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lunedì 12 maggio 2014

Vi trasmetto quello che ho ricevuto


“Ecce Sacerdos magnus, qui in diebus suis placuit Deo, et inventus est 

justus. Non est inventus similis illi qui conservavit legem excelsi"
La Tradizione è l’anima della Chiesa, la linfa vitale e santificante, dalla quale nessun cattolico può prescindere. La Tradizione della Chiesa, orale e scritta, tutta intera, non parziale, non a frammenti, custodisce la Verità lasciata in eredità da Cristo, l’Unto di Dio, il Sacerdote salito e morto sulla Croce per la salvezza di ciascuno. A questa Tradizione ha sempre fatto riferimento Monsignor Marcel Lefebvre che riuscì, con la sua inossidabile, inscalfibile Fede e per speciale grazia divina, a diagnosticare le cause della crisi della Chiesa e, come un buon medico, a consegnare ai suoi contemporanei e alle generazioni future la terapia corretta per la guarigione.

Nel testo recentemente uscito in libreria Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa (Sugarco, € 18,80), curato da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Monsignor Lefebvre illustra con Fede e sapienza, con lucidità e chiarezza, le ragioni essenziali della Tradizione: essa non è realtà chiusa in se stessa e nel suo passato, con i suoi insegnamenti, i suoi riti, le sue preghiere; non è una suggestione per pochi e sparuti nostalgici, bensì la vita perenne della Chiesa, quella che non è legata ad un periodo storico preciso e si esaurisce in esso, ma è il cuore pulsante della Sposa di Cristo dal quale si dipartono tutte le arterie che irrorano l’unica religione vera, come la proclamò è la cantò sant’Agostino d’Ippona (354-430) e l’altro convertito, lontano nel tempo e nello spazio, ma non nella comunione di santità, il Beato John Henry Newman (1801-1890), il valoroso e impavido pastore che dichiarò guerra aperta, nel XIX secolo, al liberalismo come la dichiarerà, nel secolo successivo, il paladino della Tradizione, Monsignor Marcel Lefebvre.


La Rivelazione venne comunicata oralmente da Cristo ai Dodici, con il compito di trasmetterla ovunque e di generazione in generazione. Afferma Monsignor Lefebvre: «Da quella promessa fino ai giorni nostri la storia della misericordia di Dio verso l’umanità è la storia dell’antico e del nuovo Testamento e pertanto tutta la storia della Chiesa. Lo Spirito soffia dove vuole e si sceglie, per venire in soccorso alla Chiesa in pericolo, Pontefici e umili fedeli, prìncipi e pastorelle. […] lo Spirito Santo non potrà che far eco a Nostro Signore. Per questo, seppure con modalità esteriori diverse, coloro che Egli ha scelto hanno ripetuto e fatto le medesime cose, si sono nutriti alle stesse fonti per rendere vitalità alla Chiesa. Sant’Ilario, san Benedetto, sant’Agostino, sant’Elisabetta, san Luigi, santa Giovanna d’Arco, san Francesco d’Assisi, sant’Ignazio, il santo curato d’Ars, santa Teresa del Bambin Gesù […]. Tutti tennero in grande stima i sacramenti e particolarmente l’Eucaristia e il Santo Sacrificio della Messa. Tutti manifestarono il distacco dai beni di questo mondo e lo zelo per la salvezza dei peccatori. Non avevano nulla di più caro che la gloria di Dio, di Nostro Signore Gesù Cristo, l’onore della Sua unica Chiesa. La Sacra Scrittura era loro familiare e veneravano la Tradizione della Chiesa espressa nelle professioni di fede, nei Concili e nei catechismi, dove si trova l’autentica dottrina trasmessa dagli apostoli» (pp. 77-78).


La giovinezza della Tradizione

Come il Figlio di Dio appartiene a tutti i tempi, anche la Tradizione appartiene a tutte le generazioni, ecco la giovinezza perenne della Chiesa, Sposa di Cristo, infatti, scrive ancora Monsignor Lefebvre, ricordando san Paolo: «Jesus Christus heri, hodie et in saecula», «Gesù Cristo ieri, oggi e per tutti i secoli» (Eb 13,8) e ciò che è eterno non passa, perché “è”.

