritate Vulgatum, editio vigesima quinta juxta typicam vaticanam, Turonibus MCMXLII (d’ora in poi MR 1952), p. 455[18] L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée, cit., p. 3[19] MR 1952, p. 129[20] OHS 1956, p. 3[21] MR 1952, xxvii[22]OHS 1956, p. 3[23] C. BRAGA, op. cit., p.22[24] MR 1952, p. 129-132[25] OHS 1956, p. 3, 4[26] OHS 1956, p. 3; cfr. anche la nota 13[27] C.BRAGA, op. cit., p. 306[28]MR 1952, p. 131, 132[29] OHS 1956, p. 3, 4[30] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 307[31]ibidem[32] ibidem[33] ibidem[34] ibidem[35] MR 1952, p. 133, 134[36] OHS 1952, p. 7[37] P.MARTINUCCI, Manuale Sacrarum Caerimoniarum, Roma 1912, Editio tertia, pars I, vol. II, p. 183[38] OHS 1956, p. 8[39] MR 1952, p. 135[40] ibidem[41]OHS 1956, p. 9[42] ibidem[43] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 309[44] C.BRAGA, op. cit., p. 25[45] OHS 1956, p. 14[46] MR 1952, p. 141[47] OHS 1956, p. 11[48]N.GIAMPIETRO, op. cit., p. 304, 305[49] MR 1952, p. 137[50] OHS 1956, p. 15; nel testo si fa divieto di aggiungere le vecchie orazioni previste.[51] C.BRAGA, op. cit., p. 28; N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 304, 305[52] MR 1952, p. 118, 142[53] OHS 1956, p. 17[54] MR 1952, p. 143, 144[55] OHS 1956, p. 22[56] MR 1952, p. 149, 150[57] OHS 1956, p. 55, rubrica n. 4[58] C.BRAGA, op. cit., p. 26[59] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 294[60] C. BRAGA, p. 27[61] P. MARTINUCCI, op, cit., pag. 201 (n° 24), pag.73 (n° 293)[62] OHS 1956, p. 55, il tabernacolo deve inoltre essere vuotato delle ostie precedentemente consacrate.[63] Ibidem[64] MR 1952, p. 154 e ss[65] OHS 1956, p. 57[66] C. BRAGA, op. cit., p. 17[67] MR 1952, p. 158, 159[68] OHS 1956, p. 61[69] Cerimoniale Episcoporum, l. II, cap. XXIX, 3[70] OHS 1956, p. 64[71] OHS 1956, p. 65, oppure il trasporto della croce è incluso in quel vago passaggio “celebrans (..) denudat omnia altaria ecclesiae”, ibidem, p. 63 nota n. 7[72] MR 1952, p. 158[73] OHS, p. 65[74] N. GIAMPIETRO, op. cit., p.315[75] MR 1952, p. 160[76] OHS, p. 64[77] MR 1952, p. 171[78] N. GIAMPIETRO, p. 304, 305[79] MR 1952, p. 164[80] OHS, p. 64[81] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 314[82] C.BRAGA, op. cit., p. 28[83] C.BRAGA, p. 30[84]MR 1952, p. 160[85] Sul significato da attribuire a questi termini si veda il decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 10 giugno 1948, in Acta Apostolicae Sedis, XL, 1948, p. 342[86] Aggiungiamo la constatazione, dell’ordine della storia del costume, che nei messali che si consultano, o nei fascicoli dell’ “Ordo” a questo punto si rinvengono correzioni a penna o foglietti volanti che ricordino al celebrante, senza obbligarlo ad acquistare un altro messale, le innumerevoli correzioni apportate alle orazioni a epoche differenti a partire dagli anni cinquanta, segno inequivocabile di una liturgia che è, ci si conceda l’espressione, in “evoluzione permanente”.[87] C. BRAGA, op. cit., p. 30[88] ibidem[89]A.BUGNINI, Le nuove orazioni del Venerdì Santo, in L’Osservatore Romano, del 19 marzo 1965[90] MR 1952, p. 169[91] OHS 1956, p. 78[92] C. BRAGA, op. cit., p. 30, 31[93] MR 1952, 171[94] OHS 1956, 82[95] C. BRAGA, op. cit., p. 28. La conferma di quest’avversione di alcuni membri della Commissione per la dicitura “sepolcri” si ritrova descritta anche in N. GIAMPIETRO, op. cit, p. 312[96] MR 1952, p. 174[97] OHS 1956, p. 82[98] MR 1952, p. 174[99] OHS 1956, p. 83[100] C.BRAGA, p. 18[101] MR 1952, p. 175[102] OHS 1956, p. 83[103] N. GIAMPIETRO, op. cit. , p. 297[104] MR 1952, p. 174[105] OHS 1956, p. 83[106] N.GIAMPIETRO, op. cit., p. 297[107] MR 1952, p. 176[108] OHS 1956, p. iv[109] N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 314[110] OHS 1956, p. 86[111] MR 1952, p. 178[112] OHS 1956, p. 88[113] MR 1952, p. 178[114] OHS 1956, p. 89[115] N.GIAMPIETRO, op. cit., p. 318[116] OHS 1956, p. 94[117] OHS 1956, p. 94[118] OHS 1956, p. 94[119] MR 1952, p. 179-185; in sede storica si potrà discutere dell’evoluzione della connessione delle parti cantate con i gesti, assegnando epoche diverse all’introduzione dei gesti in relazione all’evoluzione del testo; tuttavia non si può negare lo sviluppo simbiotico di ritualità gestuale e significato delle parole nel corso della storia, innegabilmente esso si era da secoli stabilizzato, in modo armonioso e significativo, sotto il sigillo della tradizione.[120] OHS 1956, p. 101-102, 113-114[121] MR 1952, p. 207[122]OHS 1956, p. 103[123] C. BRAGA, p. 23[124] C.BRAGA, p. 18, 19[125] MR 1952, p. 199 e ss.[126] OHS 1956, p. 111; una rubrica alquanto confusa è prevista alla rubrica n. 23 nell’eventuale uso di un Battistero situato separato dalla chiesa, in questo caso il “sicut cervus” è cantato al momento opportuno, non è comprensibile il perché di questa incongruenza che contraddice la rubrica precedente.[127] MR 1956, p. 199[128] OHS 1956, p. 112[129] OHS 1956, p. 112[130] OHS 1956, p. 112[131] OHS 1956, p. 113-115[132] MR 1952, p. 210[133] OHS 1956, p. 115[134]MR 1952, p. 210[135] OHS 1956, p. vi, nota 16[136] MR 1952, p. 247[137] MR 1952, p. 336 e ss.[138] C.BRAGA, op. cit., p. 18[139] J. Card. RATZINGER, “A dieci anni dal motu proprio Ecclesia Dei”, conferenza del 24-10-1998

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