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martedì 16 settembre 2014

Le fiammeggianti memorie del convertito che Paolo VI voleva far cardinale



Paolo VI fu seriamente sul punto di farlo cardinale, se non l’avesse trattenuto la feroce reazione contraria che la nomina avrebbe sicuramente provocato tra i vescovi francesi, in testa l’allora arcivescovo di Parigi e presidente della conferenza episcopale, cardinale François Marty, personaggio di “crassa ignoranza” e “privo della più elementare capacità di giudizio”.

Ad aver mancato la porpora e ad aver bollato così un suo arcinemico è stato il grande teologo e liturgista Louis Bouyer (1913-2004), come si apprende dalle sue fiammeggianti “Mémoires” postume, pubblicate questa estate dalle Éditions du Cerf dieci anni dopo la sua morte.

Cresciuto luterano e divenuto pastore a Parigi, Bouyer si convertì nel 1939 al cattolicesimo, attratto più di tutto dalla sua liturgia, di cui si segnalò prestissimo geniale cultore con il saggio capolavoro “Il mistero pasquale”, sui riti della settimana santa.

Chiamato a far parte di una commissione preparatoria al Concilio Vaticano II, Bouyer ne colse da subito a occhio nudo la grandezza ma insieme le miserie, e presto se ne ritrasse. Trovava insopportabile l’ecumenismo a buon mercato, “da Alice nel paese della meraviglie”, di quella stagione ruggente. Tra i pochi teologi conciliari da lui salvati c’è il giovane Joseph Ratzinger, che nel libro è fatto segno soltanto di elogi. E viceversa, tra i pochi alti uomini di Chiesa che apprezzarono a prima vista il talento e i meriti di questo teologo e liturgista così fuori dagli schemi, fa spicco Giovanni Battista Montini quando era ancora arcivescovo di Milano.

Divenuto papa col nome di Paolo VI, Montini volle Bouyer nel consiglio per la riforma dei libri liturgici, presieduto “in teoria” dal cardinale Giacomo Lercaro, “generoso” ma “incapace di resistere alle manovre dello scellerato e mellifluo” Annibale Bugnini, segretario e factotum del medesimo organismo, “sprovvisto di cultura come di onestà”.

A Bouyer capitò di dover rimediare in extremis a una orribile formulazione della nuova II preghiera eucaristica, dalla quale Bugnini voleva espungere persino il “Sanctus”. E dovette riscrivere lui una sera, sul tavolo di una trattoria di Trastevere, assieme al liturgista benedettino Bernard Botte, il testo di quel nuovo canone che oggi si legge nelle messe, con l’assillo di dover consegnare il tutto la mattina dopo.

Ma il peggio è quando Bouyer ricorda il perentorio “Lo vuole il papa” con cui Bugnini usava mettere a tacere i membri della commissione ogni volta che si opponevano a lui, ad esempio nello smantellare la liturgia dei defunti o nel purgare i salmi dell’ufficio divino dai versetti “imprecatori”.

Paolo VI, conversando poi con Bouyer di una di queste riforme “che il papa s’era trovato ad approvare senza esserne affatto soddisfatto più di me” gli chiese: “Ma perché vi siete impegolati tutti in questa riforma?”. E Bouyer: “Ma perché Bugnini ci assicurò che lei la voleva assolutamente”. Al che Paolo VI: “Ma è mai possibile? Lui mi disse che voi eravate unanimi nell’approvarla…”.

Paolo VI esiliò lo “spregevole” Bugnini a Teheran come nunzio, ricorda Bouyer nelle sue “Mémoires”, ma quando ormai il danno era consumato. Per la cronaca, il segretario personale di Bugnini, Piero Marini, sarebbe poi divenuto dal 1983 al 2007 il regista delle cerimonie pontificie, e oggi addirittura si vocifera di lui come venturo prefetto della congregazione per il culto divino.

Nell’ultimo anno della sua vita, Paolo VI invitò Bouyer a passare con lui “qualche settimana di vacanza a Castel Gandolfo”. Ma a questo straordinario segno d’amicizia e di stima il teologo, sovraccarico di impegni, non poté aderire. E se ne dolse, perché il 6 agosto di quel 1978 l’amato papa Montini morì.

L’anno dopo il cardinale Jean Villot rivelò a Bouyer che Paolo VI avrebbe voluto farlo cardinale, non fosse stato per l’asprezza delle previste reazioni intraecclesiastiche.

Alla notizia della mancata nomina, Bouyer ricorda che “si sentì sollevato”, anche perché il suo pensiero era andato subito all’infelice sorte di un altro grande teologo e liturgista insignito invece della porpora, il gesuita Jean Daniélou, “fatto segno di ignobili calunnie dai suoi stessi confratelli” prima e dopo la sua morte nel 1974.

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