Tuttavia la Chiesa militante cammina e allora «può accadere che il messaggio si attenui, che i nemici della Chiesa riescano a soffocare la buona semente, che la negligenza dei pastori attenui la fede, che i costumi si corrompano, la cristianità presti un orecchio benevolo alle critiche ironiche di questo mondo perverso» (p. 79), dove Satana non minaccia soltanto ciò che sta fuori dalla Chiesa, ma cerca con violenza di insinuarsi anche all’interno nel tentativo che essa si autodemolisca: «Allora i rinnovamenti si impongono; ma sull’esempio di Nostro Signore che è l’eco del Padre, dello Spirito Santo che è l’eco del Figlio, gli apostoli non hanno mai cessato di ripetere ai loro discepoli: ricordate ciò che vi è stato detto, rimanete nella dottrina che vi è stata insegnata, conservate il deposito della fede, non vi lasciate raggirare dai falsi profeti, mentitori, figli di perdizione, destinati al fuoco eterno con tutti coloro che li seguono. Rileggiamo le epistole di san Paolo a Timoteo e a Tito, le epistole di san Pietro, di san Giacomo, di san Giovanni.

Se si cerca in san Giovanni Crisostomo (344 /354-407), in sant’Ilario di Poitiers (315 ca-367), in sant’Agostino il loro criterio di giudizio sugli errori del loro tempo, si osserva che essi ritornano sempre a ciò che hanno insegnato coloro che avevano udito parlare gli apostoli o i loro testimoni diretti, e soprattutto a ciò che avevano insegnato coloro che si erano succeduti sulle cattedre degli apostoli, in particolare sulla cattedra di Pietro» (p.79).

In queste pagine emerge tutto l’amore di monsignor Lefebvre per Roma, patria dell’integra Tradizione, la città scelta da Gesù per la propagazione della Tradizione: «Domine, quo vadis?» («Signore dove vai?») gli chiese Pietro quando proprio da Roma era tentato, per paura, di fuggire e il Signore, guardandolo, gli rispose: «Venio Romam iterum crucifigi»(«Vengo a Roma a farmi crocifiggere di nuovo»). A Roma dunque, non più a Gerusalemme.

Ogni volta che la Chiesa è stata ferita e colpita, si è sempre risollevata grazie alla regola d’oro della Tradizione e, anche oggi, afferma Monsignor Lefebvre, occorre fare riferimento all’aureo filo della fedele e incorrotta trasmissione: «Bisogna dunque ritornare alla regola d’oro di tutta la Tradizione, sia per la fede che per i costumi» (p. 81).


La Santa Messa e la santità sacerdotale

In questo salutare e reviviscente ritorno alla Tradizione sono essenziali due elementi: la Santa Messa di sempre, dove si rinnova il Santo Sacrificio del Signore Gesù e i sacerdoti. Alla Santa Messa Monsignor Lefebvre non ha rinunciato, incurante dei costi personali pagati e pagandi, quella Messa liberalizzata nel 2007, dopo decenni di persecuzione, dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.

Diceva il Vescovo che comprese che dalla salvaguardia della Santa Messa di sempre avrebbe trovato giovamento il Credo dei fedeli: «Contemplare la Santa Messa significa contemplare Gesù sulla croce. ContemplarLo come ha fatto la Madonna, che stava accanto a Lui, e vedere in quella croce il culmine dell’amore di Dio per noi. Potremmo definire Gesù come l’amore spinto fino al sacrificio di sé, che è il sacrificio supremo. È proprio questo, Nostro Signore: l’amore per il Padre e l’amore per il prossimo spinto fino al sacrificio supremo, fino all’ultima goccia del Suo sangue. È questa la più grande manifestazione dell’amore di Gesù per il Padre e per noi» (pp. 208-209).

Monsignor Lefebvre non ha rinunciato neppure alla santità sacerdotale per la quale ha speso immense energie; al fine di custodirla e diffonderla ha fondato un Seminario, che ha mantenuto i parametri della formazione preconciliare, ma ha anche dato vita ad un’istituzione, la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Ecco dunque che «senza alcuna ribellione, noi proseguiamo la nostra opera di formazione sacerdotale alla luce del magistero di sempre, persuasi di non poter rendere miglior servizio alla santa Chiesa cattolica, al Sommo Pontefice e alle generazioni future. “Se accadesse”, dice san Paolo, “che noi stessi o un angelo venuto dal cielo vi insegnassimo cose diverse da ciò che vi ho insegnato, che sia anatema”. San Paolo si fa anatema lui stesso qualora insegni delle novità, qualora insegni qualcosa che non ha insegnato un tempo» (p. 84), che non è stato trasmesso, quindi, dalla Tradizione…


