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giovedì 13 novembre 2014

Il Concilio Vaticano I e il sinodo del 2014



di Roberto de Mattei

La fase storica che si apre dopo il Sinodo del 2014 esige da parte dei cattolici non solo la disponibilità alla polemica e alla lotta, ma anche un atteggiamento di prudente riflessione e studio dei nuovi problemi che sono sul tappeto.
Il primo di questi problemi è il rapporto dei fedeli con un’autorità che sembra venire meno al suo compito. Il cardinale Burke in un’intervista a “Vida Nueva” del 30 ottobre ha affermato che «c’è una forte sensazione che la Chiesa sia come una nave senza timone». L’immagine è forte ma perfettamente corrispondente al quadro generale.

La strada da seguire in questa confusa situazione non è certo quella di sostituirsi al Papa e ai vescovi alla guida della Chiesa, il cui supremo timoniere resta in ogni caso Gesù Cristo. La Chiesa non è infatti un’assemblea democratica, ma una società monarchica e gerarchica, divinamente fondata sull’istituzione del Papato, che ne rappresenta la pietra insostituibile. Il sogno progressista di repubblicanizzare la Chiesa e trasformarla in una condizione di sinodalità permanente è destinato a infrangersi contro la costituzionePastor Aeternus del Vaticano I che ha definito non solo il dogma dell’infallibilità, ma innanzitutto quello del pieno e immediato potere del Papa su tutti i vescovi e su tutta la Chiesa.

Nelle discussioni del Concilio Vaticano I, la minoranza anti infallibilista, riecheggiando le tesi conciliariste e gallicane, affermava che l’autorità del Papa non risiede nel solo Pontefice, ma nel Papa unito ai vescovi. Un gruppetto di Padri conciliari chiese a Pio IX di affermare nel testo dogmatico che il Pontefice è infallibile per la testimonianza delle Chiese (“nixus testimonio Ecclesiarum”), ma il Papa volle ritoccare in senso opposto lo schema, facendo aggiungere alla formula «ideoque eiusmodi Romani Pontificis definitionis esse ex se irreformabilis» l’inciso «non autem ex consensu Ecclsiae» (Queste definizioni del Romano Pontefice sono quindi irreformabili per sé e non per il consenso della Chiesa), per chiarire definitivamente, che l’assenso della Chiesa non costituiva assolutamente condizione di infallibilità.

Il 18 luglio alla presenza di una immensa moltitudine che affollava la basilica, il testo finale della costituzione apostolica Pastor aeternus fu approvato con 525 voti favorevoli e 2 contrari. Cinquanta cinque membri dell’opposizione si astennero. Immediatamente dopo il voto Pio IX promulgò solennemente come regola di fede la costituzione apostolica Pastor aeternus.

La Pastor Aeternus stabilisce che il primato del Papa consiste in un vero e supremo potere di giurisdizione, indipendente da ogni altro potere, su tutti i Pastori e su tutto il gregge dei fedeli. Egli possiede questo potere supremo non per delegazione da parte di tutti i vescovi o di tutta la Chiesa, ma in virtù di un diritto divino. Il fondamento della sovranità pontificia non consiste nel carisma della infallibilità, ma nel primato apostolico che il Papa possiede sulla Chiesa universale come successore di Pietro e principe degli Apostoli.

Il Papa non è infallibile quando esercita il suo potere di governo: le leggi disciplinari della Chiesa, a differenza di quelle divine e naturali, possono infatti mutare. Ma è di fede divina, e quindi garantita dal crisma dell’infallibilità, la costituzione monarchica della Chiesa, che affida al Pontefice romano la pienezza della autorità. Questa giurisdizione comprende, oltre al potere di governo, quello di Magistero.