Il tentativo di calpestare la Tradizione

Nel Concilio Vaticano II si è tentato, a volte con prepotenza, a volte con blandizia e furberia, di lasciare alle spalle la Tradizione, come se la Chiesa dovesse liberarsi da una zavorra, da un ferro vecchio: il mondo moderno, “emancipato” e “intelligente”, scientista e amante del progresso, lo esigeva, lo pretendeva. Il Concilio pastorale del XX secolo, il primo della storia della Chiesa con questa caratterizzazione, volle provare a dialogare con il mondo contemporaneo, con le sue filosofie e le sue prassi, con la sua religione antropocentrica, come lucidamente chiarito da Paolo VI (1897-1978) nell’allocutio di chiusura del Concilio stesso (7 dicembre 1965). Dichiara Monsignor Lefebvre: «Una minoranza liberale fra i padri del Concilio e soprattutto fra i cardinali fu attivissima, molto organizzata, e quanto mai appoggiata da una pleiade di teologi modernisti e da numerosi segretari. Basta pensare all’enorme produzione di pubblicazioni dell’IDOC [rivista teologica di «documentazione trans-confessionale per il rinnovamento religioso e umano»], sovvenzionata dalle Conferenze episcopali tedesca e olandese. Essi ebbero gioco facile nel chiedere costantemente l’adattamento della Chiesa all’uomo moderno, cioè all’uomo che vuole liberarsi da tutto, nel presentare la Chiesa come inadatta, impotente, e nel far battere il petto ai predecessori. La Chiesa viene presentata altrettanto colpevole che i protestanti e gli ortodossi delle separazioni di una volta. Essa deve chiedere perdono agli attuali protestanti» (p. 96).

In questa atmosfera di ebbrezza di liberazione si tennero i lavori del Concilio Vaticano II, un’atmosfera alla quale si oppose, con temerarietà, il Vescovo Marcel Lefebvre, che votò la maggioranza dei documenti conciliari, ma che si oppose fermamente a quelle novità di chiarissimo carattere liberale. «… io non sono né mai ho sognato di definirmi “il capo dei tradizionalisti”. Altri hanno affermato questo, anche a Roma, ma io non lo sono affatto. Perché anch’io sono un semplice cattolico» (p. 100) e come semplice cattolico, come sacerdote e come Vescovo, Monsignor Lefebvre si attenne ai principi dettati dal grande difensore della Tradizione, san Vincenzo di Lérins (?-450 ca), il quale scrisse, ben conoscendo il pericolo delle eresie:

«Cosa farà il cristiano cattolico se qualche piccola parte della Chiesa si staccherà dalla comunione, dalla fede universale? Quale altra decisione prendere, se non preferire alla parte cancrenosa e corrotta il corpo nel suo insieme che è sano? E se qualche altro nuovo contagio cerca di avvelenare non più una piccola parte della Chiesa, ma tutta quanta, allora sarà sua massima cura attenersi all’antico, che evidentemente non può essere sedotto da alcuna novità menzognera» (san V. di Lérins, Commonitorium). Sulla base di tale principio Monsignor Lefebvre trovò il coraggio di parlare ad alta voce e di difendere la Tradizione considerando questa resistenza «il più grande servizio che possiamo rendere alla Chiesa e al successore di Pietro» (p. 117).


Cristo è il Re

Il ritorno alla Croce è basilare: Cristo ha regnato attraverso la Croce, perché quella Croce ha vinto il peccato, ha vinto il demonio, ha vinto la morte, perciò «… la Vergine Maria, ai piedi della croce, ve lo ripete. Ella, col cuore trafitto, colmo di sofferenze e di dolore, ma ugualmente pieno di gioia nell’unirsi al sacrificio del suo divin Figlio, vi ripete: “Siate cristiani, siate cattolici”. Non lasciamoci allettare da tutte le idee mondane, da tutte le correnti del mondo che trascinano verso il peccato e l’inferno. Se vogliamo andare in cielo, dobbiamo seguire Gesù, portare la nostra croce e seguirLo; imitarLo nella Sua croce, nella Sua sofferenza, nel Suo sacrificio» (p. 123).

Monsignor Lefebvre, nella tempesta delle idee rivoluzionarie e nella bramosia delle novità, scelse di continuare nel terreno arato in venti secoli di Cristianesimo e definì tale decisione: «operazione sopravvivenza della Tradizione» (p. 149).

Occorre, spiega ancora, custodire il Testamento di Gesù Cristo: la Santa Messa, fondata sul sacrificio, che è «tutto per Dio» (p. 122), perciò, con afflato mistico, grida: «per la gloria della Santissima Trinità, per l’amore di Nostro Signore Gesù Cristo, per la devozione alla Santissima Vergine Maria, per l’amore della Chiesa, per l’amore del Papa, per l’amore dei vescovi, dei sacerdoti, di tutti i fedeli, per la salvezza del mondo… custodite il testamento di Gesù Cristo, custodite il Sacrificio di Nostro Signore! Conservate la Messa di sempre!» (p.125).