La costituzione Pastor Aeternus stabilisce con chiarezza quali sono le condizioni della infallibilità pontificia. Queste condizioni furono ampiamente illustrate nel suo intervento dell’11 luglio 1870 da mons. Vincenzo Gasser, vescovo di Bressanone e relatore ufficiale della deputazione della fede. In primo luogo precisò mons. Gasser, il Papa non è infallibile come persona privata, ma come “persona pubblica”. E come “persona pubblica” si deve intendere che il Papa stia adempiendo il suo ufficio, parlando ex cathedracome Dottore e Pastore universale; in secondo luogo il Pontefice deve esprimersi in materia di fede o di costumi, res fidei vel morum. Infine egli deve voler pronunziare una sentenza definitiva sulla materia oggetto del suo intervento. La natura dell’atto che impegna l’infallibilità del Papa deve essere espressa dalla parola «definire», che ha come correlativo la formula ex cathedra.

L’infallibilità del Papa non significa in alcun modo che egli goda, in materia di governo e di magistero, di un potere illimitato e arbitrario. Il dogma dell’infallibilità mentre definisce un supremo privilegio, ne fissa dei confini precisi, ammettendo la possibilità dell’infedeltà, dell’errore, del tradimento. Nelle preghiere per il Sommo Pontefice non ci sarebbe altrimenti bisogno di pregare «ut non tradat eum in animam inimicorum eius». Se fosse impossibile che il Papa passasse al campo nemico non occorrerebbe pregare perché ciò non avvenga. Ma il tradimento di Pietro è il paradigma di una infedeltà possibile, che incombe, da allora, su tutti i Papi della storia, fino alla fine del mondo.

Il Papa, pur essendo la somma autorità sulla terra, è sospeso tra le vette di una eroica fedeltà al suo mandato e l’abisso, sempre presente, dell’apostasia. Sono questi i problemi che il Concilio Vaticano I avrebbe dovuto affrontare se non fosse stato sospeso il 20 ottobre 1870 un mese dopo l’entrata dell’esercito italiano in Roma. Sono questi i problemi che i cattolici legati alla Tradizione devono oggi studiare e approfondire, Senza in alcun modo negare l’infallibilità del Papa e la sua suprema autorità di governo, è possibile e in che modo resistergli, se egli viene meno alla sua missione, che è quella di garantire la trasmissione inalterata del deposito della fede e della morale consegnato da Gesù Cristo alla Chiesa?

Non fu questa purtroppo la strada seguita dal Concilio Vaticano II, che pure si propose di continuare e in qualche modo integrare il Vaticano I. Le tesi della minoranza anti-infallibilista, sconfitta da Pio IX, riaffiorarono nell’aula del Vaticano II, sotto la nuova forma del principio di collegialità. Secondo alcuni esponenti della Nouvelle Théologie, come il padre Yves Congar, la minoranza del 1870 ottenne dopo quasi un secolo un clamorosa rivincita. Se il Vaticano I aveva concepito il Papa come vertice di una societasperfecta, gerarchica e visibile, il Vaticano II e soprattutto i provvedimenti postconciliari ridistribuirono il potere in senso orizzontale, attribuendolo alle conferenze episcopali e alle strutture sinodali.

Oggi il potere della Chiesa sembra essere stato trasferito al “popolo di Dio”, che comprende le diocesi, le comunità di base, le parrocchie, i movimenti e le associazioni di fedeli. L’infallibilità e la suprema giurisdizione, sottratte all’autorità pontificia, vengono attribuite alla base cattolica, di cui i Pastori della Chiesa devono limitarsi ad interpretare ed esprimere le esigenze. Il Sinodo dei Vescovi di ottobre ha messo in evidenza i risultati catastrofici di questa nuova ecclesiologia, che pretende fondarsi su di una “volontà generale” espressa attraverso sondaggi e questionari di ogni tipo. Ma quale è oggi la volontà del Papa, al quale compete, per divino mandato, la missione di custodire la legge naturale e divina?

Quel che è certo è che nelle epoche di crisi, come quella che attraversiamo, tutti i battezzati hanno il diritto di difendere la loro fede, anche opponendosi ai Pastori inadempienti. I Pastori ed i teologi autenticamente ortodossi hanno, da parte loro, il compito di studiare l’estensione ed i limiti di questo diritto di resistenza.

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