La concezione e la spiritualità di monsignor Lefebvre sul Santo Sacrificio sono riconducibili a quelle del santo Curato d’Ars (1786-1859) e di padre Pio da Pietrelcina (1887-1968): «Nella Messa e sulla croce la Vittima e il Sacerdote principale sono identici. La Vittima è il “Cristo stesso”, è presente sotto le specie del pane e del vino» (p. 162).

Tutte le sublimi chiese che sono state edificate nel tempo sono state innalzate per questa Santa Messa e per questa Messa sono stati formati sacerdoti degni di tale compito, con Fede autentica, in Grazia di Dio, dove vita naturale e vita soprannaturale si incontrano felicemente e si fondono l’una nell’altra. Non è semplice, ma possibile, infatti se «veramente noi viviamo con Dio, se veramente siamo con il Signore e ci abbandoniamo a Lui, stiamo sicuri che Egli, giorno per giorno, ci indicherà la via da seguire. […] se restiamo tra le braccia di Dio saremo senz’altro sicuri di essere Suoi figli obbedienti e intimamente uniti a Lui» (p. 189).

Materialismo, liberalismo, indifferentismo, latitudinarismo… hanno infettato la società, dove tutti i culti delle più svariate religioni sono stati posti sullo stesso piano della Fede cattolica. Nessuno sembra più credere alla regalità di Gesù Cristo, ma il giorno in cui Egli tornerà «improvvisamente sulle nuvole del cielo, costoro saranno costretti a dire: “Ah! Egli è Re davvero. Noi non pensavamo che fosse possibile”. Sì, Nostro Signore è Re ed Egli solo sarà Re: non ve ne saranno altri. La gente non ci crede, come se fosse una favola. Essi vivono in un tale liberalismo, in un così diffuso laicismo, da esserne profondamente contagiati. Sono impastati di materialismo. Perciò non si pone più Gesù al posto che Gli spetta». (p. 193). Come non ricordare in queste affermazioni le parole dell’Evangelista Matteo, il quale descrive ciò che accadde sul Calvario quando Gesù spirò sulla Croce? «Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”» (Mt 27, 51-54 ).


L’amore per Roma

La salvezza delle anime, «salus animarum suprema lex», come insegna san Tommaso (Cfr. Quaestiones quodlibetales, XII, q.16, a. 2; anche Codice di Diritto canonico 1983, can. 1752), stava in cima ai pensieri del Vescovo che, simile all’aquila quando plana nelle altezze, riuscì a mantenere una visione globale della situazione che veniva a crearsi. Rimase, così, fuori dalla pandemia liberaleggiante e, conservando umiltà e semplicità, riuscì a trasmettere tutto ciò che aveva ricevuto: integrità della Fede di Santa Romana Chiesa, primato petrino, dottrina cattolica, celebrazione del Santo Sacrificio di sempre, santità sacerdotale.

Chiarissimo da queste pagine, che trasudano Amore per la Trinità, per Maria Santissima, per i Santi, tutto il suo attaccamento per Roma: egli soffre che i massoni, cercando di distruggere la Chiesa, la relegarono nella Città del Vaticano, ma gioisce ogni volta che la raggiunge. Considerava, infatti, elemento imprescindibile, sia per i seminaristi che per i sacerdoti della Fraternità San Pio X, chiamati a «mai dimenticare» (p. 215), l’influenza romana sulla «nostra spiritualità, sulla nostra liturgia e anche sulla nostra teologia» (p. 215). Roma è sede di Pietro e monsignor Lefebvre rammenta il verso di Dante (1265-1321): «Onde Cristo è romano» (Purgatorio, XXXII, 102), perciò il Vescovo arriva alla determinazione che non si può essere «cattolici senza essere romani». Il Cristianesimo, per volontà di Dio, è stato colato nello stampo romano, quindi non «dimentichiamolo mai: spetta anche a noi custodire questa tradizione romana voluta dal Signore» (p. 216).

Monsignor Lefebvre, che dispiegò tutte le sue qualità e le sue energie per il trionfo della Verità, combatté con umiltà, evitando gli eccessi, anzi egli raccomandava la pacatezza e la tranquillità, lasciando perdere ogni tipo di sterile polemica perché, sosteneva, «non lavoriamo contro nessuno, né persone né istituzioni» (p. 231). Egli, con i suoi figli, quelli fedeli, lavorò e lavora non per distruggere, ma per costruire.

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